I dati mostrano che il modello italiano di diritto allo studio è inefficace. I sussidi sono modesti rispetto al costo della laurea, e difficilmente possono influire sulle decisioni dei giovani provenienti dalle famiglie meno abbienti. Meglio sarebbe introdurre forme di credito agli studi universitari. Che dovrebbero coprire i costi dell’istruzione, ma anche i mancati salari, con rimborsi a lungo termine. Ricordando che i paesi con una alta percentuale di laureati hanno anche un elevato differenziale medio salariale a favore di chi possiede un titolo universitario.
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L’anali dei dati demografici dei docenti universitari italiani rivela un numero sproporzionato di coloro che appartengono alla fascia compresa tra i cinquantacinque e i sessanta anni. Il picco anomalo si sposta nel tempo man mano che il personale invecchia, ricordando la propagazione di un’onda solitaria. Il “terremoto” che l’ha provocata è la legge 382/1980 che ha assunto ope legis una vasta classe di figure orbitanti nel mondo universitario. Che succederà tra quindici anni, quando tutti questi professori arriveranno all’età della pensione?
La qualità degli insegnanti e dell’insegnamento svolge un ruolo cruciale nel determinare gli esiti scolastici degli studenti. Ma come motivare i docenti più bravi? Nel Regno Unito la contrattazione collettiva è stata sostituita da un sistema di retribuzione fondato su un esplicito meccanismo di classificazione delle scuole. Anche da noi si dovrebbero ridurre le posizioni di rendita, premiando le istituzioni più efficaci e gli insegnanti migliori. Mentre la contrattazione collettiva dovrebbe concentrarsi sulla determinazione di condizioni di base eguali per tutti.
I divari nei rendimenti scolastici in Italia sono significativi e dipendono fortemente da fattori quali l’area di residenza e il background familiare. Nel Centro-Sud il livello medio di abilità è più basso e più alta la percentuale di disuguaglianze dovute alle diversità nei punti di partenza. La famiglia esercita un’influenza anche nella capacità di successo nel lavoro. Agire sulle politiche scolastiche è senz’altro utile. Ma effetti sui processi di mobilità sociale si avranno solo con riforme serie del mercato delle professioni e dell’accesso alle carriere.
La legge 53/2003 vuole definire le norme generali sull’istruzione e i livelli essenziali delle prestazioni in materia di istruzione e formazione professionale. Per questo alla legge delega sono già seguiti sei decreti di attuazione. Tante norme, ma scarse risorse finanziarie per realizzarne il contenuto. Il piano programmatico di interventi finanziari a sostegno dell’attuazione della riforma Moratti indicava un totale di 8.320 milioni di euro per il quinquennio 2004-2008. Buona parte dei quali resta da reperire nei prossimi tre anni.
Il reddito minimo di inserimento dovrebbe far parte di una rete di protezione sociale che comprenda anche interventi centrati sul sostegno ai cittadini nel mercato del lavoro. Va condizionato alla partecipazione obbligatoria a percorsi di integrazione e all’accettazione della chiamata al lavoro. Essenziale delimitare rigorosamente la platea dei potenziali beneficiari. Solo così si può sperare di attivare programmi di reinserimento credibili e realizzare una efficace prova dei mezzi. Con un onere a regime per la finanza pubblica tra i tre e i quattro miliardi di euro.
I nuovi dati Banca d’Italia ci permettono di completare la ricostruzione di cosa è successo alla distribuzione del reddito negli ultimi quindici anni. Si avverte sempre più il bisogno di uno strumento di lotta alla povertà universale (basato su regole uguali per tutti) e selettivo (che subordina gli aiuti a verifiche dei redditi e dei patrimoni delle famiglie). Formuliamo proposte precise. Un Reddito minimo garantito, almeno inizialmente, non costerebbe più del secondo modulo della riforma fiscale di cui nessuno si è accorto. E coloro che sono stati sin qui dimenticati da tutti beneficerebbe grandemente di questa misura.
Una recente ricerca analizza la distribuzione delle risorse scolastiche.Si scopre così una variabilità territoriale della spesa per istruzione, con differenze tra l’una e l’altra Regione dell’ordine del 25 per cento. Le maggiori disparità si osservano nella scuola dell’infanzia e in quella superiore. Il problema è che le spese per funzionamento didattico sembrano essere associate alle competenze raggiunte dagli studenti. E il crescente decentramento dei meccanismi di finanziamento pubblico dell’istruzione potrebbe finire per provocare effetti indesiderati.
I paesi con un numero elevato di ore lavorate pro-capite registrano una crescita economica maggiore. Lo dimostrano gli Stati Uniti e, in Europa, la Gran Bretagna e i nuovi Stati membri dell’Unione. La discussione sulla revisione della Working Time Directive dovrebbe essere l’occasione per ridurre i disincentivi che tengono basso il livello di ore medie lavorate. Soprattutto, dovrà rimanere in vigore la clausola opt-out, che consente di allungare il limite dell’orario di lavoro settimanale oltre le 48 ore. Ed è ritenuta vitale per assicurare la competitività .
Pubblichiamo, in seconda pagina, la replica dell’autrice ai commenti dei lettori.
Il boom dell’economia americana non ha finora prodotto benefici per tutti. Anzi. Le analisi più recenti mostrano che ad aumentare il loro reddito reale in proporzione pari o maggiore alla crescita della produttività aggregata sono stati in pochi. E’ la conferma di un cruciale dilemma della New Economy: per accelerare, la crescita ha bisogno di rapido progresso tecnico e di un ambiente competitivo, ma i suoi frutti si distribuiscono in modo diseguale. E il riassorbimento delle disuguaglianze non è scontato in un’economia poco sindacalizzata e con un limitato intervento redistributivo dello Stato.