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L’OTTIMISMO DELLA PREVISIONE*

Un’ondata di revisioni al ribasso della crescita si abbatte sulle stime ufficiali di governi e organizzazioni internazionali, che continuano a restare ancorate a un certo ottimismo. Una situazione già vista all’epoca della crisi asiatica del 1997. Allora come ora l’idea è che pubblicare stime pessimistiche peggiori la situazione. Ma è accettabile che organizzazioni multilaterali e governi facciano un uso strategico dell’informazione? Soprattutto, che cosa succede alle aspettative quando gli operatori di mercato si trovano ad affrontare continue revisioni al ribasso?

TELECOM ITALIA: QUANDO L’INDUSTRIA FINANZIA LE BANCHE

Gli azionisti di Telecom Italia sono soprattutto istituzioni finanziarie, ben liete di incassare i consueti lauti dividendi in un periodo di crisi. In questo modo però il denaro non va dalle banche alle imprese, come sarebbe naturale, ma fa il percorso inverso. E gli investimenti sulla nuova rete? Tra scarse risorse e perdurante incertezza istituzionale, Telecom rinvia e diluisce gli impegni. Occorre chiarezza sulle scelte di fondo della politica. Pensando anche ai ritardi nell’informatizzazione del nostro paese.

PIU’ CHE UN CONTENZIOSO, UNA SIMONIA FISCALE

Novità nell’accertamento di imposte sui redditi, Iva e di altre imposte indirette. Il contribuente ha ora la possibilità di fruire di un significativo abbattimento delle sanzioni se aderisce alla determinazione del tributo operata, in via unilaterale, dall’amministrazione finanziaria. Se l’intento di potenziare l’azione di contrasto all’evasione è meritevole, l’intervento ha una connotazione ambigua: confonde esigenze operative con altre più contingenti, come il fare cassa. E rende sostanzialmente superflua l’osservanza di comportamenti fiscalmente virtuosi.

LE TASSE E QUEL REDDITO SEMPRE PIU’ DISEGUALE

La Cgil ha proposto un’imposta di solidarietà: un aumento di aliquota dal 43 al 48 per cento sui redditi superiori ai 150mila euro. L’extra-gettito servirebbe a finanziare interventi in favore di disoccupati e precari. Misure simili sono già state adottate nel Regno Unito e Stati Uniti. Tuttavia, nel nostro paese non è probabilmente la risposta più appropriata alla crescita delle disuguaglianze perché toccherebbe di fatto solo il lavoro dipendente, senza incidere sull’evasione fiscale. Ma è ora che il problema della distribuzione del reddito torni in primo piano.

REGIONI IN CONFLITTO PER I FONDI EUROPEI

Le regioni contribuiranno a costruire una rete di protezione per i disoccupati privi di ammortizzatori sociali. Utilizzando le loro dotazioni del Fondo Sociale Europeo. Ma le regioni del Sud – più povere – dispongono di una quota del Fondo superiore a quelle del Centro-Nord, mentre queste ultime hanno più disoccupati. Trasferire i fondi dal Sud al Centro-Nord? Sarebbe possibile, ma il Governo ha scelto una strada diversa, che lascia inutilizzata per questo scopo una parte delle risorse europee e accolla un onere allo Stato.

GLI HEDGE FUND? DIAMOGLI UNA REGOLATA *

Le regole servono per imporre comportamenti ispirati alla prudenza a tutti i grandi operatori del sistema finanziario, compresi gli hedge fund. A quelli di notevoli dimensioni in grado di causare un danno sistemico si potrebbe applicare lo stesso sistema di norme imposto alle banche. E se la regolamentazione diretta è difficile e costosa, si può utilizzare quella indiretta, propria delle borse. In ogni caso, hanno oggi un’occasione unica per dimostrare alla collettività che l’evasione fiscale non è la loro unica ragion d’essere.

QUANDO LO STATO NON PAGA

Il ritardo con il quale la pubblica amministrazione regola i propri debiti commerciali è mostruoso. E ogni anno genera una domanda di credito da parte delle imprese di circa 67 miliardi di euro. Nel decreto anticrisi c’è un timido tentativo di intervenire aumentando la liquidità dei crediti verso la Pa, favorendone la monetizzazione o la cessione a intermediari finanziari. Tuttavia, manca ancora una totale consapevolezza dei costi che una simile situazione procura non solo al sistema produttivo, ma agli stessi conti dello Stato.

CASA BIANCA, CASA DI VETRO

Appena insediato, Obama ha annunciato il suo impegno per un governo trasparente e partecipativo. E certo la trasparenza è indispensabile per migliorare i servizi pubblici e ridurre i rischi. A patto però che i cittadini possano utilizzare davvero l’informazione ricevuta. Che dunque va proposta in maniera chiara e semplificata e in modalità che coincidano con i tempi e i luoghi in cui vengono prese le decisioni. Deve essere standardizzata e comparabile, perché gli utenti abbiano la possibilità di scegliere e premiare coloro che offrono prodotti e servizi migliori.

UNA PROPOSTA DA NON ACCETTARE*

La recente proposta della Presidente della Confindustria di lasciare per un anno nelle casse delle aziende il flusso del TFR versato alla Tesoreria dello Stato (si tratta del TFR accantonato per i lavoratori delle imprese con più di 50 addetti, per un ammontare per il 2009 pari a circa 4,2 mld di Euro), riporta l’attenzione sulle peculiari modalità con le quali in Italia si è inteso finanziare la previdenza complementare.
All’estero, generalmente, i contributi alla previdenza complementare sono a carico delle imprese datrici di lavoro in quanto i fondi pensione costituiscono uno dei principali strumenti di “fidelizzazione” della forza lavoro all’azienda; nel tempo, i piani pensionistici sono divenuti in tali esperienze una componente essenziale del reddito dei lavoratori nell’età anziana e perciò anche un elemento rilevante delle relazioni sindacali.
In Italia le dichiarazioni contenute in primis nei testi legislativi (v. art.1 lettera c) legge delega 243/2004 “ sostenere e favorire lo sviluppo della previdenza complementare…”e l’art. 1 del D.Lgs. 252/05 che assegna alla previdenza complementare il compito di “assicurare” ai lavoratori una copertura previdenziale integrativa), non sembra abbiano avuto adeguata eco nel contesto produttivo: le risorse messe a disposizione della previdenza complementare dal sistema delle aziende sono assai esigue (il contributo a carico dei datori di lavoro è mediamente poco superiore all’uno per cento del salario lordo).
Poi c’è il TFR che è uno dei pochi ammortizzatori sociali di cui dispone il Paese e che, soprattutto in momenti di crisi, rappresenta un elemento di parziale ristoro finanziario per i lavoratori che perdono il posto di lavoro. Inoltre, il TFR è stato in questi anni la principale fonte contributiva che ha reso possibile l’adesione dei lavoratori dipendenti ai fondi pensione: senza l’apporto dei flussi di TFR l’accantonamento dei lavoratori a fini di previdenza complementare si ridurrebbe a ben poca cosa, considerando le scarse disponibilità di reddito e di risparmio e gli oneri imposti dalla contribuzione alla previdenza obbligatoria.
Nel 2007, si è inserito sulla scena un nuovo attore, lo Stato, che ha destinato a se stesso la quota di TFR dei lavoratori delle aziende sopra i 50 addetti non devoluta ai fondi pensione, e che si sta avvalendo di tali somme per finanziare iniziative variamente finalizzate.
Ma il TFR è da sempre anche una fonte di autofinanziamento per le imprese: queste infatti approfittando del contenuto livello di rendimento, che per legge devono riconoscere al TFR accantonato in azienda per i propri dipendenti, lo utilizzano per il conseguimento di obbiettivi produttivi. Appare comprensibile dunque che in un simile frangente di crisi le imprese possano proporre di fare appello a tale risorsa per fronteggiarne gli effetti.
La proposta di mantenere il TFR nelle aziende va nondimeno valutata anche da un altro punto di vista: qualora fosse accolta, questa avrebbe probabilmente una ricaduta sulle possibilità, già messe a dura prova dalla crisi in corso, di sviluppo della previdenza complementare nell’anno appena iniziato. Sappiamo che difficoltà di crescita delle adesioni alla previdenza complementare si sono avute maggiormente nel contesto delle piccole imprese, dove il TFR non destinato a previdenza complementare resta in azienda; ora un altro fronte di potenziale conflitto d’interessi in capo ai datori di lavoro sarebbe riaperto anche nell’ambito delle imprese di maggiori dimensioni nelle quali la previdenza complementare è cresciuta in questi anni di più e, ancora di più, dall’avvio della riforma.
Occorrerebbe, invece, trovare nuove e più proficue strade per conciliare gli interessi dei fondi pensione, delle imprese e dello Stato, ad esempio promuovendo iniziative comuni sul fronte dei finanziamenti di opere di pubblica utilità. Inutile sottolineare, peraltro, che si tratta di un tema che richiede seri e molteplici approfondimenti.

* L’autore è Commissario Covip

LA RISPOSTA AI COMMENTI

Le risposte dei lettori riflettono tre atteggiamenti:

– una diffidenza nei confronti dei fondi pensione e una preferenza per il sistema pubblico;
– un diffuso timore per le conseguenze del metodo contribuivo, e un rimpianto per le garanzie pubbliche del passato;
– una (giusta) indignazione nei confronti del “colpo di mano” della Camera.

I lettori che condividono la proposta del Presidente di Confindustria, Emma Marcegaglia, di lasciare il TFR nella disponibilità delle imprese esprimono tutti una netta preferenza per il TFR in quanto tale (ossia come liquidazione). Queste risposte rafforzano la mia tesi sul messaggio “negativo” della proposta (in sé comprensibile), la quale pur limitandosi a stabilire un confronto tra utilizzatori intermedi del TFR (imprese grandi piuttosto che Tesoro), stabilisce indirettamente una preminenza del TFR sui fondi pensione. Per quanto comprensibile, oggi, alla luce della crisi finanziaria, questo tipo di giudizio (che contrasta nettamente con il favore entusiastico con cui l’introduzione dei fondi pensione fu accolta nel nostro paese, quasi che fossero l’elemento taumaturgico per tutti i mali dell’economia italiana) è però pericoloso. In tema di risparmio di lungo termine non ci si può affidare alle emozioni del momento. E’ un atteggiamento che riflette la mancanza di una cultura del rischio nel nostro Paese: quando si guadagna tutto va bene; quando si perde ci si chiede “dov’era lo stato, che non ha fornito la necessaria protezione”.

Non sappiamo se questa crisi segnerà una svolta nel funzionamento dei mercati finanziari. Quel che sappiamo è che nel passato il rendimento dei mercati finanziari è stato, in media, nel lungo periodo, assai superiore al tasso di crescita dell’economia. Il problema non è rifuggire dai mercati finanziari; piuttosto, si devono trovare modalità trasparenti e poco costose per ridurne i rischi e magari fornire qualche garanzia (di cui, tra l’altro, il TFR gode). E nel frattempo educare gli individui al risparmio per l’età anziana, che è necessariamente un risparmio di lungo termine.
Anche la diffidenza nei confronti del metodo contributivo nasce dalla mancanza di consuetudine con il rischio, e dalla facilità con cui, nel passato, gli oneri delle garanzie offerte alle generazioni presenti sono state addossati alle generazioni giovani e future (con il debito pensionistico). Il metodo contributivo è severo, in media, se “severa” (dal punto di vista della crescita) è il sistema economico. In questo caso, mentre è compito dello stato fornire una tutela ai più deboli, non ha senso cercare di dare a tutti più di quanto non sia finanziariamente sostenibile. Senza contare l’iniquità distributiva del vecchio metodo retributivo. Anche qui: il contributivo si può migliorare, ma screditarlo prima che sia entrato in vigore è sbagliato.
Quanto al provvedimento da “casta” condivido, ovviamente, l’indignazione dei lettori e mi piacerebbe vedere qualche reazione politica. 

PS Quanto alla presunta confusione tra i due fondi presso l’INPS, non mi pare che ci sia. E’ proprio al fondo di tesoreria che gestisce il TFR che facevo riferimento, non al fondo pensione “residuale”.

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