I vincoli sugli aiuti di stato, il “burden sharing” e l’intervento dei privati sono tra i punti cardine della disciplina comunitaria sull’insolvenza bancaria. L’apparente rigore delle norme lascia però ai governi un apprezzabile grado di flessibilità.
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L’intervento dello stato ha un ruolo determinante nella gestione delle crisi bancarie. E le misure adottate non sono per forza dannose per le finanze pubbliche. Diverse esperienze internazionali dimostrano al contrario che a volte lo stato ci guadagna.
Di fronte alla grave situazione del Monte dei Paschi, il governo italiano si è opposto a qualsiasi forma di coinvolgimento dei creditori subordinati nella procedura di insolvenza. Eppure, in Europa e nel mondo, in situazioni analoghe, ciò è avvenuto. Rimane la necessità di salvaguardare i truffati.
Dove sono finiti i soldi dei bail-out della Grecia nel 2010 e 2012? Tsipras ha in parte ragione quando sostiene che sono andati alle banche – francesi, tedesche e greche – e non al popolo. Il vero problema è che l’Europa non ha voluto accollarsi il salvataggio attraverso il bilancio “federale”.
Con la vittoria di Syriza alle elezioni, la rinegoziazione del memorandum è ormai inevitabile. Si tratta di un notizia che evidenzia le molte fragilità del sistema federale europeo. Ma non è il rigore il vero problema dell’economia greca.
Punire i debitori, lasciandoli fallire, per ridurre le aspettative di salvataggi futuri può rivelarsi un’illusione. Anzi rischia di sortire l’effetto opposto. Chi credeva che condannando i banchieri di Lehman Brothers si sarebbe imposta maggiore disciplina sugli altri è rimasto deluso, perché la promessa implicita di salvataggio è aumentata. Al contrario, il salvataggio della Bear Stearns non ha portato a un aumento delle aspettative di bail-out. Bisogna tenere conto di questo quando si discute di Irlanda e altri paesi ad alto debito.