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COME CAMBIA LA CONTRATTAZIONE

Il nuovo accordo quadro sulle regole della contrattazione comporta un conto salato per il resto dei contribuenti e per i lavoratori una copertura contro l’inflazione inferiore rispetto al vecchio modello. E non è affatto detto che, attraverso la sua applicazione, si sviluppi la contrattazione di secondo livello. Proponiamo qui una soluzione che ha il pregio di non confondere la copertura contro l’inflazione con la ricerca di un legame più stretto fra salario e produttività. Perché sono due problemi diversi che vanno affrontati con strumenti diversi.

PIU’ CONCILIAZIONE PER LA GIUSTIZIA-LUMACA *

Per ottenere il recupero di un credito in Italia ci vogliono in media 1.210 giorni. Si tratta di un vero e proprio collo di bottiglia per l’economia e la competitività del paese. Gli organismi di conciliazione possono avere un ruolo importante nel miglioramento dell’efficienza della giustizia civile. Le soluzioni legislative dovrebbero quindi viaggiare su un doppio binario: rafforzare la qualità della conciliazione amministrata e introdurre il ricorso preventivo a questo strumento come condizione di procedibilità, almeno per alcune tipologie di controversie.

LA SENTENZA EUROPEA E LA RIFORMA DELLE PENSIONI*

LA CONTROVERSIA COMUNITARIA

Con la sentenza del 13 novembre 2008, la Corte di giustizia delle Comunità europee ha condannato la Repubblica italiana per la normativa in forza della quale i dipendenti pubblici hanno diritto a percepire la pensione di vecchiaia ad età diverse a seconda che siano uomini o donne. La procedura di infrazione non riguarda i dipendenti privati, perché il regime previdenziale amministrato dall’Inps è considerato un regime c.d. legale, di natura previdenziale in senso tecnico, conforme alla normativa comunitaria. Il regime gestito dall’Inpdap rientra invece, secondo la Commissione e la Corte di giustizia, tra i c.d. regimi professionali, ovvero quei regimi nei quali il trattamento pensionistico è pagato al lavoratore direttamente dal datore di lavoro. Ora, poiché l’art. 141 del Trattato Ce definisce come retribuzione “il salario o trattamento normale di base o minimo e tutti gli altri vantaggi pagati direttamente o indirettamente, in contanti o in natura, dal datore di lavoro al lavoratore, in ragione dell’impiego di quest’ultimo”, il divieto di ogni discriminazione retributiva in base al sesso va applicato anche alle pensioni dei dipendenti pubblici. Dalla sentenza della Corte di Giustizia deriva dunque, per lo Stato italiano, l’obbligo di parificare l’età pensionabile dei pubblici dipendenti tra uomini e donne quanto alla pensione di vecchiaia.
Il 13 gennaio 2009 il Governo ha inviato una nota alla Commissione europea nella quale si assicura la volontà dell’Italia di adempiere alla sentenza, si rappresenta che le possibili soluzioni tecniche sono allo studio, che esse saranno applicate secondo criteri di gradualità e flessibilità e, infine, che maggiori ragguagli circa le soluzioni prescelte saranno forniti al più presto. In caso di mancato adeguamento, la Commissione aprirebbe formalmente la procedura con una lettera di messa in mora. Le sanzioni consistono in una somma forfetaria e in una penalità di mora. Per l’Italia è stata fissata una somma forfetaria minima di 9.920.000 euro, mentre la penalità di mora può oscillare tra 22.000 e 700.000 euro per ogni giorno di ritardo nell’attuazione della seconda sentenza, a seconda della gravità dell’infrazione. Si tratta, come si vede, di somme molto ingenti.
L’urgenza di ottemperare alla sentenza deriva anche dal fatto che il giudice nazionale è tenuto a disapplicare qualsiasi disposizione discriminatoria senza doverne attendere la previa rimozione da parte del legislatore. Oggi, infatti, un dipendente pubblico di sesso maschile potrebbe adire il giudice nazionale per ottenere la pensione di vecchiaia a 60 anni, invocando la norma che prevede tale facoltà per le donne.

IL SISTEMA PENSIONISTICO ITALIANO

I dati sulle prestazioni di vecchiaia delle lavoratici del settore pubblico (per le quali il pensionamento a 60 anni è una possibilità non vincolante, introdotta con la riforma del 1995) consentono di evidenziare la consistenza della scelta di proseguire l’attività lavorativa anche se si sono maturati i requisiti per la pensione. La figura 1, che presenta la piramide per età di pensionamento dei percettori di pensioni dirette (vecchiaia, anzianità e inabilità) erogate dall’Inpdap, mostra che nel 2007 l’età modale per le donne è di 57 anni, ovvero di un anno inferiore a quella degli uomini; ma è elevata anche la frequenza delle uscite dal lavoro ad età più avanzate. In particolare si registra un picco in corrispondenza dei 60 anni, quando si ha la facoltà di accedere alla pensione di vecchiaia. Per le donne il ritiro avviene prevalentemente in corrispondenza dei requisiti previsti per il pensionamento di anzianità e per quello di vecchiaia; per gli uomini, invece, si distribuisce su di un arco di età più ampio, dato che il vincolo per la vecchiaia è più stringente ma più probabile l’uscita per anzianità, grazie a carriere lavorative più continuative. Le donne che si pensionano a 65 anni o anche ad età superiori non sono comunque poche (circa il 23 per cento delle uscite dal lavoro per vecchiaia).

Figura 1. Pensioni Inpdap dirette sorte nel 2007 – Piramide per età

Fonte: Inpdap, Trattamenti pensionistici dei pubblici dipendenti, anno 2007.

LA RISPOSTA ALLA SENTENZA DELL’ALTA CORTE DI GIUSTIZIA

Al fine di parificare l’età pensionabile tra uomini e donne nel pubblico impiego, le soluzioni astrattamente prospettabili, limitando il più possibile il perimetro dell’intervento normativo sono tre:

a)     Elevare, nel settore pubblico, l’età pensionabile delle lavoratrici parificandola a quella dei lavoratori, rendendo obbligatorio e non più facoltativo anche a loro l’accesso alla pensione di vecchiaia a 65 anni. Tale soluzione comporterebbe risparmi di spesa pensionistica. Senza effettuare un analogo intervento sul settore privato si aprirebbe, comunque, un problema di parità di trattamento nella normativa pensionistica riferita alle lavoratrici tra settore privato e pubblico impiego.
b)     Estendere nel settore pubblico anche agli uomini la facoltà di accesso alla pensione di vecchiaia all’età di 60 anni. Tale opzione sarebbe onerosa per la spesa pensionistica e, comunque, in contrasto con la tendenza generale all’aumento della vita media e dell’età pensionabile. Anche in questo caso, poi, verrebbe a crearsi una notevole disparità tra i lavoratori del settore privato e di quello pubblico.
c)     Fissare per entrambi i sessi un requisito di età flessibile per l’accesso facoltativo alla pensione di vecchiaia nel settore pubblico, nell’arco di età tra 60 e 65 anni, con costi per l’erario da quantificarsi e comunque crescenti in relazione alla diminuzione dell’età minima stabilita, lasciando per tutti il limite legale a 65 anni. Si tratterebbe, in ogni caso, di una misura in contrasto con la tendenza generale all’aumento della vita media e dell’età pensionabile, e che aprirebbe un’asimmetria nella normativa pensionistica riferita ai dipendenti di sesso maschile tra il settore pubblico e quello privato.

A queste tre ipotesi più “conservatrici” se ne possono affiancare altre due più innovative:

d)     Estendere ai dipendenti pubblici il regime previdenziale dell’Inps, considerato dalla Corte di Giustizia di tipo c.d. legale. Tale soluzione consentirebbe di mantenere la differenza di età pensionabile tra uomini e donne ed escluderebbe la creazione di una disparità nell’ordinamento interno tra dipendenti pubblici e privati; ma comporterebbe una riforma di tutto il sistema previdenziale più radicale di quanto finora considerato, anche dai progetti del passato governo: l’Inpdap dovrebbe essere completamente assorbito da parte dell’Inps fino a scomparire, e così il sistema delle contribuzioni figurative, le peculiarità del trattamento di fine servizio (Tfs) e i regimi speciali, con costi ed effetti di difficile quantificazione.
e)     Fissare l’età della pensione di vecchiaia, uguale fra generi, a regime nella Pubblica Amministrazione nell’arco flessibile dei 62-67 anni.Questa soluzione farebbe tesoro del fatto che già ora, a legislazione vigente, dal 2013 in poi l’età minima di accesso alla pensione di anzianità diverrà di 62 anni per tutti i lavoratori dipendenti (63 per i lavoratori autonomi) e, inoltre, i dipendenti pubblici possono optare di rimanere in servizio fino a 67 anni. E permetterebbe sia di parificare l’età pensionabile tra uomini e donne, sia di elevarla gradualmente, e quindi di ottenere per il sistema pensionistico pubblico risparmi di spesa. La soluzione aprirebbe uno squilibrio rispetto al settore privato, ma proporrebbe anche un cammino di equiparazione delle opportunità e di prolungamento della vita attiva per tutti i lavoratori, dato che l’aumento a 62 anni nel 2013 del requisito di età per la pensione di anzianità si applica a tutti i dipendenti, e anche nel privato è possibile già ora rimanere al lavoro fino a 67 anni. La scelta di estendere il provvedimento anche al privato, infine, potrebbe comportare rilevanti risparmi all’intero sistema previdenziale italiano (pubblico e privato) e liberare così le risorse necessarie a compensare gli svantaggi ai quali sono esposte le carriere delle lavoratrici dipendenti.
La delineazione delle ipotesi di possibile azione deve, ovviamente, comprendere anche l’ideazione di un periodo transitorio di messa a regime delle norme, durante il quale i requisiti di età per il pensionamento di vecchiaia vengano elevati a gradini (ad esempio di un anno ogni due anni, o simili). Al fine di verificare gli effetti sulla spesa previdenziale e, più in generale, sulla finanza pubblica, delle ipotesi qui sintetizzate, il Ministro Brunetta ha avviato una Commissione di studio composta da Giuliano Cazzola, Fiorella Kostoris, Filippo Patroni Griffi, Germana Panzironi, Maria Cozzolino, Riccardo Rosetti e da me. Il 19 gennaio la Commissione ha prodotto un primo progress report dei lavori, che è stato pubblicato sul sito del Ministero per la pubblica amministrazione, a questo indirizzo.
Nelle prossime settimane la Commissione intende concludere il proprio impegno con la pubblicazione della relazione definitiva; ma sarà lieta di considerare con cura suggerimenti e proposte che possano provenire dagli amici della Voce.info.

* L’autore è Consigliere economico del Ministro per la pubblica amministrazione e l’innovazione.

CLIMA DI CRISI

Quali sono le conseguenze della crisi economica per la causa dell’ambiente? Difficile dirlo a priori, perché molteplici sono gli effetti e le interrelazioni al livello di sistema economico. Ma anche se la tensione sul problema dovesse calare, compito del governo e delle politiche è di contrastare questa tendenza. Dopotutto, prima o poi, la crisi passerà, mentre il problema del clima resta. E così pure gli impegni internazionali da onorare. Meglio allora pensare a come agire, secondo le linee di un piano di intervento e rilancio verde.

INFRASTRUTTURE SENZA ECONOMIA

Contrastare la crisi anche attraverso il finanziamento di infrastrutture? L’esperienza insegna che per la realizzazione di opere utili, in tempi brevi e con costi certi, va riqualificata la spesa statale. Serve una logica di risultato e non di processo, con una chiara individuazione degli obiettivi dei diversi programmi di spesa e dei risultati attesi. E una adeguata definizione e quantificazione degli indicatori per misurarli. Non basta stanziare le risorse finanziarie, occorre modificare alcuni aspetti procedurali e superare incertezze e carenze informative.

LA CRISI AMERICANA RISPARMIA LE DONNE?

Gli ultimi dati del mercato del lavoro statunitense mostrano che più dell’80 delle perdite di posti di lavoro hanno riguardato gli uomini. Gli uomini infatti sono  prevalentemente occupati in settori più colpiti dalla crisi (manifattura, costruzioni, auto),  mentre le donne sono impiegate prevalentemente nei servizi e quindi meno sensibili ai boom e alle recessioni. In recessione il numero di famiglie in cui il principale procacciatore di reddito è una donna è destinato a salire. Secondo le stime dell’economista Casey Mulligan la percentuale di donne nella forza lavoro è aumentata di cinque punti percentuali anche nelle due precedenti recessioni (1990-1991 e 2001) incrementi superiori a quanto avvenuti negli anni tra le recessioni. Se si proiettano simili incrementi per i mesi futuri, le donne, che sono oggi il 49,1 della forza lavoro secondo i dati BLS (Bureau of Labor Statistics), diventeranno piu del 50 per cento della forza lavoro sorpassando per la prima volta la proporzione maschile. Tuttavia questo possibile traguardo storico può implicare famiglie più fragili e povere. Va ricordato che gli alti tassi di occupazione delle donne in USA riguardano in gran parte lavori part time, spesso non coperti da copertura previdenziale e i cui guadagni medi sono comunque inferiori a quelli maschili anche a parità di orario (circa l’80% ). Inoltre a meno che i padri decidano di cambiare radicalmente il loro comportamento nella divisione dei ruoli familiari e sostituirsi in gran parte al lavoro delle donne in casa, le difficoltà saranno insormontabili in un welfare state che offre ben poco aiuto alle donne che lavorano e che hanno lavori di cura.

LA RISPOSTA AI COMMENTI

Ringrazio tutti coloro che sono intervenuti. La maggior parte dei commenti solleva i seguenti punti, strettamente connessi tra loro:
1- Perché il lavoro si concentra sull’andamento del tasso di criminalità complessivo anziché sulla (maggiore) propensione al crimine dei cittadini stranieri che emerge dalle statistiche sulla popolazione carceraria?
2- Come si concilia il risultato principale della nostra analisi, e cioè che l’aumento dei flussi migratori non abbia portato ad un aumento significativo del crimine in Italia, con la maggiore incidenza dei cittadini stranieri (rispetto a quelli italiani) sul totale della popolazione carceraria?

In questa risposta provo a chiarire la nostra scelta riguardo alla variabile di interesse (punto 1.) e suggerisco alcune ipotesi che possono riconciliare i nostri risultati con gli alti tassi di incarcerazione osservati tra la popolazione straniera (punto 2.).
Relativamente al primo punto, abbiamo scelto SI–>DI studiare l’effetto dell’immigrazione sul tasso di criminalità complessivo perché ci sembra quello maggiormente rilevante ai fini delle politiche sulla sicurezza, in quanto i costi sociali ed economici del crimine non dipendono dalla nazionalità di chi lo commette. L’incidenza degli stranieri sulla popolazione carceraria è, in prima approssimazione, un’informazione potenzialmente utile per determinare quanta parte di tali costi è attribuibile all’immigrazione; tuttavia, può essere fuorviante se la variazione delle condanne a carico di cittadini stranieri non implica necessariamente una variazione di pari entità (o quantomeno proporzionale) dei crimini totali.
Questo è un punto cruciale, che ci porta direttamente al secondo quesito: come è possibile che gli stranieri si caratterizzino per una maggiore probabilità di finire in carcere e, allo stesso tempo, un’intensificazione dei flussi migratori non si traduca in un aumento del tasso di criminalità complessivo? A questo proposito, è doveroso ribadire che il nostro lavoro non analizza in dettaglio le cause della diversa propensione al crimine dei cittadini stranieri e italiani, quindi quelli che seguono sono solo alcuni spunti di riflessione (la maggior parte dei quali, peraltro, già suggeriti in alcuni commenti al nostro articolo).
In primo luogo, confrontare la propensione al crimine di due gruppi sulla base della loro incidenza sul totale della popolazione carceraria richiede quantomeno che, a parità di altre condizioni, la probabilità di essere incarcerati dato che si è commesso un crimine sia la stessa tra i due gruppi. Tale condizione può essere violata quando si confrontano cittadini stranieri e italiani per diverse ragioni. La più importante (ma ce ne sono altre) è che differenze reali tra i due gruppi in termini di propensione al crimine potrebbero essere notevolmente amplificate dalla discriminazione statistica nei controlli. Con tale termine ci si riferisce ad una discriminazione che non è motivata da avversione verso un determinato gruppo (in questo caso gli immigrati) ma piuttosto dal fatto che, se tale gruppo è maggiormente a rischio di commettere crimini e se i suoi appartenenti sono chiaramente riconoscibili (per esempio sulla base dei tratti somatici), è razionale ed efficiente concentrare i controlli su quel gruppo. Ne discende che differenze nei tassi di incarcerazione riflettono disporporzionatamente le effettive differenze nella propensione al crimine.
Un esempio può essere utile per chiarire questo punto. Immaginiamo che la popolazione sia composta da 50 individui di tipo A e da 50 di tipo B, e che per ogni reato commesso l’autorità di pubblica sicurezza possa indagare su un solo individuo. La reale propensione al crimine (intesa come probabilità di commettere un reato) è uguale all’1% per gli A e all’1,1% per i B. A parità di altre condizioni, dovendo scegliere se controllare un A o un B, l’autorità di pubblica sicurezza sceglierà (razionalmente ed efficientemente) di controllare sempre il B, perché ha una maggiore probabilità rispetto all’A di essere colpevole. Ne consegue che i B (qualora vengano ritenuti colpevoli) saranno gli unici ad andare in carcere; un’incidenza leggermente superiore al 50% nel numero reale di crimini commessi (1,1/2,1=52%) si è trasformata in un’incidenza del 100% sulla popolazione carceraria.
Questo esempio rappresenta ovviamente un caso limite, ma chiarisce come, in linea di principio, la significativa ricomposizione della popolazione carceraria potrebbe essere determinata da una propensione al crimine degli immigrati lievemente maggiore, ma di per sé insufficiente a muovere significativamente il tasso di criminalità. Si noti, a questo proposito, che la componente regolare dell’immigrazione rappresenta circa il 6% della popolazione residente e un’analoga percentuale degli individui denunciati. La maggiore incidenza degli stranieri sulla popolazione carceraria è dunque dovuta esclusivamente alla presenza irregolare, la cui incidenza sul totale della popolazione residente è ovviamente difficilmente quantificabile. Tuttavia, le stime effettuate sulla base delle domande di regolarizzazione suggeriscono un limite massimo inferiore al 30% della popolazione straniera, quindi inferiore al 3% del totale della popolazione residente in Italia; numeri senz’altro rilevanti, ma probabilmente insufficienti a muovere il tasso di criminalità aggregato, anche in presenza di un’effettiva maggior pericolosità degli immigrati irregolari rispetto al resto della popolazione.
Infine, un ulteriore elemento che, in linea di principio, può riconciliare la maggiore incidenza degli stranieri sulla popolazione carceraria con l’assenza di effetti significativi sul tasso di criminalità complessivo, è la relazione tra immigrazione e propensione al crimine dei cittadini italiani. Analogamente a quanto avviene talvolta in alcuni segmenti del mercato del lavoro "ufficiale", anche nel settore illegale la maggiore partecipazione (e competizione) degli immigrati può diminuire i guadagni degli altri individui (italiani), inducendoli ad abbandonare tali attività. Se questo avviene, l’attività criminale degli stranieri si sostituisce a quella degli italiani, determinando una maggiore incidenza DEGLI–>DEI primi sul totale dei crimini commessi (e quindi sul totale della popolazione carceraria) senza che ciò abbia effetti rilevanti sul tasso di criminalità aggregato.

GIUSTIZIA: ANNO NUOVO, VECCHIE INEFFICIENZE

L’efficienza della giustizia civile ha un effetto prociclico sull’economia: la lentezza dei processi aggraverà la crisi economica per le imprese italiane. Un ulteriore aumento delle risorse pubbliche non serve a risolvere il problema. Lo sostiene anche la relazione del presidente della Corte di Cassazione. Meglio puntare su una riorganizzazione della macchina giudiziaria. A partire dalla riduzione del numero di sedi, con una migliore gestione del personale e delle attrezzature e rilevanti economie di specializzazione. Le proposte per la riforma della professione forense.

LA DISINFORMAZIONE

Repubblica del 5 febbraio riporta le dichiarazioni del Presidente Berlusconi sulle azioni del suo governo per arginare la crisi finanziaria. "Un governo che si è mosso subito e per primo… Sono stato il primo il 10 ottobre ad annunciare agli italiani che non avrebbero dovuto avere timore per i depositi che avevano nelle banche e a mettere la garanzia dello Stato contro il loro fallimento: questa nostra iniziativa è stata poi esportata in Europa… Sono riuscito a convincere Bush e i suoi collaboratori, inerti di fronte al fallimento della Lehman Brothers, che lo Stato doveva intervenire. La prima idea, la prima iniziativa, il primo spunto abbiamo l’orgoglio di dire che è venuto da noi". Giusto orgoglio, condividiamo. Ma quello che è incomprensibile è che di questa leadership mondiale non vi è traccia sulla stampa internazionale. Su Google è facile trovare link che parlano del piano Paulson (il Tarp, cioè l’acquisto degli asset "tossici"), del piano Brown (la ricapitalizzazione delle banche) o del piano Zingales (il debt-for-equity swap). Ma quando si parla di piano Berlusconi ci si riferisce al massimo al salvataggio di Alitalia. Peggio ancora, il 13 ottobre scorso, appena tre giorni dopo che Berlusconi aveva indicato al mondo la via di salvezza, i media britannici (anche quelli tradizionalmente legati ai conservatori) attribuivano il ruolo di leader e modello al loro premier, Gordon Brown.
E’ chiaro che qua ci sono solo due possibili spiegazioni. La prima è l’eccessiva modestia del nostro primo ministro, il quale ha dato di nascosto le idee giuste ai leader mondiali che le hanno fatte proprie senza ringraziarlo e citarlo. La seconda è che siamo invece di fronte ad un caso clamoroso di disinformazione. Dei media internazionali, ovviamente. Fanno dunque bene i media italiani a dare ampio risalto al Silvio’s plan.

ROTTAMAZIONE: CHI CI GUADAGNA?

Il governo vara il piano di aiuti al settore automobilistico: circa 750 milioni. Ma un sussidio comporta uno spreco di risorse perché il prezzo pagato dal consumatore diventa inferiore al costo che la società sostiene per produrre il bene. Inoltre, se aumentano gli acquisti di auto diminuiscono quelli di altri beni. E i settori penalizzati si sentirebbero autorizzati ad avanzare richieste simili. In una rincorsa all’aiuto di Stato i cui effetti si neutralizzerebbero a vicenda e che potrebbe compromettere la sostenibilità del debito pubblico.

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