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Nella salute la concorrenza non è tutto

Tutti invocano maggiore qualità dei sistemi di tutela della salute e, insieme, il rispetto della compatibilità economica. Attraverso maggiore responsabilizzazione dei soggetti e maggiore competitività, sostengono. Utile chiedersi, allora, perché nel modello Usa, largamente privato e basato sulla competizione, i costi sono cresciuti rapidamente ed eccessivamente negli ultimi anni, l’accesso ai servizi è limitato e i pazienti sono insoddisfatti. Potrebbe servire a evitare, nel nostro paese, soluzioni semplicistiche e due errori di segno opposto.

Ma il contrasto di interessi non è la soluzione

Il contrasto di interessi è sempre più spesso indicato come la formula magica cui affidare la lotta all’evasione. Ma per essere efficace l’agevolazione riconosciuta ai contribuenti onesti dovrebbe essere tale da annullare completamente il gettito dello Stato. Ed è illusorio pensare che si elimini così la necessità di controlli e accertamenti fiscali. Sembrerebbe più proficuo perseguire altre modalità, che costringano il singolo contribuente a confrontare il guadagno dell’evasione con i rischi o i costi che essa potrebbe comportare su altri fronti.

Come funziona (o non funziona) il contrasto di interessi

Si ha contrasto di interessi fra un venditore e un compratore quando la convenienza a evadere dell’uno trova un ostacolo nella convenienza a rendere nota la transazione al fisco da parte dell’altro. Ecco alcuni esempi. Dalla situazione attuale di una convergenza di interessi a evadere alla piena deducibilità dal reddito imponibile del compratore della spesa sostenuta. L’ampiezza dell’intervallo di contrattazione tra i due attori dipende criticamente dalle rispettive aliquote dell’Irpef. Mentre in diversi casi lo Stato non incassa alcun gettito.

Una priorità non riconosciuta

La Finanziaria per il 2007 prevede uno stanziamento per gli aiuti pubblici allo sviluppo di circa 1,5 miliardi di euro, equivalente allo 0,13 per cento del prodotto interno lordo. Lontano dagli obiettivi sottoscritti dal governo italiano. Ma non si tratta solo di quantità. Anche la qualità dei contributi lascia a desiderare. E nei rapporti internazionali che cercano di misurarla il nostro paese figura agli ultimi posti perché gli interventi sono in larga parte costituiti da cancellazioni del debito o da progetti di piccole dimensioni che danno scarsi risultati.

Più aiuti o una migliore strategia?

L’Italia mette pochi soldi negli aiuti allo sviluppo, tra lo 0,07 e lo 0,35 per cento del Pil negli ultimi anni. Ma abbondanza di contributi non è sempre sinonimo di aiuti efficaci. Più preoccupante l’esiguità complessiva delle risorse finanziarie che destiniamo ai paesi in via di sviluppo. E’ un altro sintomo della perdita di competitività del nostro paese. Perché invece di distribuire spiccioli in modo bilaterale, l’Italia non si fa promotrice di uno sforzo europeo di finanziamento di progetti in campo sanitario per curare l’Aids o la malaria?

Il futuro della cooperazione italiana allo sviluppo Lettera agli On. D’Alema e Sentinelli

L’importanza del ruolo ricoperto dalla cooperazione allo sviluppo nei rapporti internazionali è confermata dai recenti accordi che prevedono un aumento sia della quantità che della qualità dei fondi dedicati alla lotta alla povertà a livello globale. Oltreché un ripensamento sulla loro allocazione e sul loro utilizzo. In Italia la nomina di un viceministro è senz’altro un segnale della volontà del governo di definire un nuova politica di cooperazione. Ma perché la riforma non sia tale solo sulla carta, emergono diverse priorità da affrontare.

Stabili per legge?

Le odierne difficoltà del centrosinistra sui temi del lavoro sono anche figlie di un’analisi falsata delle politiche della passata legislatura, delle quali è stato largamente drammatizzato l’effetto. L’idea del diritto del lavoro legato alla sua vocazione protettiva sembra ormai datata. Però potrebbe trovare nuova linfa se si avesse il coraggio politico di coniugare le preoccupazioni sociali con l’obiettivo del recupero dell’efficienza e della competitività del sistema, e della produttività del lavoro, i cui andamenti sono da tempo deludenti.

Milton Friedman, un libero pensatore*

Una fede appassionata nella libertà individuale unita alla convinzione che il libero mercato sia il modo migliore per coordinare le attività di individui isolati verso il loro reciproco arricchimento: questa è la visione del mondo di Milton Friedman. Notevole la sua capacità di derivare conseguenze interessanti e inaspettate da idee semplici. Unita alla caparbietà nel dire le verità spiacevoli che altri preferivano tacere. Proprio il successo del suo pensiero e le nuove sfide che comporta ci fanno capire quanto manchi oggi una figura come la sua.

Non mancano i rischi nel commercio equo e solidale

Dal 2000 al 2005 il fatturato derivante dalle vendite di prodotti equo-solidali è cresciuto del 20 per cento all’anno. Alcuni prodotti, poi, hanno raggiunto quote di mercato significative nei rispettivi segmenti. Ma l’aumento di fatturato e la sempre maggiore concorrenza tra “pionieri” e grande distribuzione comporta anche rischi. Primo fra tutti che di fronte a un eccesso di domanda, gli importatori cedano alla tentazione di battezzare come equo-solidali prodotti che provengono da filiere tradizionali. Con danni rilevanti per la reputazione dell’interno settore.

Crescita italiana e crescita europea

Nel terzo trimestre 2006 l’economia italiana è cresciuta dell’1,7 per cento rispetto allo stesso periodo del 2005. Più della Francia che, dal 1995 a oggi, ha sempre registrato risultati migliori dei nostri. Tuttavia, i dati tendenziali per Germania, Regno Unito e Stati Uniti superano quelli italiani per più di un punto percentuale. La scarsa crescita di più lungo periodo non è un problema europeo, ma sostanzialmente di Italia e Germania. Che hanno ancora molto lavoro da fare per risolverlo. Dopodichè forse scopriremo che l’Europa è capace di crescere quasi come gli Stati Uniti.

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