Nelle indagini di Istat e Banca d’Italia su consumi e reddito delle famiglie le misure aggregate di disuguaglianza e povertà non indicano alcuna tendenza al peggioramento tra la metà degli anni Novanta e il 2002. Le distribuzioni dei redditi e dei consumi appaiono sorprendentemente stabili, nonostante i cambiamenti che hanno interessato l’intera economia italiana. Da questo punto di vista, le fonti statistiche non sembrano confermare l’impressione diffusa di un arretramento dello standard di vita italiano.

Il 2004 si è aperto con un interesse per la povertà e la distribuzione del reddito inusuale per il nostro paese. Inchieste giornalistiche e rapporti di istituti di ricerca hanno posto l’accento su “questione salariale”, “nuove povertà”, “impoverimento delle famiglie”. In generale, si è privilegiata l’esposizione di pochi casi emblematici e, spesso, si è utilizzato materiale documentario che, pur informativo, è poco rappresentativo dal punto di vista statistico. (1) Viene quindi naturale chiedersi se le fonti statistiche più attendibili confermino o meno l’impressione diffusa di un aumento delle disuguaglianze e di un arretramento dello standard di vita delle famiglie italiane, o di una parte di esse.

Le famiglie viste dall’Istat e dalla Banca d’Italia

Vi sono due fonti statistiche principali sui bilanci familiari: l’indagine dell’Istat sui consumi e quella della Banca d’Italia sui redditi e sulla ricchezza. Insieme consentono di tracciare un quadro degli andamenti distributivi dell’ultimo decennio, utilizzando informazioni tra loro complementari quali redditi e consumi. In entrambe le indagini le misure aggregate di disuguaglianza e povertà non indicano alcuna tendenza al peggioramento tra la metà degli anni Novanta e il 2002. Le distribuzioni dei redditi e dei consumi appaiono sorprendentemente stabili, nonostante i cambiamenti che hanno interessato il mercato del lavoro, il sistema fiscale e previdenziale e, più in generale, l’intera economia italiana.

Povertà e consumi

L’indagine sui consumi è la fonte impiegata dall’Istat per l’elaborazione delle statistiche annuali sulla povertà in Italia. Una famiglia viene considerata povera se la sua spesa mensile per consumi è inferiore a un livello che varia con la numerosità familiare. L’Istat utilizza tre soglie “relative”, fissate cioè in rapporto ai consumi medi, e una “assoluta”, pari al costo di un paniere minimo di beni e servizi necessari alla sussistenza. La soglia assoluta viene rivalutata annualmente per l’incremento del costo della vita e, a differenza di quelle relative, non riflette le variazioni reali dei consumi. Tenuto conto della variabilità campionaria, l’incidenza della povertà è rimasta sostanzialmente stabile nel periodo 1997-2002 secondo tutte le soglie (figura 1).
Le tre varianti della povertà relativa indicano una diminuzione statisticamente significativa nell’ultimo biennio. Ciò è dipeso dal fatto che la spesa media pro capite – e quindi le soglie relative che a essa sono rapportate – è calata tra il 2000 e il 2002 del 4 per cento in termini reali. (2) Questo equivale ad assumere che lo standard reale di indigenza si sia abbassato nel biennio 2001-02. Se tenessimo invece fisso questo standard reale, per esempio prendendo la soglia di povertà relativa del 1997 e rivalutandola di anno in anno solo per i cambiamenti nel livello dei prezzi, confermeremmo l’evidenza già fornita dalla linea assoluta (figura 2): nel sessennio 1997-2002, non si registra nell’intero paese un aumento della quota di famiglie, o di persone, in condizioni di povertà.

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Redditi familiari e disuguaglianza

Diversamente dai consumi, i redditi misurano la capacità di spesa indipendentemente dalle scelte di consumo effettuate e dagli stili di vita più o meno parsimoniosi delle famiglie. La distribuzione dei redditi personali può essere analizzata utilizzando i dati dell’indagine della Banca d’Italia sui bilanci delle famiglie italiane. (3)
La nozione di “basso reddito” replica quella di povertà relativa applicata alla spesa per consumi. La quota di famiglie a basso reddito è leggermente cresciuta tra il 1995 e il 1998, ma è poi ridiscesa nei quattro anni successivi, tornando sui valori del 1995 (figura 3). Poiché, diversamente dai consumi, nel periodo esaminato il reddito disponibile medio è cresciuto in termini reali, prendendo come riferimento il livello reale della soglia nel 1995, osserveremmo invece una continua diminuzione della quota di famiglie a basso reddito (linea tratteggiata nella figura 3). La diffusione della povertà, se identificata con la condizione di basso reddito, non è quindi mutata in modo significativo tra il 1995 e il 2002 adottando uno standard relativo. Risulta in calo mantenendo fisso in termini reali lo standard del 1995.
Esaminando l’intera distribuzione del reddito disponibile, si conferma l’impressione di stabilità. Dal 1995 al 2002 sono state molto contenute le variazioni delle quote di reddito che vanno ai decimi della popolazione classificata in ordine crescente di reddito. L’indice di Gini – una misura sintetica di disuguaglianza che varia tra 0 (perfetta uguaglianza) e 1 (tutto il reddito concentrato nelle mani di un solo individuo) – aveva nel 2000 e nel 2002 all’incirca lo stesso valore del 1995 (figura 4). Le barre verticali riportate nella figura 4 rappresentano il margine di errore statistico che caratterizza le stime campionarie. Poiché identificano intervalli largamente sovrapposti, l’aumento della disuguaglianza tra il 1995 e il 1998 e il calo successivo non sono significativi, una volta che si sia tenuto conto della variabilità campionaria.
In sintesi, anche l’analisi dei dati dell’indagine della Banca d’Italia sui bilanci familiari non segnala un aumento dell’incidenza della povertà, né un peggioramento della disuguaglianza dei redditi disponibili dalla metà degli anni Novanta ai primi anni di questo decennio. (4)

* L’autore è economista al Servizio studi della Banca d’Italia e componente della Commissione d’indagine sull’esclusione sociale. Le opinioni qui espresse sono esclusiva responsabilità dell’autore e non impegnano in alcun modo né la Banca d’Italia, né la Commissione d’indagine sull’esclusione sociale.

(1) Cfr. A. Ichino, “Banche dati solo sui giornali”, www.lavoce.info, 10 novembre 2003.

(2) Si è preferito il deflatore dei consumi nazionali delle famiglie di contabilità nazionale perché, diversamente dagli indici del costo della vita, tiene conto anche degli affitti imputati sulle case occupate dai proprietari, il cui valore è compreso nella spesa per consumi usata per stimare la povertà. Con questo deflatore la variazione dei prezzi tra il 1997 e il 2002 risulta del 13,8 per cento, rispetto all’11,9 dell’indice dei prezzi al consumo per l’intera collettività nazionale. Si noti che un tasso di inflazione superiore a quello misurato dall’Istat e vicino a quello “percepito” dalle famiglie non modificherebbe né il livello, né la dinamica della disuguaglianza e della povertà relativa (sulla diversità tra i due tassi di inflazione cfr. Banca d’Italia, Relazione annuale sul 2003, Roma, 2004, pp. 180-2). Si avrebbero invece ripercussioni sugli indici distributivi se il tasso di inflazione variasse con il livello della spesa o del reddito delle famiglie, ma le stime disponibili mostrano che questa variabilità è contenuta (cfr. M. Baldini, “Per chi è aumentato il costo della vita?”, www.lavoce.info, 28 ottobre 2002).

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(3) Cfr. Banca d’Italia, “I bilanci delle famiglie italiane nell’anno 2002”, a cura di C. Biancotti, G. D’Alessio, I. Faiella e A. Neri, Supplementi al Bollettino Statistico, n. 12, 2004, e Relazione annuale sul 2003, Roma, 2004, pp. 163-5. Per facilitare il confronto, i dati sui redditi sono stati analizzati con gli stessi metodi e la stessa scala di equivalenza utilizzati dall’Istat nelle statistiche sulla povertà; i risultati differiscono quindi da quelli delle pubblicazioni della Banca d’Italia.

(4) La distribuzione dei redditi disponibili equivalenti è tuttavia più diseguale in Italia che in molti altri paesi europei o nordamericani. Secondo i dati comparabili più recenti del Luxembourg Income Study, relativi al 1999 o al 2000 a seconda dei paesi, l’indice di Gini era pari al 33 per cento in Italia, rispetto al 25 in Finlandia, Norvegia, Paesi Bassi, Slovenia e Svezia, al 26 in Germania e Lussemburgo, al 29 in Polonia e al 30 in Ungheria e Canada; era pari al 35 per cento nel Regno Unito, al 36 in Estonia e al 37 negli Stati Uniti (cfr. www.lisproject.org/keyfigures/ineqtable.htm).

 

 

Fig. 1 – Incidenza della povertà, 1997-2002 (valori percentuali)



Fonte: Istat, “La stima ufficiale della povertà in Italia, 1997-2000”, Argomenti, n. 24, 2002; “La povertà in Italia nel 2001”, Note rapide, n. 2, 2002; “La povertà in Italia nel 2002”, Note rapide, n. 2, 2003.

 

 

Fig. 2 – Incidenza della povertà, 1997-2002 (valori percentuali)

Fonte: elaborazione su dati Istat, Indagine sui consumi delle famiglie. La “linea base del 1997 rivalutata” è ottenuta aumentando annualmente la linea relativa base del 1997 proporzionalmente alla variazione del deflatore dei consumi nazionali delle famiglie di contabilità nazionale.





Fig. 3 – Quota di famiglie a basso reddito, 1995-2002
(valori percentuali)

 

Fonte: elaborazione su dati Banca d’Italia, Indagine sui bilanci delle famiglie italiane, Archivio storico (Versione 3.0, gennaio 2004). La “linea relativa del 1995 rivalutata” è ottenuta aumentando annualmente la linea relativa del 1995 proporzionalmente alla variazione del deflatore dei consumi nazionali delle famiglie di contabilità nazionale.




Fig. 4 – Indice di Gini dei redditi disponibili, 1995-2002
(valori percentuali)


 

Fonte: elaborazione su dati Banca d’Italia, Indagine sui bilanci delle famiglie italiane, Archivio storico (Versione 3.0, gennaio 2004). Le barre verticali sono pari a 2 volte l’errore standard sia sopra che sotto la stima puntuale.

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