In Italia difficile da sempre, la transizione scuolalavoro ha oggi aspetti nuovi. Con i cambiamenti demografici e della struttura produttiva, più che l’ingresso nel mondo del lavoro, sono problematici i percorsi di valorizzazione e stabilizzazione. Anche perché mancano gli incentivi ad hoc. Gli effetti della nuova regolazione del mercato del lavoro sono per il momento marginali. E la difficoltà di adattamento dellofferta alla domanda sembra quasi “scontata” in anticipo, al momento della scelta del percorso di studio.
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La transizione dalla scuola al lavoro è certamente uno dei problemi più gravi dell’Italia. Ma oggi ci sono nuovi strumenti per affrontarla. Capisaldi sono l’istituzione del diritto-dovere a istruzione e formazione fino alla maggiore età e la diversificazione e razionalizzazione dell’offerta di istruzione secondaria. Affiancano quanto previsto dalla legge Biagi sulla disciplina del nuovo apprendistato e sul ruolo assegnato a istituti scolastici e università per garantire il collocamento nel mercato del lavoro.
Il crescente utilizzo dei contratti di apprendistato è da attribuire principalmente alla possibilità per le imprese di assumere personale a costo ridotto, godendo di forti sgravi contributivi, e non alla volontà di investire in formazione. Mancano infatti gli incentivi adeguati per realizzare una attività formativa non cosmetica. Una situazione che non muta neanche con le nuove norme, che mantengono le ambiguità sulla durata del rapporto tra azienda e lavoratore coinvolto nel processo di formazione e sulla certificazione delle competenze acquisite.
Prima di rifinanziare i progetti di incentivazione alla diffusione della cultura informatica tra i giovani italiani, andrebbero valutati i risultati ottenuti con le iniziative già attuate. L’effetto di alfabetizzazione addizionale sembra infatti aver riguardato solo il 3 per cento dei sedicenni. Se invece gli incentivi fossero assegnati casualmente a persone “simili”, non solo per età, ma anche per background familiare e livello di istruzione, l’eventuale variazione delle abilità informatiche potrebbe essere ascritta più rigorosamente alla partecipazione al programma.
In Italia la transizione dalla fine della formazione al primo impiego è tra le più lunghe fra i paesi Ocse. Né risultati migliori si hanno nelleducazione permanente. Così come sono pochi gli studenti che lavorano. Perché manca nel nostro paese una cultura che leghi formazione e attività lavorativa. Occorre perciò ripensare limpostazione dellinsegnamento secondario superiore, per valorizzare listruzione tecnica e professionale. E le modalità di alternanza tra scuola e lavoro vanno concepite e gestite con le aziende.
In Gran Bretagna si rafforzano i meccanismi competitivi che negli ultimi quindici-venti anni hanno portato grandi benefici al sistema universitario, permettendo alle risorse di essere allocate laddove sono più produttive. Anche in Italia, alle università dovrebbe essere concessa piena libertà sulle rette e sul modo di utilizzarle, con lunico obbligo di pubblicizzare la destinazione dei fondi aggiuntivi. Si creerebbe così una benefica competizione non solo fra atenei, ma anche fra dipartimenti di una stessa sede.
Secondo dati desunti dallinchiesta sulle famiglie della Banca dItalia, il 24 per cento degli studenti universitari italiani proviene dal 20 per cento più ricco delle famiglie. Solo l8 per cento appartiene al 20 per cento più povero. Nel Sud la disparità è ancora più evidente. Nel sistema attuale la fiscalità generale finanzia prevalentemente lo studio dei ricchi. Un aumento delle tasse universitarie, accompagnato da meccanismi di finanziamento per i meno abbienti, servirebbe anche ad accrescere lefficienza degli atenei.
Si occuperà di bio-nanotecnologie, scienze neurali, automazione e robotica, settori di frontiera e ad alta ricaduta applicativa. Sarà una struttura snella, de-burocratizzata e autonoma, basata su criteri meritocratici, che dovrà contare anche su finanziamenti privati. Perché la sfida dellIstituto italiano di tecnologia è innovare il sistema della ricerca nel nostro paese, stimolando la competizione e mettendo in rete le realtà di eccellenza. Così da consentire allItalia di mantenere un ruolo primario nel gruppo dei paesi più avanzati anche prossimi decenni.
La riforma degli ordinamenti didattici per l’università voluta dal ministro Moratti perpetua gli errori del precedente governo. Resta intatto il disegno tecnocratico e razional-sinottico. Così come rimane la complessità e inutilità dei troppi adempimenti burocratici. Cambiano solo alcune regole che non riescono però a permettere una valutazione dei corsi di studio basata sull’analisi delle reali capacità di offrire contenuti formativi. Né garantiscono un sistema dei crediti trasparente e capace di incentivare la mobilità degli studenti.




