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COME SALVARE LE BANCHE *

La soluzione della crisi non passa attraverso la nazionalizzazione delle banche. Anzi, molto probabilmente sarebbe una scelta controproducente. Cosa fare allora? Lo Stato si impegni ad acquistare fino al doppio del numero di azioni oggi in circolazione al doppio del loro recente prezzo medio, ma fra cinque anni. Un improbabile intervento futuro con un impatto immediato. Si invertirebbero le dinamiche negative dei mercati azionari e le banche potrebbero tornare a raccogliere capitale privato. Senza costi per il contribuente.

NAZIONALIZZAZIONE: C’E’ DA FIDARSI?

Per riavviare le politiche di prestito occorre fare pulizia dei titoli tossici. Ma le banche sono in grado di farlo da sole oppure lo Stato deve gestire direttamente gli istituti, oltre che comprare i titoli? Si tratta di scelte pragmatiche, non ideologiche. E in Italia? Prima di tutto bisogna vedere se c’è davvero necessità di nazionalizzazioni. Poi dare adeguate garanzie sulla salvaguardia dell’autonomia della gestione delle politiche di credito e sulla durata dell’intervento statale. La storia passata e recente del nostro sistema bancario invita alla diffidenza.

400 MILIONI PER FAR FALLIRE IL REFERENDUM *

Abbiamo in questo momento tre obblighi elettorali: elezioni europee, amministrative, referendum sulla legge elettorale. Il buon senso suggerisce di accorparle in un’unica scadenza. Ma il Governo ha deciso di abbinare in un’unica data soltanto le prime due consultazioni. E appare intenzionato a far tenere in data separata il voto referendario. Votare un altro giorno comporta un costo per la collettività di circa 400 milioni di euro. In tempi difficili come questi sarebbe bene utilizzare tali risorse per altri scopi.

QUANDO IL PADRINO SI RIPRENDE I BENI CONFISCATI

Il governo modifica la destinazione dei beni sottratti alle mafie. Non tornano più alla società civile, ma sono dirottati ai ministeri e alle spese correnti, tramite aste pubbliche. Si tratta di una norma frettolosa e incoerente sotto il profilo giuridico. E’ inefficiente dal punto di vista economico e amplia l’area di illegalità perché incentiva i mafiosi a cercare prestanomi in ambienti sempre più allargati. E i ricavi per lo Stato potrebbero essere davvero minimi. La logica sembra quella di sottrarre sequestri penali e misure di prevenzione al controllo del giudice.

IL COMMENTO DI GIORGIO SANTINI *

Le argomentazioni di Boeri/Garibaldi nellÂ’articolo Come cambia la contrattazione su lavoce.info rendono necessaria una risposta sui tre aspetti dellÂ’accordo del 22 gennaio scorso che vengono maggiormente criticati.

  1. NellÂ’articolo si sostiene che con il nuovo accordo i lavoratori avranno una copertura contro lÂ’inflazione inferiore rispetto al precedente modello.

Le motivazioni addotte appaiono per la verità abbastanza confuse e fanno riferimento a fattori molto diversi quali la riduzione generalizzata di almeno il 5% della base di calcolo e una ventilata ipotesi che “tutta la retribuzione di fatto” dovrebbe essere coperta dall’inflazione. La prima asserzione è sicuramente esagerata e fortemente pessimistica, poiché base di calcolo per i futuri aumenti contrattuali, risulterà dall’applicazione dell’accordo per alcuni settori migliorativa dell’attuale, per altri neutra, per alcuni  contratti (6) si continuerà con la base di calcolo già fissata da anni  nei CCNL.

La seconda tesi è particolarmente originale perché finora nessun contratto in nessun momento della pur lunga storia contrattuale italiana ha mai previsto una copertura dall’inflazione di tutta la retribuzione di fatto. Per la verità né la piattaforma CGIL CISL UIL su cui è avvenuto il negoziato né nessun soggetto presente al tavolo ha mai sollevato un problema simile. Noi possiamo sostenere con documentazione ufficiale che il nuovo indicatore di inflazione (IPCA depurata dall’energia) se fosse stato applicato negli ultimi 11 anni avrebbe garantito una copertura del tutto analoga (anzi leggermente superiore) all’indice ISTAT Famiglie Operai Impiegati (FOI), che, vogliamo ricordarlo era l’indice non per rinnovare i contratti (che avevano come parametro il Tasso di Inflazione Programmata), bensì per effettuare nel biennio contrattuale successivo i conguagli, tra l’altro con la depurazione delle ragioni di scambio.

Quindi possiamo dire senza ombra di possibile smentita che il nuovo indicatore IPCA se applicato negli ultimi 11 anni avrebbe garantito una piena copertura dellÂ’inflazione reale rilevata ex-post dallÂ’ISTAT.

Era esattamente la richiesta della piattaforma sindacale CGIL-CISL-UIL e ha trovato piena attuazione nell’intesa. Per il futuro, il nuovo indicatore sarà sicuramente migliorativo rispetto al parametro dell’inflazione programmata che in mancanza d’accordo resterebbe ancora il riferimento per rinnovare i CCNL.

  1. NellÂ’articolo viene criticata molto duramente lÂ’incentivazione mediante la detassazione e la decontribuzione, del secondo livello di contrattazione, adducendo lÂ’eccessivo costo a carico dei contribuenti.

Contemporaneamente si sostiene anche che con l’accordo non c’è nessuna sicurezza che avvenga l’estensione della contrattazione di secondo livello, dando a questa considerazione una connotazione molto negativa. Si può, quindi, presumere che anche gli autori pensino che sarebbe utile una maggiore diffusione della contrattazione di secondo livello.

E’ di tutta evidenza che proprio la consapevolezza della difficoltà di estensione della contrattazione aziendale (o territoriale) e contemporaneamente la comune valutazione della sua necessità per dare una spinta propulsiva alla produttività e alla competitività delle aziende, hanno spinto le parti a chiedere che venissero resi strutturali gli incentivi che riguardano sia le imprese (la decontribuzione) sia i lavoratori (principalmente la detassazione). Ora se l’obiettivo di sviluppare la contrattazione aziendale dei salari di produttività è ritenuto valido e necessario per il miglioramento del sistema, perché mai una incentivazione fiscale e contributiva dovrebbe essere talmente negativa, da essere così brutalmente stroncata?

Davvero non se ne vede la ragione. Tanto più che non vengono detassati salari tout court ma quella parte del salario legata alla produttività e ai risultati quindi per definizione la parte più economicamente fondata e sicuramente non inflazionistica.

  1. Si sostiene, infine, che non vanno confuse nella contrattazione collettiva la copertura contro l’inflazione con la ricerca di un legame più stretto fra salario e produttività, perché sono due problemi diversi che vanno affrontati con strumenti diversi. E lo si dice lasciando intendere che invece l’accordo contenga questa confusione.

Ora, tralasciando la considerazione che la proposta alternativa formulata dagli autori appare inestricabilmente intrecciata tra copertura dell’inflazione e retribuzione della produttività tutta in capo al Contratto Nazionale, configurando così un formidabile ritorno all’antico; se c’è una cosa chiara nella riforma è proprio quella che Boeri e Garibaldi  auspicano e cioè la separazione della dinamica retributiva legata alla copertura dell’inflazione, che è in capo al CCNL, dalla dinamica retributiva legata alla produttività che è in capo alla contrattazione di secondo livello. Si tratta di due strumenti diversi, esercitati da soggetti diversi, in luoghi diversi e in tempi diversi. E’ difficile pensare a qualcosa di più separato.
E’ una formula che ha il pregio della chiarezza e della semplicità ma soprattutto è una rivoluzione culturale in senso partecipativo delle relazioni sindacali nel nostro paese, fatto che da più parti e da molto tempo è stato sollecitato e che ora che si realizza viene poco valorizzato.
E’ ora importante che il sindacato si senta particolarmente impegnato a vincere questa sfida sul campo, individuando tutti quei percorsi negoziali che permettono un’effettività della contrattazione di secondo livello, aziendale o territoriale, collegata alla competitività e al buon andamento delle aziende, delle pubbliche amministrazioni, dei servizi, del terziario. In questo modo il lavoro può dare un grande contributo alla modernizzazione del nostro paese, così necessaria, anche per uscire in positivo da questadifficilissima fase di crisi economica.

* Segretario Confederale CISL

IL COMPENSO DELL’ A.D. DI UNICREDIT

Riguardo lÂ’ammontare della retribuzione complessiva riconosciuta dal Gruppo UniCredit al suo Amministratore delegato, Alessandro Profumo, val la pena precisare che effettivamente, nel bilancio 2007 del Gruppo, è stata iscritta una somma pari a  €5.950.000 quale premio variabile ma questa cifra era solo lÂ’ammontare massimo potenzialmente erogabile ad aprile 2008 in relazione al raggiungimento degli obiettivi di Gruppo relativi all’anno 2007. In realtà la somma che è stata poi effettivamente erogata ad aprile 2008 è stata pari a  €5.528.000, quindi il totale della retribuzione dellÂ’Amministratore delegato va ridotto di €422.000, il che porta la retribuzione pagata e percepita a €9.018.000.

Unicredit Group

Ringraziamo Unicredit della precisazione, legittima e comprensibile. Tuttavia giova ricordare che i dati riportati nella nostra tabella sono tratti da una fonte uniforme e Unicredit non fa eccezione. Si tratta di dati, come abbiamo precisato nellÂ’articolo che accompagna la tabella, diretti a fornire un ordine di grandezza, non una misurazione precisa, non fosse altro per l’assenza del controvalore "teorico" delle stock option. In tale cornice la precisazione di Unicredit completa lÂ’informazione ma non sposta la sostanza della questione, in quanto porta a un riduzione inferiore al 4,5 per cento rispetto al dato riportato.

MA I PATTI NON SONO ANCORA CHIARI

Rating e Var non sono gli strumenti più adeguati per decidere se un titolo sia o meno sicuro. Per indicarne il valore, i prezzi di mercato sono un miglior giudice del giudizio degli analisti. Meglio dunque orientarsi verso i Cds. Soprattutto se si introducono sostanziali aggiustamenti in grado di garantire liquidità e trasparenza, riducendo la possibilità di manipolazione di prezzo. Attenzione alla commistione banche-associazioni dei consumatori: mette a rischio l’indipendenza nell’opera di tutela contro eventuali negligenze degli istituti di credito.

IL FEDERALISMO COSTA SOLO SE FALLISCE

Il federalismo fiscale promette un risparmio, non maggiori spese. Perché il riferimento al costo standard elimina le inefficienze insite nella spesa storica. Il risparmio atteso sarà comunque quantificabile solo quando i decreti legislativi preciseranno le norme operative. Si trasformerà in costo solo in caso di fallimento della riforma e quindi di duplicazioni di funzioni e burocrazie o di irresponsabili sanatorie, come purtroppo già successo in passato. Il quesito di oggi riguarda quindi non le cifre, ma la probabilità di successo o di fallimento del progetto.

IL GOVERNATORE DI AQUILONI

Un mestiere difficile quello del banchiere centrale. Eppure, nonostante la crisi finanziaria e la grande volatilità dei mercati, la Fed ha mantenuto il controllo dei tassi di interesse a breve-medio termine ed è ancora in grado di guidare le aspettative degli operatori finanziari su un orizzonte temporale più lungo. Nel futuro prossimo, dovrà convincere il mercato che i tassi resteranno a zero abbastanza a lungo. Farà dunque maggiore affidamento sul potere persuasivo delle sue dichiarazioni. E per questo anche il linguaggio dovrà rinnovarsi.

GUADAGNA TROPPO CHI LAVORA NELLA FINANZA? *

A Wall Street nel 2007 solo i bonus hanno superato i 200mila dollari per operatore e anche nel 2008 non sono poi scesi di tanto. Chi lavora nella finanza (bancari e banchieri) è pagato troppo? Un’analisi dell’evoluzione del capitale umano e delle retribuzioni nel settore finanziario degli Stati Uniti nell’ultimo secolo mostra il ruolo svolto dalla deregolamentazione dei mercati e dallo sviluppo delle attività non finanziare nel determinare le retribuzioni. Pubblichiamo anche le retribuzioni dei top manager bancari in Italia dichiarate nei bilanci dell’esercizio 2007, prima della crisi.

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