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Dov’è finito il popolo delle formiche

Si dice che gli italiani non risparmino più. In realtà, il risparmio delle famiglie italiane rimane elevato. Perché le riforme delle pensioni degli anni Novanta hanno drasticamente ridotto il grado di copertura previdenziale, particolarmente per le nuove generazioni. E perché il timore di una caduta dei redditi ha frenato i consumi e favorito l’accumulazione. D’altra parte, il risparmio non è un indicatore di benessere o di povertà. Paesi con un reddito pro capite molto più elevato del nostro hanno tassi di risparmio molto più bassi. E viceversa.

La resistibile ascesa del welfare residuale

Lo schema incentrato su tre aliquote di imposta sembra rimanere ben saldo nelle intenzioni del Governo anche se rinviato di un anno. Per la gran parte della popolazione, però, non ci sarà alcun beneficio. E lo sgravio fiscale si colloca nella prospettiva di un welfare residuale. A un minor prelievo sui redditi elevati corrisponderà una riduzione di prestazioni sociali. A questa visione se ne può contrapporre un’altra con un assetto dell’imposta personale e dei trasferimenti monetari che abbia effetti redistributivi in modo da sostenere i redditi bassi e medi.

Il costo della vita nelle grandi città

La diffusa percezione in vasti strati della popolazione di una perdita di potere di acquisto dovuta a prezzi più elevati si spiega col fatto che spese importanti nel bilancio famigliare, come gli affitti, sono aumentate considerevolmente. Il patto fra Governo e commercianti non servirà ad affrontare questo problema.  Al contrario, rievoca vecchie filosofie di controllo della dinamica dei prezzi che non hanno mai funzionato. Lasciamo ai commercianti la libertà di fare saldi a piacimento e anche di allungare gli orari di apertura: di questo non possono che beneficiarne i consumatori. E garantiamo piena libertà di ingresso nel settore.

A proposito di povertà e disuguaglianza

Nelle indagini di Istat e Banca d’Italia su consumi e reddito delle famiglie le misure aggregate di disuguaglianza e povertà non indicano alcuna tendenza al peggioramento tra la metà degli anni Novanta e il 2002. Le distribuzioni dei redditi e dei consumi appaiono sorprendentemente stabili, nonostante i cambiamenti che hanno interessato l’intera economia italiana. Da questo punto di vista, le fonti statistiche non sembrano confermare l’impressione diffusa di un arretramento dello standard di vita italiano.

Se il cambiamento è relativo

Negli ultimi anni, alla sostanziale stabilità delle misure distributive aggregate, è corrisposto un mutamento delle posizioni relative delle diversi classi sociali. La quota delle famiglie operaie a basso reddito è aumentata, mentre quella delle famiglie dei lavoratori autonomi è diminuita. Inoltre, anche se la dinamica del reddito disponibile reale delle famiglie è stata superiore a quella delle retribuzioni, rimane grande il contrasto tra l’esperienza recente e quella dell’espansione degli anni Ottanta.

Coordinamento politiche sociali

Sul Coordinamento delle politiche sociali abbiamo chiesto se, anche in vista del raggiungimento degli obiettivi occupazionali fissati a Lisbona, la riforma dei sistemi previdenziali debba essere lasciata ai singoli paesi. Se sulle politiche sociali sia più opportuno adottare il modello del coordinamento aperto oppure regole comuni più stringenti. Se sull’esempio di altri paesi Ue, l’Italia dovrebbe istituire un reddito minimo garantito. E se la tassazione dei redditi personali debba mantenere caratteristiche redistributive. Le risposte della Lista Bonino, Forza Italia, Patto Segni-Scognamiglio e Uniti nell’Ulivo

Perché è giusto introdurre un salario minimo in Italia

Il salario minimo deve esclusivamente proteggere le categorie più a rischio di emarginazione e sfruttamento e non rappresentate. I salari di imprese operanti nel medesimo settore, ma in regioni diverse potrebbero così differenziarsi maggiormente in base alle condizioni del mercato del lavoro e ai livelli di produttività, favorendo l’occupazione nelle regioni del Mezzogiorno e l’uscita dal sommerso. Non deve essere usato invece come surrogato di altri strumenti contro la povertà, che nel nostro paese colpisce soprattutto chi un lavoro non ce l’ha.

Il nome non fa il reddito

Abbandonato l’esperimento del reddito minimo di inserimento, la Finanziaria 2004 ha istituito il reddito di ultima istanza. Ma poco si sa delle caratteristiche che dovrebbe assumere e di come sarà finanziato. Sembra una pura e semplice delega di iniziativa agli enti locali e non è nemmeno chiaro se le Regioni saranno tenute a istituire la nuova misura. Il rischio è un passo indietro delle politiche di lotta della povertà, con il ritorno a misure, se non occasionali certamente discrezionali, per la disomogeneità di interventi che caratterizza storicamente il welfare locale in Italia e gli squilibri regionali tra aree ricche e aree povere.

Se il reddito è di ultima istanza

La definizione delle regole di accesso e di gestione di interventi assistenziali come il reddito di ultima istanza non è semplice. Il rischio è avere una percentuale dei beneficiari troppo alta, con conseguenze negative sul mercato del lavoro e sul piano socio-politico. Serve invece uno schema capace di valutare l’effettivo tenore di vita delle famiglie, ma soprattutto in grado di disincentivare il ricorso al lavoro sommerso. E magari di dar conto delle differenze del costo della vita tra diverse aree del paese. I risultati delle simulazioni con uno strumento di questo tipo.

Il welfare che non c’è

Se guardiamo alla concreta realtà del nostro paese, è difficile avere dubbi sulla necessità di riforme in tema di povertà e non autosufficienza, ambiti in cui l’intervento pubblico è in Italia tradizionalmente debole. Nonostante si discuta da anni di reddito minimo e di fondo per i non autosufficienti, sono solo alcune Regioni a intervenire su questi temi, seguendo spesso strade diverse l’una dall’altra. Ma il vero rischio è che il ripensamento delle politiche sociali scivoli in un angolo sempre più remoto dell’agenda politica.

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