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Categoria: Scuola, università e ricerca Pagina 53 di 70

QUANTI RISCHI NELLA RINUNCIA AL TEMPO PIENO

Tra fine marzo e aprile si decide il numero di insegnanti assegnati a ciascuna scuola. Si capirà dunque qual è il futuro del tempo pieno, al di là del gran numero di famiglie che continua a sceglierlo. La riduzione di questo modello di organizzazione scolastica ha conseguenze importanti. Non solo il probabile peggioramento della qualità dell’insegnamento e una minore capacità di recupero degli svantaggi sociali. Ma anche un ostacolo all’occupazione femminile e un passo indietro nel percorso verso il superamento della divisione dei ruoli all’interno della famiglia.

I DISASTRI DELLA SCUOLA CHE PROMUOVE TUTTI

Se descrivessimo il sistema dell’istruzione in Italia con la terminologia della finanza, apparirebbe evidente che almeno al Sud avviene ogni anno un indiscriminato salvataggio dell’impresa-scuola, con una sopravvalutazione dell’attivo, ovvero delle competenze degli studenti diplomati. La conseguenza ・una universit・fortemente sovradimensionata. Mentre sarebbe necessario ricominciare a investire nella scuola dell’obbligo, con risorse progettuali oltre che finanziarie. Per esempio, si potrebbero misurare i progressi non solo per anno, ma anche per materia.

IDENTIKIT DEL LAUREATO-INSEGNANTE

Lungi dall’essere un corpo omogeneo, l’universo degli insegnanti è al suo interno molto differenziato. Significative le differenze nei meccanismi e nei fattori di selezione e autoselezione in entrata dei laureati-insegnanti. Ciò riflette differenti motivazioni culturali, ma anche la presenza di asimmetrie nelle opportunità occupazionali e professionali, effettive o percepite. L’unico elemento comune a tutti sembra essere l’elevata quota e la lunga durata della condizione di precarietà. I risultati di una indagine della Fondazione Agnelli su dati Almalaurea.

L’UNIVERSITA’ DELLE CATTEDRE GRIGIE

I professori universitari italiani sono i più vecchi d’Europa e godono del privilegio di andare in pensione più tardi dei colleghi europei senza dover produrre risultati scientifici. Il decreto legge 180/08 del ministro Gelmini fissa le quote d’immissione dei giovani ricercatori nel sistema universitario, ma non affronta il nodo dell’età pensionabile dei docenti ordinari. All’università serve una riforma che diminuisca rapidamente il numero degli ordinari, preservando al contempo la trasmissione del sapere fra le generazioni.

LA RISPOSTA AI COMMENTI

 È importante sottolineare fin dall’inizio che avevo tentato di fare un discorso sui bilanci a rischio degli atenei Italiani. Specialmente quelli che avevano sforato il tetto del 90 percento del FFO per spese di personale di ruolo. E avevo – sia pur brevissimamente – individuato la fragilità di tali bilanci nell’espansione, senza piano di lungo periodo, del personale di ruolo. Data la rigidità dei bilanci e i tagli previsti del FFO mi sono concentrato su questo tipo di personale accademico.
Alcuni commenti fanno una questione di dati, altri di classificazione più dettagliata e di omogeneità, altri infine di stipendi. Non entro, tuttavia, nel dettaglio di ciascun commento che, seppur interessante, mi porterebbe lontano dal punto che volevo sottolineare. Questa volta, la "carenza di dati" si riferisce alla California. Voglio dire che, per fortuna, in California non esiste un Ministero dell’Università e dellaRicerca. Per questo motivo non esiste una banca dati centralizzata come quella del MIUR da cui si possono attingere in breve tempo e con grande dettaglio le informazioni sull’Università italiana nel suo complesso, pubblica e privata.
Per la California, dunque, occorre fare un lavoro certosino (dipartimento per dipartimento) e può darsi che abbia commesso un errore di sottostima, errore che mi ero proposto di evitare includendo tra il personale di ruolo in California anche i professori assistenti, che di ruolo non sono.
So bene che nei dipartimenti delle università in California ruotano (cioè sono impiegate) categorie come visiting professors, lecturers(molti non di ruolo), professori emeriti (pensionati, non a carico del bilancio dell’università ma del fondo pensione), post-doctoral fellows e graduate students.
Queste categorie permettono flessibilità nell’organizzazione della didattica. Tali categorie sono state escluse nel mio conteggio, così come descritto nell’articolo.

LA RISPOSTA AI COMMENTI

Come era prevedibile, una parte dei commenti si è divisa in due fronti contrapposti. Da un lato quelli che plaudono a “un articolo finalmente controcorrente”, come ha scritto un lettore, e che “scava fra le macerie del provincialismo”, come ha scritto un altro. Dall’altro quelli che vi hanno visto “una difesa d’ufficio”, o addirittura l’espressione di “una casta che intende perpetuare i propri privilegi”. La maggior parte dei lettori che hanno scritto un commento, tuttavia, entrano nel merito, con osservazioni interessanti per le quali li ringrazio.
Poiché la proliferazione dei corsi di laurea è stata un effetto della riforma del 3+2, un primo gruppo di commenti si sofferma su questo nuovo modello di organizzazione degli studi. Prevale un giudizio moderatamente positivo sulla riforma, con alcune riserve. Chi scrive condivide questa posizione, e in particolare la convinzione che ora la priorità non sia certo un’ulteriore revisione del 3+2, bensì altri aspetti cruciali che questa riforma non ha toccato: un efficace sistema di valutazione, la governance degli atenei, i sistemi di reclutamento e di carriera.
Un secondo gruppo di commenti riguarda l’aumento del numero dei docenti, che la riforma, e la moltiplicazione dei corsi di laurea in particolare, hanno comportato. Le cifre richiamate oscillano fra il 19 e il 32% dal 2000 al 2007. Tuttavia, i confronti internazionali mostrano che in Italia non c’è affatto sovrabbondanza di docenti, né rispetto alla popolazione né in rapporto agli studenti. I dati OCSE per il 2005 danno un rapporto di 20.4 studenti equivalenti a tempo pieno per docente in Italia, a fronte di un rapporto decisamente più basso in Francia, Olanda, UK e USA, e ancor più basso in Germania e Spagna.
Infine, un terzo gruppo di commenti riguarda più specificamente il senso e le conseguenze della moltiplicazione dei corsi di studio. Alcuni lettori continuano a considerarla solo una assurda fonte di costi, altri un falso problema, o una illusione ottica, come si diceva nel mio articolo. Un lettore nota come i dati mostrino che anche in altri paesi alcuni “prodotti universitari” vengono lanciati, falliscono e vengono ritirati dal mercato, in una logica di “sperimentazione come necessaria all’evoluzione”. Ma un altro osserva che il sistema dei crediti, se potesse essere utilizzato in percorsi flessibili anziché rigidi, consentirebbe allo studente di personalizzare il suo curriculum anziché dover scegliere tra alternative che vengono “inutilmente burocratizzate con percorsi diversi chiamati corsi di laurea”. In effetti, il meccanismo delle “classi dei corsi di laurea”, dettato dalla paura di concedere troppa autonomia alle strutture didattiche e dalla mentalità burocratica per cui si assicura la qualità standardizzando ex ante anziché valutando ex post, ha finito con lo spingere le facoltà a moltiplicare i corsi di studio, anziché a contenerli come era nelle intenzioni.
In conclusione, ringrazio i lettori per avere in larga misura compreso come l’obiettivo dell’articolo, e più in generale del lavoro da cui è tratto, fosse di mostrare che, guardando ai dati in chiave comparata, emerge la necessità di valutazioni più equilibrate rispetto ai pregiudizi, alla disinformazione e alla tendenziosità che purtroppo imperano nel dibattito sull’università italiana.

ATENEI TRA DUE DECRETI: PURCHÉ 35 ANNI NON SIANO PASSATI INVANO

Paghiamo ancora le conseguenze del reclutamento indiscriminato di docenti disposto quando esplose la domanda di istruzione universitaria. Nelle nuove misure per gli atenei si prefigura sia una rottura con il passato sia una ripetizione di alcuni degli errori più grossolani che lo hanno caratterizzato. Da un lato introduce l’impiego di procedure di valutazione della ricerca, ma dall’altro si rischia di riprorre un meccanismo di assunzione dei giovani senza una selezione rigorosa e senza creare un contesto ambientale idoneo ad attrarre i ricercatori migliori.

UNIVERSITÀ, PRIMA LEZIONE: RIDURRE I DOCENTI

Gli ultimi tre decreti legislativi relativi all’università varati in Italia si sono tradotti nell’esplosione degli organici a tempo indeterminato sia dei docenti che dei tecnici-amministrativi. Un confronto con la California, non dissimile al nostro paese in termini di dimensione del territorio, abitanti e popolazione studentesca, aiuta a comprendere la portata del fenomeno. Se si vuole rivitalizzare il sistema universitario italiano occorre innanzitutto partire da un ridimensionamento dell’organico dei docenti universitari.

E SULL’UNIVERSITA’ DATI CONTRO PREGIUDIZI

Una delle ricorrenti accuse contro l’università italiana riguarda la proliferazione dell’offerta formativa negli ultimi anni. Che sarebbe legata a interessi corporativi dei docenti. Non mancano le azioni clientelari, ma per lo più è il risultato di un’illusione ottica: l’introduzione del 3+2 ha spezzato il ciclo unico, portando come minimo a un apparente raddoppio del numero di corsi di studio. E corrisponde anche al tentativo di individuare percorsi più mirati al mercato del lavoro. Processi virtuosi, almeno nelle intenzioni, che hanno interessato tutti i paesi europei.

RISORSE E RILANCIO DELLA SCUOLA

I confronti internazionali dimostrano che la scuola italiana ha bisogno di serie riforme strutturali. Non di tagli indiscriminati e politiche pasticciate. Ma il rilancio del sistema scolastico richiede ingenti risorse. Illusorio pensare che si possano trovare somme aggiuntive rispetto a quelle già elevate che vi si spendono. Eliminando le numerose inefficienze gestionali e organizzative del servizio, che producono un elevato rapporto docenti studenti, si potrebbero risparmiare fondi da reinvestire nell’istruzione. Oltretutto con costi sociali limitati.

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