Ringrazio dei commenti alla mia proposta di estendere temporaneamente la garanzia statale ai prestiti interbancari. Prima di replicare, osservo che i governi europei sembrano essersi resi conto che il cuore della crisi di liquidità è nel mercato interbancario e che lì occorre intervenire. Coerentemente, stanno estendendo la garanzia statale ai depositi interbancari. Questo, unitamente alle altre misure adottate e alle variazioni intervenute nella politica di rifinanziamento della BCE, sta dando i primi risultati: le borse hanno reagito positivamente e i tassi dÂ’interesse sullÂ’interbancario hanno iniziato a ridursi. Siamo ancora lontani dal ritorno alla normalità , ma un primo passo è stato fatto.Â
Non mi soffermo su coloro che sono a favore della mia tesi, mentre provo a rispondere a chi solleva obiezioni. Tra questi, qualcuno osserva che occorre proteggere coloro che hanno contratto mutui con le banche. Sono d’accordo, tanto che in un mio articolo precedente non ho risparmiato critiche alla convenzione ABI – Governo sulla rinegoziazione dei mutui, che comporta una significativa limitazione della concorrenza a danno della clientela. L’intervento da me proposto per il mercato interbancario non è incompatibile con misure che rendano meno onerose le rate dei mutui per i debitori: ad esempio l’indicizzazione degli interessi al tasso di policy fissato dalla BCE piuttosto che all’Euribor, che è molto più volatile.
Altri ritengono che sia meglio abbandonare al loro destino le banche, che non meritano alcun sostegno. In questo caso non sono d’accordo: non perché abbia particolare simpatia per le banche, ma perché una crisi del sistema bancario ha costi sociali molto alti. Il fallimento di una grande banca o di una quota consistente del sistema bancario espone i risparmiatori a perdite rilevanti e le imprese alla riduzione delle fonti di finanziamento, con ricadute negative sull’attività produttiva e sull’occupazione. Inoltre, il dissesto di una istituzione rischia di trasmettersi al resto del sistema, tramite una crisi di fiducia e a causa della rete di esposizioni reciproche. Perciò è nell’interesse di tutti mantenere la fiducia nella solvibilità del sistema bancario. Inoltre, le operazioni di salvataggio non impediscono necessariamente che i manager responsabili di cattiva gestione vengano sanzionati.
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Il piano Paulson non funziona. Serve dunque un programma alternativo, che dirotti il denaro pubblico dal sostegno diretto di Wall Street o del cittadino comune a un pacchetto di investimenti in grado di rimettere in moto l’economia. Basato su una idea: permettere una ristrutturazione efficiente dei debiti. Lo Stato dovrebbe limitarsi a definire un quadro normativo che consenta alle famiglie di rinegoziare i mutui sulle case che hanno perso oltre il 20 per cento del loro valore. E alle banche insolventi di chiedere una speciale forma di bancarotta.
Alitalia insegna: anche in periferia soldi pubblici nelle società di diritto privato. L’aumento di capitale straordinario varato dalle province di Massa-Carrara e Lucca per evitare la bancarotta di Gaia, società a capitale pubblico che gestisce il servizio idrico, è un caso emblematico. Ai contribuenti lÂ’operazione costerà 20 milioni. Almeno due le lezioni che ne possiamo trarre: il settore è vulnerabile dal punto di vista finanziario ed è necessario definire regole contabili più rigorose. A maggior ragione quando a prendere le decisioni sono manager provenienti dalla politica. Perché potrebbero servirsi delle aziende per scaricare i problemi delle esangui casse comunali.
L’impegno dei governi europei per varare misure adeguate a contrastare la crisi, potrebbe non essere sufficiente. EÂ’ importante intervenire anche sui mutui, aiutando le famiglie in difficoltà perchè indebitate per pagarsi la casa. Negli Stati Uniti Hillary Clinton ha proposto piano di acquisto e finanziamento dei mutui. Con le dovute differenze, anche i governi europei potrebbero pensare a politiche di sostegno per rinegoziare determinate categorie di prestiti immobiliari.
Il costo standard è cruciale nella finanza federale per determinare i flussi perequativi. Attenzione a non impostare complessi e probabilmente inconcludenti sistemi di valutazione microanalitica degli standard fisici e monetari in gioco. Conviene realisticamente adottare, sull’esempio della sanità , un approccio macroeconomico, con un dato monetario nazionale, scelto in sede politica, e coefficienti correttivi territoriali di natura tecnica. L’auspicio è che si cominci a ragionare in questi termini anche per assistenza, istruzione e trasporto locale.
E’ il capofila della nuova teoria del commercio internazionale. Mostra come in un settore competa una moltitudine disparata di imprese alla ricerca continua di modi per creare, difendere e accrescere il loro potere di mercato attraverso l’innovazione, la differenziazione del prodotto, lo sfruttamento di economie di scala e di scopo. Fondamentale anche il contributo all’analisi del fenomeno dell’urbanizzazione. E ha denunciato il rischio che governi e banche centrali si trovino impotenti di fronte agli umori del mercato in un mondo globalizzato.
Anche se il provvedimento varato dal governo italiano per la ricapitalizzazione delle banche è largamente condivisibile, resta sul tappeto il problema dell’eventuale salvataggio delle grandi banche transnazionali europee. Che hanno un ruolo chiave sia nell’integrazione dei mercati finanziari europei che nella loro stabilità sistemica. La Bce ha affrontato bene uno dei due aspetti della crisi, il problema di liquidità . In Europa manca però una istituzione che possa mettere in atto una risposta organica. Così dopo il fallimento dell’Ecofin, i paesi membri procedono in ordine sparso. Ma la definizione di regole condivise è questione non più eludibile.
Da qualche tempo siamo tormentati da docenti della Sapienza che pensano di avere trovato delle falle nel libro di Perotti e nell’ articolo di Boeri su Repubblica sul familismo nellÂ’università . Finora sono solo riusciti a imbarazzare se stessi, e i professori Mei e Panconesi (la cui lettera è riportata qui sotto) nella lettera indirizzata a lavoce non fanno eccezione.
 Mei e Panconesi ipotizzano  che non ci rendiamo conto di un fatto elementare, che capirebbe anche un bambino di 10 anni: il tasso di omonimia nell’ intera popolazione italiana deve essere praticamente  il 100 percento (quasi tutti hanno almeno un omonimo nell’ intera  popolazione).  Se però avessero letto con attenzione l’articolo e,
soprattutto, il libro, scoprirebbero che i nostri risultati non soffrono di questo problema. E soprattutto scoprirebbero che i dati alternativi che essi forniscono sono grossolanamente errati, e scaturiscono da una macroscopica mancanza di comprensione delle procedure utilizzate nel libro di Perotti.Â
Il tasso di omonimia in una determinata facoltà di Medicina è definito in due modi alternativi: come la probabilità che un docente in quella facoltà abbia almeno un altro collega  con lo stesso nome nella sua stessa facoltà (“indice 1”), oppure nelle altre facoltà di Medicina della Regione (“indice 2”). Prendendo due facoltà a caso, alla Sapienza questi tassi di omonimia sono rispettivamente del 21 e 30 percento, a Messina del 33 e 38 percento.
Le stesse statistiche per la Bocconi sono il 3 e 9 percento, rispettivamente. Mei e Panconesi sostengono, invece, che il tasso di ominimia per la Bocconi è del 40 percento. Come è possibile che siano incorsi in un infortunio così imbarazzante? Ovviamente non hanno compreso la definizione utilizzata nel libro di Perotti, ammesso che l’abbiano letto. Sospettiamo che essi calcolino il  tasso di omonimia per la Bocconi prendendo a universo di confronto TUTTE le facoltà di TUTTE le università lombarde, ma ovviamente dei pasticci altrui è meglio chiedere conto direttamente agli autori.
Ma Mei e Panconesi non si fermano qui. Sostengono (come, ripetiamo, comprenderebbe anche un bambino di 10 anni) che sia inevitabile trovare un grado di omonimia più alto in un campione casuale più ampio. Ma il punto è precisamente che i campioni non sono casuali! Se avessero guardato la Tabella 4 del libro (pag.58), avrebbero notato che alcuni fra gli indici più alti si registrano nelle facoltà più piccole. E avrebbero notato che l’ indice 2 della Bocconi,  basato su di una popolazione di circa 700 docenti di Economia in Lombardia, è poco più di un quarto dell’ indice 1 di Medicina di Messina, che pure è basato su una popolazione di docenti inferiore.
Vi è un metodo assai semplice per dimostrare formalmente tutto questo, così come per rispondere ad una diversa possibile obiezione alla nostra definizione (che però Mei e Panconesi, nella loro foga distruttrice,  ignorano completamente): se per motivi storici o culturali in Sicilia o in Lazio vi fossero molti meno cognomi che in Lombardia, sarebbe più facile trovare omonimie nelle prime che nella seconda. Ovviamente sappiamo che differenze così enormi come quelle evidenziate non possono essere spiegate da questo fattore, ma per eccesso di zelo, in un lavoro accademico in progress di Perotti con altri coautori (Durante, Labartino e Tabellini), abbiamo calcolato il nostro indice di omonimia ponderando la frequenza dei cognomi che si ripetono più di una volta per la frequenza relativa degli stessi cognomi in vari bacini di riferimento, quali la provincia, la regione etc.  (Tecnicamente, la soluzione consiste nel creare una distribuzione artificiale. Chiediamo al computer di estrarre a caso dalla popolazione di riferimento un sample di individui pari al numero di professori in una certa unita’ accademica, e di calcolare l’indice di omonimia  corrispondente. Ripetendo la procedura per 100.000 volte e registrando ogni volta il valore assunto dall’indice di omonimia, otteniamo alla fine una distribuzione dei valori simulati rispetto alla quale possiamo confrontare il dato osservato nella realtà e calcolare quanto sia statisticamente significativo). Con questa procedura, ecco alcuni valori  secondo la prima definizione (omonimie allÂ’interno della stessa facoltà ) quando il bacino di riferimento dei cognomi è la provincia.
In TUTTI i casi tranne la Bocconi, lÂ’ipotesi che l’indice empirico possa derivare da un processo puramente casuale è rigettata (con p-value generalmente molto alti). Inoltre, il nostro indice non presenta alcuna distorsione in relazione al numero di docenti: alcune facoltà molto piccole presentano infatti indici molto più alti che altre ben più
grandi. Si noti per esempio Veterinaria a Messina: con soli 65 docenti, ma con un indice di omonimia riferito alla stessa facoltà che raggiunge un incredibile 50 percento: metà dei 65 docenti ha almeno un collega con lo stesso cognome!
Tutta l’operazione di Mei e Panconesi  si commenta dunque da sè, così come il sarcasmo degli autori, che meriterebbe una causa migliore. In versioni precedenti della loro lettera, inviate a giornali e siti web, Mei e Pancanesi parlavano infatti del paradosso "Boeri-Perotti", che essi pensavano di avere scoperto, come un ottimo strumento didattico, da utilizzare con i propri studenti per insegnare loro come non si fa ricerca; liberissimi di farlo, ma  se fossimo fra i loro studenti cercheremmo un altro
ateneo quanto prima.
Ma il vero paradosso e’ quello di  "Mei-Panconesi": come e’ possibile  che ordinari dell’ università più grande d’ Europa perdano il loro tempo per operazioni di disinformazione così maldestre? Ripetiamo quello che uno di noi  ha scritto a un vostro collega, impegnato in una simile operazione di discredito,  risoltasi anchÂ’ essa  in una figuraccia imbarazzante per il suo autore: il vostro tempo sarebbe stato molto meglio speso se vi foste dissociati pubblicamente dalla scandalosa elezione del rettore Frati. Bastava un minuto e una riga, una sola riga.
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IL TESTO DELLA LETTERA INVIATA DA ALESSANDRO MEI E ALESSANDRO PANCONESI
Gentile Redazione
Qualche giorno fa è apparso su La Repubblica un articolo che riportava dati apparentemente eclatanti sul nepotismo nelle università italiane: "A Messina quasi il 40 per cento dei docenti (sì, proprio 4 su dieci) ha un omonimo in qualche università della Regione. A Napoli (Federico II e Seconda Università ) si viaggia attorno al 35% di omonimie, a Roma (Sapienza, Cattolica e Tor Vergata) non si scende sotto al 30 per cento." L’articolo portava la firma del prof. Boeri che riportava un’analisi del prof. Perotti, suo collega alla Bocconi.
In realtà l’unica cosa impressionante di questi dati è il fatto che si basano su un errore piuttosto grossolano. Innanzitutto, utilizzando la stessa "metodologia" risulta che, analogamente allo "scandaloso" caso dell’università di Messina, circa il 41% dei docenti della Bocconi ha un omonimo tra le università della stessa regione. Rimanendo in Lombardia, il dato per la Statale di Milano sale al 47%. Che il grado di nepotismo della Bocconi e delle altre università lombarde sia addirittura superiore a quello della vituperata Sapienza? Può darsi. Il problema è che è impossibile scoprirlo con la "metodologia" Boeri-Perotti.
Anche chi è completamente a digiuno di matematica può iniziare ad intravedere il grossolano errore chiedendosi quante sono le persone che hanno un cognome unico in Italia, un cognome cioè che non ha nessun altro: Perotti? Difficile. Boeri? Neanche a dirlo. Mei? Ma vah! Neanche un cognome raro come Panconesi è unico. I casi di omonimia per un insieme grande come la popolazione italiana saranno quasi il 100%. Prendendo un insieme molto più piccolo come la popolazione di Milano la percentuale di omonimia continuerà ad essere vicina al 100%. Considerando insiemi via via più piccoli il tasso di omonimia deve iniziare a scendere. Viceversa, se non lo fa, esso può essere considerato il sintomo di qualcosa di anomalo. Ma quanto deve essere piccolo questo insieme affinchè il tasso di omonimia del 41% della Bocconi possa considerarsi sospetto? Il punto è che gli insiemi considerati da Boeri e Perotti sono statisticamente enormi e il tasso di omonimia risultante non è significativo. Questo lo si può vedere facendo un po’ di conti, ma l’esempio della Bocconi dovrebbe essere convincente, se non altro per i due diretti interessati!
In realtà questo fenomeno apparentemente sorprendente è ben noto a chi si occupa di calcolo delle probabilità e va sotto il nome di "Paradosso del Compleanno".
Da un punto di vista più generale queste analisi si inseriscono nel contesto di una campagna denigratoria contro l’università . Tanto per essere chiari, riteniamo l’università italiana una catastrofe di cui La Sapienza, l’università nella quale lavoriamo, ne è un esempio particolarmente eclatante, ma attenzione!
L’università italiana non è tutta uguale e l’attuale rappresentazione mediatica è un po’ come se si parlasse dei problemi del Nord-Est raccontando quello che succede a Napoli o in Valle D’Aosta. Â
Analogamente, quello che accade a medicina non può essere considerato rappresentativo di realtà come informatica, fisica o matematica, discipline che, pur con le loro magagne, sono mondi diversi e che, per inciso, nel loro complesso sono allineate con i migliori standard internazionali.
Quello che vorremmo far notare è che se si denigra in modo indifferenziato, prendendo gli esempi più eclatanti come rappresentativi di una realtà molto più variegata, non solo non si rende un gran servizio alla verità , ma si danneggia ulteriormente la parte buona dell’università . Nonostante il contesto infrastrutturale deplorevole, l’università italiana ha al suo interno un notevole patrimonio di eccellenze, scandalosamente sotto-finanziate, basandosi sulle quali il sistema potrebbe iniziare ad essere bonificato. Spesso queste persone, oltre a fare ottima scienza, sono in prima linea in una battaglia interna per migliorare l’università come istituzione. Campagne come quella in atto non fanno altro che indebolire ulteriormente la loro posizione.
Sarebbe, crediamo, molto più utile dare una rappresentazione mediatica di questi sforzi e di queste eccellenze, che non sono poi così sporadiche come si vorrebbe far credere, e chiediamo ai colleghi Boeri e Perotti e ai giornalisti interessati al miglioramento della nostra società di darci una mano in questo. La cosa avrebbe se non altro il merito di orientare l’opinione pubblica e soprattutto gli studenti dalla parte giusta. In caso contrario ne risulterà solo un folle e irresponsabile gioco al massacro.
Cordialmente
Alessandro Mei – Alessandro Panconesi
Docenti di informatica
Sapienza Università di Roma
La corsa dei governi europei a garantire i depositi della clientela presso le banche non sembra l’obiettivo giusto: la crisi ha sinora colpito il sistema interbancario. Vi è un problema di aspettative e le banche non si prestano più liquidità . Una situazione molto delicata che apre nuovi scenari. E che potrebbe richiedere anche soluzioni estreme, come l’estensione della garanzia statale ai depositi interbancari.
Autorità di vigilanza e banche centrali hanno troppi conflitti di interesse se perseguono più obiettivi contemporaneamente. E oggi il sistema offre un grado di protezione inadeguata agli investitori e mantiene un ulteriore strato di regolazione nazionale che fa perdere competitività a tutta l’industria finanziaria. Una struttura equilibrata potrebbe essere a quattro picchi. La regolamentazione e vigilanza sarebbe organizzata, a livello orizzontale, per finalità . E in modo federale, a livello verticale, con una struttura simile al sistema europeo di banche centrali.