Lavoce.info

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Tav, o non Tav: questo è il dilemma

Su lavoce.info, il dibattito sulla linea ferroviaria ad alta velocità tra Torino e Lione è iniziato ben prima che la questione diventasse “nazionale”. E’ un’opera “strategica”? I contrari ritengono che i costi sarebbero ben più alti dei benefici. E che altre infrastrutture sono ben più urgenti. D’altra parte, il progetto potrebbe essere rimodulato in funzione della sola domanda merci, riducendo così i rischi di una domanda insufficiente. Anche perché non è affatto certo che riesca a liberare le valli piemontesi dai Tir. Ma c’è anche chi sostiene che con la Tav si avrebbe un miglioramento delle condizioni ambientali, mentre rinunciarvi comporta una perdita di competitività e di quote del commercio mondiale.

L’Europa nel Patto

Un nostro sondaggio ha confermato che i giovani italiani continuano a essere filo-europei e voterebbero a favore del Trattato costituzionale. Perché hanno poca fiducia nel nostro sistema politico e nelle nostre istituzioni e l’Europa piace perché ci protegge dai nostri stessi errori. Eppure, il nuovo Patto resta troppo indulgente verso alcuni paesi. Affidare il giudizio sul rispetto delle regole all’Ecofin è svantaggioso per noi. Perché senza la garanzia che i deficit eccessivi siano osservati da vicino da un’istituzione indipendente, le agenzie di rating alzeranno lo spread sui titoli italiani. Se poi si vuole rilanciare la crescita economica, va attuato il processo di riforme strutturali di Lisbona.

Non solo devolution

Oggi alla Camera si vota per la riforma costituzionale del Polo. E’ il secondo passaggio. Dopo resta solo l’approvazione definitiva da parte del Senato. Ma non è chiaro se la riforma sarà mai applicata.

Antitrust e concorrenza

Riproponiamo ai lettori una serie di interventi che lavoce.info ha offerto in tema di concorrenza e antitrust.

Pensioni e TFR

In vista del tavolo con le parti sociali, riproponiamo ai lettori una serie di interventi che lavoce.info ha dedicato al decreto del Governo in tema di trasferimento del Tfr ai fondi pensione.

Bisogna brevettare il software?

In Italia e in Europa le l’idea di incoraggiare la ricerca e l’innovazione è ormai diventata un luogo comune del dibattito politico. MA non c’è identità di vedute su come fare. Proprio in questi giorni (luglio 2005), ad esempio, in Europa si discute di politiche per la brevettabilità del software e, più in generale, della tutela dei diritti di proprietà intellettuale.
Gli articoli in questa monografia trattano di questi temi offrendo punti di vista anche differenziati sulle politiche da adottare e – comunque – tanti spunti per riflettere.

 

Il software è un’opera dell’ingegno, tutelata dal diritto d’autore. Non serve permetterne la brevettazione, come si chiede ora anche in Europa sull’esempio americano. Intanto, il brevetto è uno strumento sempre meno utile a incentivare l’innovazione. Nel caso del sofware non accelera il processo di diffusione delle conoscenze né ci sono da ripagare ingenti investimenti iniziali. Infatti, vi si affidano soprattutto le imprese più grandi e meno innovative, spesso con l’intento di bloccare le invenzioni altrui, più che di proteggere le proprie.

Perché il software non ha bisogno del brevetto

 

Raimondello Orsini e Massimo Portolani


Il software è un’opera dell’ingegno, tutelata dal diritto d’autore (copyright). Viene inoltre commercializzato con un nome o marchio depositato: oggi quindi un’impresa che sviluppa software è già protetta dal diritto d’autore e dalla legge sui marchi industriali. Negli Usa, a partire dalla fine degli anni Ottanta, si è ritenuto di permettere anche la brevettazione del software: proteggere quindi non più solo il programma (la forma nella quale è scritto), ma anche la funzione che assolve. L’Europa si sta interrogando sull’opportunità di seguire gli Usa su questa strada. Tra i motivi che inducono a rispondere negativamente si intrecciano sia ragioni generali che rendono il brevetto in sé uno strumento sempre meno utile a incentivare l’innovazione, sia ragioni specifiche che rendono il software inadatto al brevetto.

Le ragioni del brevetto

La concessione del brevetto è finalizzata a incentivare lÂ’innovazione, che viene remunerata dai profitti monopolistici, e ad accelerare il processo di diffusione delle conoscenze, tramite il disvelamento, o “rivelazione dellÂ’insegnamento inventivo” contestuale al deposito del brevetto.
Entrambe queste motivazioni sociali sembrano mancare nel caso del software. LÂ’equazione “maggiore protezione uguale maggiore incentivo a innovare” solitamente non vale se le innovazioni hanno natura sequenziale (ovvero si appoggiano su innovazioni precedenti, avendo carattere complementare o incrementale): ampliare la protezione può avere un effetto deterrente superiore allÂ’effetto incentivante (si incentiva il primo innovatore, ma si disincentivano i potenziali innovatori successivi). Riguardo al disvelamento, la brevettazione del software così come intesa negli Usa permette allÂ’innovatore di depositare il software senza svelarne il codice sorgente. È quindi scarso il beneficio che la società riceve come corrispettivo alla concessione del monopolio. Il brevetto ricompensa chi ha ottenuto lÂ’innovazione impiegando ingenti risorse in un progetto complesso e rischioso, investimenti che necessitano di anni di protezione monopolistica per essere recuperati (per esempio, nel settore farmaceutico). Lo sviluppo di soluzioni software non ha questi requisiti. Risolvere un problema con un algoritmo richiede delle valutazioni astratte e capacità creativa, non investimenti. Anche per questo è stato finora escluso dalla brevettabilità, come gli algoritmi matematici. Inoltre, la complessità dellÂ’oggetto software è tale da non consentire un facile giudizio sia in sede di deposito del brevetto, sia in caso di contenzioso: difficilissimo accertare i requisiti di novità e non ovvietà, necessari perché il brevetto sia valido. Negli Usa, visto che lÂ’Uspto si finanzia con le tasse di deposito, il brevetto viene concesso praticamente sempre, e la sua validità viene valutata in tribunale, dove il detentore si ritiene autorizzato a trascinare coloro che considera illegali imitatori. LÂ’esplosione della litigiosità brevettuale – che non riguarda solo il software – costituisce un problema economico rilevante: le risorse spese nel deposito di brevetti inutili e nelle cause legali da questi generate sono spese di rent-seeking che non creano alcun valore per la società. Uno spreco di risorse di cui beneficiano solo gli studi tecnico-legali. (1)

A chi è utile

La natura burocratica e costosa dell’attività di brevettazione fa sì che a essa si affidino soprattutto le imprese più grandi e – paradossalmente – meno innovative, spesso con l’intento non di proteggere le proprie invenzioni, ma di bloccare quelle altrui. La possibilità di essere trascinati in costose cause legali è in grado di scoraggiare sia le numerose piccole imprese che operano in ambito proprietario, sia la miriade di operatori che collaborano al circolo virtuoso dei progetti Open Source. L’incertezza, i lunghi tempi dei processi e l’impegno finanziario sono un’arma nelle mani delle grandi imprese detentrici di brevetti (validi o no), per indurre altre imprese ad accettare accordi extragiudiziali che possono anche implicare restrizioni della concorrenza. La legislazione sul diritto di proprietà intellettuale deve essere chiara e ridurre le incertezze. La concessione di brevetti dalla validità opinabile non va evidentemente in questa direzione.
In Europa ci sono poche grandi case di software che non siano distributrici o sussidiarie di grandi imprese americane. Queste non aspettano altro che l’estensione dei propri brevetti ai paesi europei. A desiderare un esito simile, possono essere solo la potente lobby degli avvocati o i funzionari dellÂ’European Patent Office (Epo), i quali hanno pensato bene di organizzare, il 30 marzo 2005, un Information Day presso il Parlamento europeo.
http://events.european-patent-office.org/2005/0330/ Tra le motivazioni della “urgenza” della brevettabilità del software ve ne è una davvero singolare: il Parlamento europeo deve legiferare in proposito, perché ormai lÂ’Epo ha già concesso più di 30mila brevetti in ambito software (in palese violazione della normativa vigente: “la prassi ha ormai scavalcato i vincoli normativi”). Resta da vedere se il Parlamento è ancora sovrano, o deve limitarsi a recepire le pressioni dei lobbisti avvallandone i comportamenti mediante modifiche legislative che ne sanino gli abusi.

Per saperne di più

Sul ruolo controproducente dei brevetti, si veda J. Bessen- E. Maskin (2000), “Sequential innovation, patents, and imitation”, Working Paper del Mit: http://www.researchoninnovation.org/patent.pdf .

(1) Per rendersi conto direttamente dellÂ’esplosione del numero dei brevetti depositati negli Usa senza avere i requisiti di novità e non ovvietà, si può consultare il sito ufficiale Uspto: http://patft.uspto.gov/netahtml/search-adv.htm facendo una ricerca con parole chiave come “computer” o “internet”.

LÂ’Europa potrebbe risolvere la diatriba tra fautori e critici della brevettabilità del software istituzionalizzando la Generalized Public License. E’ il contratto principe dell’open source e impone a chi migliora un programma open di mettere a disposizione il codice sorgente dei nuovi apporti. E’ anche facilmente applicabile ad altri contesti. Questa soluzione stimolerebbe la concorrenza tra i due sistemi: chi inventa potrebbe scegliere tra brevettare o mettere le proprie innovazioni in campo aperto.

Licenza d’innovare

 

Alfonso Gambardella

Il 7 marzo, il Consiglio sulla competitività della Commissione europea ha rimandato al Parlamento il testo della “direttiva sulla brevettabilità del software“. È lÂ’atto più recente di una diatriba che va avanti dal 2002, da quando Commissione e Parlamento si rimpallano il documento a suon di emendamenti in cui la prima amplia ciò che può essere brevettato come software e il secondo lo restringe.

Chi brevetta. E chi no

Per entrare nel merito della disputa, possiamo valutare lÂ’esperienza degli Stati Uniti, che hanno avviato la brevettazione “forte” sin dai primi anni Ottanta.
I problemi sono la crescita dei brevetti mirati non tanto a proteggere le proprie invenzioni quanto a bloccare quelle degli altri e il grande aumento delle citazioni in giudizio su questioni brevettuali. DÂ’altra parte, brevetti più forti non sembrano aver scoraggiato le piccole-medie imprese high-tech. Sam Kortum e Joshua Lerner mostrano che nella seconda metà degli anni Ottanta, la quota di imprese che non avevano brevettato nel quinquennio precedente è aumentata rispetto alla seconda metà degli anni Settanta. Brownyn Hall e Rosemarie Ziedonis documentano entrambi gli effetti nei semiconduttori. E mostrano che lÂ’effetto dellÂ’aumento della litigiosità brevettuale e dei “blocking patent” è più marcato degli stimoli alle piccole-medie imprese innovative. Jim Bessen e Robert Hunt ottengono risultati analoghi proprio nel software. Anzitutto, i brevetti delle grandi imprese manifatturiere sono aumentati molto di più di quelli delle imprese di software: secondo i loro dati, le prime impiegano lÂ’11 per cento dei programmatori e analisti di software e detengono il 75 per cento dei brevetti, mentre le seconde impiegano il 33 per cento dei programmatori e analisti e posseggono il 13 per cento dei brevetti software. Una differenza così marcata nella produttività brevettuale non può essere spiegata da differenze di efficienza, ma solo da differenze nella propensione a brevettare. Inoltre, Bessen e Hunt mostrano che, a parità di altre condizioni, le imprese con una maggiore propensione a brevettare hanno una intensità più bassa di ricerca & sviluppo (R&S). Un brevetto più forte, che protegge meglio chi brevetta nella difesa delle proprie innovazioni, rende la R&S più remunerativa, e dunque dovrebbe aumentarla e non diminuirla. Il sospetto è perciò che i brevetti non servano a proteggere le proprie innovazioni, ma a qualcosÂ’altro, e probabilmente ad avere più potere contrattuale rispetto ai concorrenti e a bloccarne le innovazioni.

Il modello open source

Insomma, gli Stati Uniti sembrano essersi spinti un po’ troppo in là. E, in effetti, due rapporti della Federal Trade Commission e della National Academy of Science suggeriscono strade per riequilibrare il sistema. Ora, la posizione della Commissione è più articolata di quanto gli oppositori della direttiva sostengono. La direttiva metterebbe solo ordine in una materia in cui non c’è disciplina in Europa e, comunque, l’Ufficio brevetti europeo sta brevettando software da tempo senza guida da parte del legislatore. Inoltre, come ribadito l’8 marzo di fronte al Parlamento dal commissario alla Direzione mercato interno e servizi, Charlie McCreevy, la direttiva non consente di brevettare nulla che non sia già brevettabile oggi, ed è fatta in modo da consentire di brevettare soltanto contributi tecnologici importanti.
L’esperienza Usa ha mostrato però che la corsa alla brevettazione e l’aumento delle citazioni in giudizio sono stati un fenomeno troppo grande e socialmente costoso per sentirsi rassicurati dalle parole di un Consiglio comunitario, per quanto autorevole. Al tempo stesso, l’open source è un modello nuovo e interessante di produzione del software, sta realizzando progetti e innovazioni utili per la società e andrebbe incoraggiato.
Perché non pensare anche a una direttiva che istituzionalizzi la Generalized Public License (Gpl)? La Gpl è il contratto principe dell’open source che impone a chi contribuisce a un programma open, del quale viene cioè messo a disposizione pubblicamente il codice sorgente, di mettere a disposizione il codice sorgente dei relativi miglioramenti. Il modello potrebbe essere adottato in contesti diversi e difatti si sta diffondendo in altri sistemi tecnologici, come le biotecnologie. La direttiva potrebbe definire il meccanismo e in particolare l’estensione del vincolo di pubblicità dei miglioramenti a valle, standardizzare le caratteristiche dei contratti Gpl, articolarne la tipologia e assicurarne il rispetto. Al di fuori del software, la Gpl potrebbe imporre pubblicità e licenze non esclusive sui migliormenti di un’innovazione.
La direttiva stimolerebbe poi la concorrenza tra i due sistemi. Chi inventa può brevettare o mettere le proprie innovazioni in campo aperto. Il meccanismo va studiato e precisato, ma sarebbe una bella innovazione istituzionale europea, una volta tanto in anticipo e non a rimorchio degli Stati Uniti.

Per saperne di più

Bessen, J. e R. Hunt (2004) “An Empirical Look at Software Patents”, Working Paper 03-17, Federal Reserve Bank of Philadelphia.
Gambardella, A. e B.H. Hall (2005) “Proprietary vs Public Domain Licensing in Software and Research Products”, NBER Working Paper 11120,
www.nber.org.
Hall, B.H. e R. Ziedonis (2001) “The Patent Paradox Revisited: Determinants of Patenting in the US Semiconductor Industry, 1980-1994”, Rand Journal of Economics 32 (1), 101-128.
Kortum, S. e J. Lerner (1999) “What is Behind the Recent Surge in Patenting”, Research Policy 28, 1-22.

Link ai rapporti Ftc e Nas:
http://www.ftc.gov/opp/intellect/
http://www7.nationalacademies.org/ocga/briefings/Patent_system_21st_Century.asp

 

Si può trasferire l’esperienza dellÂ’open source in campo informatico ad altri aspetti del progresso tecnologico? A dispetto del problema del free-riding, la ricerca sullo sviluppo di un input comune a più processi produttivi può risultare addirittura maggiore in un contesto di General Public Licence rispetto a un regime di monopolio protetto da brevetto. Accade quando si ha un effetto di accrescimento del profitto totale dell’industria dovuto a un miglioramento tecnologico dell’input comune. Ciò suggerisce una nuova politica della brevettabilità.

 

Oltre Linux

 

Philippe Aghion e Salvatore Modica


Il dibattito sull’open source, o più propriamente sulla General Public Licence, è generalmente centrato sul software, dove in termini di miglioramento del prodotto la Gpl ha dato risultati estremamente positivi, in particolare con Linux.
Lavoce.info ha già discusso gli aspetti fondamentali del problema negli articoli di Gambardella e Santarelli-Bono. (LINK) Vorremmo aggiungere qualche commento su unÂ’altra questione: cosa possiamo astrarre dall’esperienza di Linux pensando al progresso tecnologico in generale, non necessariamente “digitale”?

I due problemi dellÂ’open source

Conviene tener distinte le due fasi principali del ciclo di vita di un nuovo prodotto: (i) la nascita, con lÂ’invenzione primaria (per il software si pensi alla versione 0.01 di Linux, che Linus Torvalds mise in giro a beneficio di un centinaio di hackers, o al sistema Dos di Microsoft) e (ii) il successivo sviluppo, generato dai miglioramenti apportati da ricerca incrementale (ad opera della collettività degli sviluppatori o del monopolista proprietario del brevetto). Della General Public Licence si dice che permette a ognuno di “dare un mattone per avere in cambio una casa intera”. (1)
Ma lo slogan non racconta proprio tutto: primo, qualcuno deve aver gettato le fondamenta. (2) Secondo, vero è che in fase di sviluppo uno può dare un mattone e avere una casa intera in cambio, ma è altrettanto vero che la casa è sua anche se il mattone non ce lo mette: quindi, perché sprecarlo? In altre parole, lÂ’adozione della Gpl presenta due problemi. Il primo, classico, è che lÂ’assenza di brevettabilità riduce l’incentivo a inventare – in fase (i). LÂ’altro, che a invenzione avvenuta, miglioramenti incrementali di qualità possono essere frustrati dal free-riding – in fase (ii).
Il primo problema, discusso già da Schumpeter e poi da Nordhaus in un famoso libro del 1969, è ancora più chiaro alla luce della teoria della crescita contemporanea che individua nel processo innovativo il motore principale dello sviluppo economico. (3) La prospettiva di profitti monopolistici garantita dalla brevettabilità rende profittevole lÂ’attività di ricerca in quanto consente di recuperare costi iniziali che vendendo al costo marginale andrebbero inevitabilmente perduti. Fortunatamente, i processi innovativi non si arrestano del tutto in assenza di brevettabilità, e Linux ne è esempio eloquente. D’altra parte, è difficile contestare il fatto che tipicamente la brevettabilità costituisce un importante incentivo alla ricerca. (4)

Se l’input è comune a più processi produttivi

Il problema di free-riding creato dalla Gpl sugli sviluppi della nuova invenzione, con conseguente livello subottimale dell’investimento, è tipico dei beni pubblici (il risultato della ricerca diventa un bene pubblico con la General Public Licence). Tuttavia, il volume di ricerca su Linux ha di gran lunga superato quello messo in atto da Microsoft su Windows, e da un paio d’anni allo sviluppo di Linux concorre un pool di grosse imprese di telecomunicazioni e di produttori di hardware (in concorrenza fra loro) che finanziano l’Open Source Development Labs, dove non a caso lavora Torvalds a tempo pieno. Cosa sta succedendo? La nostra opinione è che stia accadendo qualcosa che non ha tanto a che fare con la natura digitale di Linux, quanto con la sua funzione di input comune a molteplici processi produttivi (5).
Per ricorrere a un esempio non digitale e non high-tech, si pensi agli impianti frenanti che entrano nella produzione delle automobili, dei camion, degli aeroplani. La nostra idea, confermata nel contesto di un modello biperiodale, è che a dispetto del problema di free-riding, la ricerca sullo sviluppo di un input comune a più processi in un contesto di General Public Licence può risultare addirittura maggiore che in regime di monopolio protetto da brevetto. Accade quando a fronte dell’effetto negativo di bene pubblico, è presente un abbastanza forte effetto di accrescimento del profitto totale dell’industria dovuto alla qualità dell’input comune e alla conseguente crescente produttività dei processi produttivi delle singole imprese. In altre parole, l’impresa investe nell’input/bene comune nonostante così facendo avvantaggi non solo se stessa ma anche i concorrenti, se al contempo accresce abbastanza la dimensione della “torta” da dividere con loro. Questa dei beni intermedi largamente usati sembra dunque la categoria di prodotti su cui concentrarsi, al di là del software, per pensare alla possibilità di adozione della Gpl.

Quale politica dei brevetti

Ristretta in tal modo l’attenzione a un campo di applicazione potenzialmente proficuo, emerge comunque un tradeoff per la politica dei brevetti: orientarsi sulla brevettabilità, favorendo innovazioni primarie che andrebbero incontro a uno sviluppo di prodotto relativamente lento. Oppure imporre una Gpl sulle nuove invenzioni (del tipo in questione) garantendo uno sviluppo sostenuto di qualità, accettando però un rallentamento del loro tasso di natalità. Ci sono vie d’uscita? Alla ricerca di un intervento pubblico che riesca ad aggirare il tradeoff appena descritto, sembrerebbe ragionevole esplorare la possibilità di mantenere sì la brevettabilità, ma poi per quei beni in cui c’è più ricerca incrementale con Gpl che sotto regime di monopolio (del tipo da noi individuato), lo Stato acquisti i brevetti, e li rilasci con licenza Gpl.

(1) Sono parole di Ganesh Prasad, un web designer affascinato dalle implicazioni economiche e sociali di Linux, che utilizza dal 1996.
(2) Per Linux è stato Linus Torvalds, un finlandese freddoloso che voleva fare tutto da casa, come ricorda nella sua autobiografia “Rivoluzionario per caso” pubblicata da Garzanti.
(3) Si vedano ad esempio i capitoli disponibili dell’
Handbook edito da Philippe Aghion e Steven Durlauf, di prossima pubblicazione.
(4) Il caso della brevettabilità del software piuttosto che la sua protezione con copyright, che tocca anche delicate questioni di brevettabilità delle idee, potrebbe essere un’eccezione, anche a causa degli intricati problemi legali che verrebbero a crearsi. Vedi il sito della Foundation for a Free Information Infrastructure,
ffii.org, per il dibattito in Europa.
(5) Aghion, P. e Modica S., “Open Source without Free-Riding”, in preparazione.


La Commissione Europea e i ministri europei reponsabili della Competitività hanno varato una controversa direttiva sulla brevettabilità di “computer-implemented inventions”. Lungi da poter essere considerato concluso, il dibattito dovrebbe ora investire l’intero sistema di tutela della proprietà intellettuale. Se si vuole incoraggiare l’attività innovativa e favorire la circolazione dei suoi risultati, le strategie copyleft sembrano le più adatte a promuovere la ricerca di base. E potrebbero innescare meccanismi per il recupero di competitività e di rilancio verso l’economia basata sulla conoscenza, perno della strategia di Lisbona.

L’Europa tra copyright e copyleft

Giovanni Bono e Enrico Santarelli

In passato, i programmi per elaboratori elettronici (“software”) erano soggetti alla disciplina sul diritto d’autore: le idee contenute nel programma non potevano essere brevettate. Sulla scorta dell’idea che il software contiene invenzioni come ogni altra realizzazione tecnologica, gli Stati Uniti (USA) hanno da tempo rotto con questa tradizione ed il software – come gli algoritmi matematici, i “business methods”, etc. – è entrato a pieno titolo fra le materie di brevetto. Nello stesso tempo, il “copyright” sul software è stato messo in crisi da una comunità transnazionale di sviluppatori, detta del “software libero” o “movimento open source”. Questa comunità è cresciuta grazie all’uso di licenze cosiddette “copyleft”, che mettono in comune i risultati invece di negoziarne la circolazione sul mercato. Tale pratica, che ha prodotto esperienze di successo nel settore del software – come GNU, Linux e Apache – e ha contagiato giganti come Netscape, IBM e Sun Microsystem si sta estendendo anche ad altri settori, dalla musica alle biotecnologie.
Commissione europea ed Europarlamento hanno dibattuto a lungo attorno alla possibilità di brevettare software.
La querelle si è aperta con un Green Paper presentato dalla Commissione nel 1997. Il 24 settembre 2003, lÂ’Europarlamento ha approvato un testo fortemente limitativo, la direttiva dell’Unione Europea sulla brevettabilità di “computer-implemented inventions”. A sua volta, la Commissione ha presentato, il 18 maggio 2004, un testo modificato nella direzione opposta. QuestÂ’ultimo, tuttavia, non ha raccolto sufficienti consensi, tanto che il 2 febbraio 2005 l’Europarlamento ha chiesto l’azzeramento dell’intera procedura, invitando la Commissione a soprassedere rispetto alla decisione in tema di brevettabilità del software. Infine, tra il 3 e il 7 marzo 2005, prima la Commissione poi i ministri europei responsabili della Competitività, hanno respinto questo invito e, malgrado lÂ’opposizione più o meno ferma di alcuni paesi membri (la Spagna in testa, ma anche Cipro, Danimarca Lettonia, Paesi Bassi, Polonia, Ungheria) e lÂ’astensione di altri (Austria, Belgio e Italia), manifestato una preferenza per lÂ’orientamento copyright. In attesa di un nuovo pronunciamento dellÂ’Europarlamento, è nostra opinione che la politica comunitaria per l’innovazione dovrebbe invece operare una scelta di campo diversa e decidere di sfruttare a fondo le opportunità di crescita generate dal copyleft.

Fautori e oppositori della brevettabilità

I fautori ritengono la brevettabilità del software un incentivo necessario all’attività innovativa: ne garantirebbe il futuro in Europa proteggendo le invenzioni sia delle piccole che delle grandi imprese. Gli oppositori osservano che, mentre negli altri campi la concessione del brevetto è subordinata alla divulgazione dellÂ’informazione tecnologica su cui esso si basa, nel caso del software tale protezione è accordata anche se il codice sorgente rimane segreto. Di conseguenza, l’estensione del meccanismo brevettuale frenerebbe l’innovazione, mettendo l’industria europea del software saldamente in mano a un cartello di grandi imprese in grado di eliminare i concorrenti più piccoli grazie al pieno controllo che esercitano sui codici sorgente del software più diffuso. In effetti, il dibattito è stato talvolta letto come uno scontro tra gli interessi delle grandi e delle piccole imprese del settore.
La prassi ha tuttavia da tempo scavalcato i vincoli normativi, posti ad esempio dallÂ’articolo 52 della European Patent Convention, e di fatto sono stati concessi numerosissimi brevetti sul software. Il problema, però, è di portata maggiore. Il punto di fondo è infatti se l’Unione europea debba seguire gli Stati Uniti sulla strada di una politica intransigente di tutela della proprietà intellettuale o se vi sia la possibilità di imboccare percorsi diversi. Si tratta, in altre parole, di scegliere con chiarezza il sistema prevalente di accesso alle conoscenze codificate, che rappresentano sia il principale input che il principale output di ogni attività innovativa.

Copyright e copyleft

La regolamentazione privata dell’accesso alle conoscenze codificate prende forme diverse in settori e sistemi giuridici diversi. Questa varietà di forme, pratiche e strategie negoziali può essere ricondotta a due tipologie generali: “copyright” e “copyleft”.
La strategia copyright, che include i brevetti, è tipicamente “chiusa” e comporta un’attribuzione selettiva dei diritti di accesso. La strategia copyleft, adottata dalla comunità degli sviluppatori di software libero, è invece “aperta” e attribuisce i diritti di accesso non selettivamente. Nel primo caso, la conoscenza generata dall’attività innovativa è una collezione di beni privati, accessibili soltanto a seguito di una negoziazione privata. Nel secondo, è un “commons”, cioè una risorsa di proprietà comune la cui riproduzione, circolazione e modifica sono limitate in modo tale da garantire la loro permanenza nel “commons”. Gli esempi di “commons” nella moderna società dellÂ’informazione sono molteplici. Basti pensare, ad esempio, che gli standard tecnologici del world wide web sono in larga parte un “commons” e che l’istituzione che orienta la loro produzione – iniziata al Cern di Ginevra nel 1989 – è una joint venture franco-nippo-statunitense, il World Wide Web Consortium (w3c). E recenti esempi di successo di software copyleft come quelli del sistema operativo Linux e del server http (hyper text transfer protocol) Apache dovrebbero attenuare la diffidenza attorno a questa modalità di accesso alle conoscenze codificate. Tra lÂ’altro, il ciclo di vita del software tende a diventare sempre più breve. Tutelarlo con una strategia copyright rigida e protratta nel tempo non sembra avere molto senso, anche in considerazione del fatto che la profittabilità di un prodotto software è di regola alta subito dopo la sua immissione sul mercato, ma rapidamente decrescente nel periodo successivo (Forrest, 2003).

Imparare dagli Usa?

L’esperienza Usa non sembra d’altra parte un modello da imitare. In un recente libro, due tra i massimi studiosi statunitensi di economia dell’innovazione, Adam Jaffe e Josh Lerner, sostengono che il sistema americano di tutela della proprietà intellettuale tramite i brevetti è andato in crisi proprio a partire dalla prima metà degli anni Ottanta.
Le cause sono l’introduzione di una Corte d’Appello centralizzata (Cafc) che ha unificato e potenziato il trattamento giudiziario dei diritti brevettuali, e la trasformazione dell’ufficio brevettuale (Uspto) in agenzia di servizi i cui costi di mantenimento sono pagati attraverso le fees dei “clienti” (i patent applicants, coloro che presentano domanda di concessione di brevetto), anziché dal governo federale. L’orientamento pregiudizialmente favorevole della Cafc nei confronti dei titolari di brevetto (“patent holders”) e la trasformazione dello Uspto in una struttura di servizio dei “patent applicants”, ha determinato una autentica esplosione dell’attività brevettale, cresciuta tra il 1982 e il 2002 al ritmo medio del 5,7 per cento lÂ’anno, contro lÂ’1 per cento medio annuo del periodo 1930-1982. Accompagnata, però, da una crescita esponenziale nel numero dei contenziosi giudiziari, da una sostanziale perdita di rigore nelle procedure di valutazione delle domande e di attribuzione dei brevetti da parte dello Uspto, nonché da un aumento dei costi di transazione per l’acquisto e la cessione di licenze sui brevetti. Oltre tutto, la proliferazione di brevetti di scarsa o nessuna rilevanza tecnologica e i costi sempre più elevati di difesa dei brevetti in sede giudiziale, non hanno portato all’incremento sperato nella realizzazione di innovazioni di prodotto.

Cosa fare in Europa

Naturalmente, occorre valutare con estrema cautela se una politica tradizionale – di impostazione copyright – sia preferibile all’esplorazione di politiche nuove – di ispirazione copyleft. Oltre a suggerire un ripensamento della normativa sulla brevettabilità del software, il dibattito europeo dovrebbe investire lÂ’intero sistema di tutela della proprietà intellettuale. Gli strumenti per la “tutela della proprietà intellettuale” e quelli per la formazione di “commons” di conoscenza servono lo stesso duplice scopo: incentivare l’attività innovativa e favorire la circolazione dei suoi risultati. L’esperienza delle economie industriali induce a considerare i primi come i più adatti a promuovere gli investimenti privati in ricerca & sviluppo, perché consentono una esplorazione sistematica e ordinata delle prospettive aperte da una invenzione primaria. I secondi sembrano invece i più adatti a favorire la ricerca di base, svolta o finanziata da fondazioni ed enti pubblici, le università in testa.
Se lÂ’Europa riuscisse a coniugare il regime di tutela e riconoscimento dell’innovazione nel suo complesso con politiche ispirate a esperienze copyleft, potrebbe gettare le basi per lo sviluppo di un meccanismo incentivante originale e capace di indurre individui e imprese a scegliere strategie di innovazione aperte. Sarebbe uno strumento di recupero di competitività e di rilancio nel cammino verso un’economia basata sulla conoscenza, lÂ’obiettivo prioritario individuato dal Consiglio europeo di Lisbona nel marzo 2000.

Per saperne di più

Sulle recenti tendenze negli Usa e in Europa abbiamo citato:
Jaffe, Adam J e Josh Lerner (2004), Innovation and Its Discontents, Princeton e Oxford, Princeton University Press.
Forrest, Heather (2003), “Europe: Open Market … Open Source?”, Duke Law & Technology Review, http://www.law.duke.edu/journals/dltr/articles/2003dltr0028.html

Per quanto riguarda il “copyleft”, rinviamo alle pagine web delle più importanti istituzioni di governo di “knowledge commons”, la Free Software Foundation (http://www.fsf.org/), la Open Source Initiative (http://www.opensource.org/) e il Creative Commons (http://creativecommons.org/).

Un’introduzione tecnica ma accessibile al problema della circolazione delle conoscenze codificate è contenuta in:
Quah, Danny (2004), “Digital Goods and the New Economy”, Centre for Economic Policy Research, Discussion Paper Series No. 3846,
www.cepr.org/pubs/dps/DP3846.asp

Un’utile risorsa bibliografica per il lettore economista si può trovare al seguente indirizzo:
http://www.dklevine.com/general/intellectual/intellectual.htm

 


La pubblica amministrazione ha difficoltà a utilizzare le tecnologie con efficienza e efficacia. Lo dimostra la limitata diffusione di software open source. Per non aggravare i ritardi già accumulati servono scelte precise e un sistema di incentivi e disincentivi per realizzarle. E si potrebbe così rivitalizzare l’industria italiana del software.

Perchè la PA diffida di Apache

Lucio Picci


Il 63 per cento nel mondo, ma solo il 38 per cento nell
amministrazione pubblica italiana: questo il confronto della diffusione di un importante software open source (Os), il server web Apache, il programma che permette di far funzionare i siti web (compreso quello de lavoce.info). (1) Sono necessarie politiche precise per colmare questa distanza, che è un sintomo della difficoltà dellamministrazione italiana a utilizzare le tecnologie con efficacia ed efficienza. Da un punto di vista pratico, e con qualche approssimazione, la differenza tra software proprietario e Os consiste nel fatto che nel primo caso, di solito dopo il pagamento di una licenza duso, lutente può eseguire il programma, ma non vede come è stato scritto e non può modificarlo, mentre il software open source può essere modificato e ulteriormente distribuito, ed è gratuito.

Non sempre vince il migliore

La scelta tra software proprietario (come quello prodotto da Microsoft) e Os non è ovvia. È importante considerare la presenza di effetti di rete, che si hanno quando il beneficio del possesso di un prodotto dipende positivamente dal numero di consumatori che già ne dispongono. Come telefono o fax, anche il software è tanto più utile quanto più è diffuso. Per questo è difficile contrastare un prodotto che gode di un mercato ampio anche quando si dispone di una tecnologia più vanzata: nelle industrie in cui vi sono effetti di rete, non sempre vince il migliore. Ed è questo il vantaggio di cui godono i prodotti Microsoft nel mercato del software per la produttività di ufficio (videoscrittura e fogli di calcolo, per esempio): abbandonarli significa anche rinunciare allestrema comodità con cui si scambiano per e-mail documenti in un formato che è divenuto uno standard de facto, oltre che alla consulenza gratuita dei vicini di scrivania.
Nel mercato
lato server, come nel caso del server web Apache, la situazione è diversa. Per esempio, Apache è dominante, gratuito, eccellente, ben documentato e utilizza un sistema operativo, Unix, disponibile (anche) a titolo gratuito, secondo molti migliore del concorrente Microsoft. Al di là di una generale avversione per il software che non proviene da un produttore importante, con la relativa deresponsabilizzazione dei tecnici che comporta una tale attitudine, vi sono dunque poche ragioni per non adottarlo: la ridotta diffusione di Apache nellamministrazione pubblica indica una scarsa propensione ad avvalersi di soluzioni tecnologiche efficaci ed efficienti.

Dalla commissione le consuete raccomandazioni

Il Governo dovrebbe riflettere. Il ministro dellInnovazione, Lucio Stanca, istituì lo scorso novembre una commissione sul software Os che ha da poco terminato i suoi lavori. Senza prendere posizione precisa, e cercando di accontentare un po’ tutti, la commissione propone lusuale armamentario: qualche misura concreta, qualche risorsa, ma soprattutto raccomandazioni assortite, il più delle volte senza occuparsi degli incentivi e disincentivi perchè queste non rimangano sulla carta. Invece, trascura completamente il fatto che la scelta di una tecnologia di rete non è analizzabile al livello del singolo utente, ma deve tenere conto degli effetti che abbiamo indicato e del conseguente problema del coordinamento delle scelte individuali. Esiste unampia letteratura scientifica su questo tema, e Stanca avrebbe fatto bene a non affidarsi soltanto, o prevalentemente, a (ingegneri) informatici, le cui competenze sono altre.

È tempo di decisioni

Nei fatti se non nelle intenzioni, le commissioni dagli esiti ecumenici, molto spesso servono per non decidere, o per decidere di non fare nulla. Per il software Os, con i ritardi già accumulati e dopo decenni di decadenza dellindustria italiana del software, sono invece necessarie iniziative, magari di portata ridotta, ma concrete.
Un obiettivo ragionevole consiste nel promuovere il software Os
lato server, dove gli effetti di rete non sono avversi. Servirebbe un misto di prescrizioni e di incentivi verso quei tecnici e quelle amministrazioni che si comportano virtuosamente, e un servizio di consulenza e di formazione, allinterno di strutture già presenti, che permetta ai tecnici di adeguarsi e renda ingiustificabili le eventuali resistenze. Si otterrebbero risparmi, si incoraggerebbe lutilizzo di tecnologie avanzate, si creerebbe un primo presupposto per un maggiore controllo delle tecnologie e si valorizzerebbero le competenze tecniche migliori dentro lamministrazione. Esistono però obiettivi più ambiziosi, che il Governo farebbe bene a considerare con attenzione maggiore di quanto non abbia fatto sino ad ora, e senza timore reverenziale verso Microsoft. Lamministrazione pubblica spende per il software circa 700 milioni di euro allanno. C’è spazio per una politica che promuova linsieme della produzione Os, tanto più che uno spostamento della domanda dellamministrazione pubblica sarebbe di grande beneficio per lindustria italiana del software, in un certo senso la reinventerebbe. Ma sarebbero necessari interventi veramente incisivi e una notevole capacità di gestire una strategia coraggiosa e innovativa.
Il primo, più
modesto, obiettivo, può essere considerato intermedio rispetto al secondo: lanalisi dei primi risultati ottenuti potrebbe servire per decidere se allungare il passo.
In ogni caso, però
, il Governo dovrebbe dichiarare che cosa vuole fare e con quali strumenti. Tenendo presente che le scelte, o le non scelte, del passato, hanno già danneggiato la diffusione del software Os nell’amministrazione pubblica.

(1) I dati derivano da una rilevazione realizzata presso il corso di laurea in Economia di Internet dellUniversità di Bologna, e si riferiscono a un campione di siti dei soli comuni, province e regioni. Oltre alla diffusione del server web Apache, essi mostrano la diffusione degli analoghi prodotti Microsoft, utilizzati nel 58 per cento dei casi, contro il 27 per cento a livello mondiale (il confronto mondiale è reso possibile dalla rilevazione di Netcraft).

IRAP

Il rischio di bocciatura dell’Irap da parte della Corte di Giustizia Europea, per quanto immotivato dal punto di vista giuridico ed economico, ha riportato alla ribalta il dibattito su come sostituire la terza imposta del nostro ordinamento.
Fra le opzioni che sono discusse negli articoli che seguono, alcune puntano a preservare le caratteristiche dell’Irap (ipotesi dello “spacchettamento”), altre considerano imposte alternative, sui redditi o sui consumi. Fra queste, assumono particolare interesse quelle che garantiscano autonomia impositiva alle regioni, e sono meno sperequate sul territorio. Su un tema così delicato è comunque fondamentale evitare l’improvvisazione.

Riforma fiscale, le verità nascoste

Sommario, a cura di Tullio Jappelli

La riforma delle aliquote dell’IRE e la sostituzione delle detrazioni di imposta per carichi famigliari con deduzioni dal reddito rappresentano, per il Governo, il fiore all’occhiello dell’intera legge finanziaria; lavoce.info documenta gli effetti della riforma dell’IRE e degli altri provvedimenti previsti in finanziaria sulla pressione fiscale complessiva, le conseguenze per la distribuzione dei redditi e l’aumento del numero di aliquote effettive implicite nella riforma fiscale. Propone anche i risultati di un sondaggio sull’opportunità di tagliare le imposte e sui possibili effetti della riforma fiscale sui consumi degli italiani.

Vero o falso, di Maria Cecilia Guerra

L’emendamento alla Finanziaria presentato lunedì 29 novembre dal Governo è destinato a fare discutere ancora a lungo. È bene però che la discussione avvenga sulla base di una corretta informazione.
Segnaliamo allora ai nostri lettori due casi di informazione non corretta.

1) La no tax area

Affermazione.

“Per effetto dell’emendamento del Governo la no tax area passerà da 7.500 euro a circa 14mila euro per un lavoratore dipendente con due figli a carico”.
L’affermazione è falsa

Che cosa è infatti la no tax area?
Con questo termine (che come tale non compare in nessun testo di legge) ci si riferisce generalmente alla deduzione dal reddito imponibile concessa a tutti i redditi Irpef, in misura diversa in relazione alla loro tipologia (redditi di lavoro dipendente, autonomo, pensione e altri) e del loro ammontare. Per un lavoratore dipendente essa è pari a 7.500 euro e decresce al crescere del reddito per annullarsi in corrispondenza di un reddito di 33.500 euro.
La “no tax area” così definita non viene modificata dall’emendamento del Governo.
Per la particolare figura considerata (lavoratore dipendente con coniuge e due figli a carico) il valore massimo che essa può assumere

passa da 7.500 euro a 7.500 euro

Nel dibattito recente lo stesso termine “no tax area” viene utilizzato per individuare il valore massimo di reddito che si può ottenere senza dovere pagare neanche un euro di imposta e cioè il valore massimo di reddito esente da imposta. Questa seconda no tax area dipende non solo dalla deduzione di cui al punto precedente, ma anche dalle agevolazioni riconosciute per carichi famigliari. Le agevolazioni per carichi famigliari non sono state introdotte dall’emendamento governativo. Esistono già nel nostro ordinamento sotto forma di detrazioni dall’imposta (riduzioni cioè dell’imposta dovuta). L’emendamento del Governo trasforma queste detrazioni in deduzioni (riduzioni del reddito a cui si applica l’imposta) e ne ridefinisce l’ammontare. Rispetto alla situazione precedente, il beneficio in termini di minore imposta pagata dal contribuente aumenta per redditi bassi e diminuisce per redditi medio alti. Se si tiene conto della deduzione di cui al punto precedente e delle agevolazioni per carichi famigliari, la no tax area intesa in questa seconda accezione, per la particolare figura considerata (lavoratore dipendente con coniuge e due figli a carico)

passa da 12.828,5 euro a 14.034 euro

2) Il contributo di solidarietà

Affermazione
“È introdotto un contributo di solidarietà del 4 per cento oltre i 100mila euro, che servirà per aumentare le deduzioni alle famiglie a basso reddito” o anche “che servirà per finanziare la deduzione prevista per le spese sostenute per le badanti”.
L’affermazione è falsa.

L’emendamento interviene sulla struttura delle aliquote modificandola nel modo seguente:


Scala delle aliquote attuale

Scaglioni in euro

Aliquota legale

Fino a 15000

23

da 15000 a 29000

29

da 29000 a 32600

31

da 32600 a 70000

39

oltre 70000

45

Scala delle aliquote secondo l’emendamento

Scaglioni in euro

Aliquota legale

Fino a 26000

23

da 26000 a 33500

33

Da 33500 a 100000

39

oltre 100000

43 = 39 +4 (aliquota legale + contributo di solidarietà)

Come si può notare le aliquote di imposta sono di fatto, dopo la riforma, quattro invece che cinque. Per farle apparire in un numero inferiore (tre, più prossimo alle due previste dalla delega), la quarta viene costruita come somma della terza più un “contributo di solidarietà” del 4 per cento. L’effetto è assolutamente identico a quello che si otterrebbe prevedendo esplicitamente una quarta aliquota.
Per la parte di reddito che eccede i 100mila euro l’aliquota dell’imposta cala quindi dall’attuale 45 per cento al previsto 43 per cento (39 di aliquota legale più 4 per cento di contributo di solidarietà). Come può uno sgravio di imposta essere utilizzato per finanziare l’aumento delle deduzioni alle famiglie a basso reddito? O la deduzione per le badanti?

Le famiglie dopo la riforma fiscale, di Massimo Baldini e Paolo Bosi

Con la presentazione al Senato dell’emendamento sulla riforma dell’Ire, la riforma fiscale ha raggiunto un sufficiente grado di definizione. In ogni caso, è sulla base di esso che i cittadini potranno misurare il grado di realizzazione dei programmi del Governo in questa legislatura.
La riforma dell’Irpef è stata realizzata, come noto, in due fasi, la prima delle quali è stata attuata nel 2003. Qui facciamo il punto della valutazione dei suoi effetti, considerando dapprima il secondo modulo, varato con la Finanziaria per il 2005, e presentando successivamente elementi di valutazione sulla riforma complessiva.

Il secondo modulo

Dopo un mese di vivace discussione all’interno della maggioranza, che a un certo punto è sembrata sfociare nella rinuncia al varo del secondo modulo, dall’emendamento finale emerge una struttura dell’Ire a tutti gli effetti di quattro aliquote dal 23 al 43 per cento. Su questo aspetto ci siamo già soffermati in un precedente articolo .
L’aspetto più innovativo a cui ha portato il dibattito delle ultime settimane è costituito da una nuova struttura di deduzioni per carichi di famiglia (coniuge, minori), con interventi di favore nei confronti dei minori con meno di tre anni o portatori di handicap e deduzioni per spese per servizi di cura . Scompaiono quindi le vecchie detrazioni per famigliari a carico e anche la detrazione speciale per dipendenti, autonomi e pensionati. È da segnalare che, rispetto agli annunci di un mese fa, nell’emendamento non v’è traccia dell’aumento degli assegni familiari. Il costo di questa tranche di riforma è valutabile in 6,5 miliardi di euro.
La tabella 1 mostra la distribuzione degli sgravi fiscali medi per livelli di reddito imponibile, sui contribuenti individuali. Vengono confermati gli aspetti di iniquità distributiva della misura già segnalati: in sintesi, al 50 per cento più povero dei contribuenti va il 12,5 per cento dello sgravio mentre il 16,5 per cento dei contribuenti più ricchi gode del 60 per cento del totale.
Nella figura 1 le barre mostrano la distribuzione di frequenza dei contribuenti per classi di reddito complessivo, mentre la linea indica il risparmio medio di imposta per ogni classe: lo sgravio ha generalmente un andamento crescente, temperato solo nell’intervallo tra 45 e 80mila euro di imponibile in ragione del venire meno delle deduzioni familiari. L’effetto di abbassamento delle aliquote più elevate gonfia poi gli sgravi per i redditi più elevati.
Su base familiare – quella più rilevante per valutare gli effetti distributivi – l’esito del secondo modulo è sintetizzato nella tabella 2, in cui, per decili di reddito equivalente, sono presentati gli sgravi fiscali in euro (non equivalenti). Lo sgravio medio per famiglia è di 325 euro, ma al risparmio di 17 euro delle famiglie del primo decile si contrappone quello di 1.164 euro del decimo delle famiglie più benestanti. La insoddisfacente performance distributiva è attribuibile sostanzialmente all’incapacità dell’Ire di affrontare le condizioni economiche delle famiglie incapienti. L’abbandono della proposta di aumento degli assegni familiari, un trasferimento che raggiunge anche i lavoratori dipendenti e pensionati che non pagano l’Irpef, rende quindi ancora più evidente questo limite della riforma.
Se immaginiamo di dividere la famiglie italiane in tre gruppi definiti per valori crescenti di reddito, si può dire che il 30 per cento più povero ottiene in media un risparmio annuo di circa 70-100 euro; le classi medie di circa 200, mentre il 30 per cento più benestante ottiene un risparmio variabile tra i 500 e 1.200 euro. A conferma di queste differenze, si noti che il 20 per cento più ricco ottiene il 51 per cento dei risparmi totali di imposta.
La tabella 3 mostra poi la dimensione degli sgravi medi per alcune tipologie di famiglie, differenziate per condizione professionale del capofamiglia. Le famiglie dei pensionati, ad esempio, pur rappresentando il 40 per cento delle famiglie italiane, ottengono solo il 22 per cento degli sgravi totali.

La riforma complessiva

La riforma nel suo complesso (primo e secondo modulo) comporterà una riduzione dell’incidenza media di poco più del 2 per cento del reddito imponibile. La sua distribuzione per decili è documentata dalla tabella 4 e dalla figura 2. Anche tenendo conto del fatto che il primo modulo della riforma era più orientato alle famiglie meno abbienti, la maggioranza delle famiglie appartenenti ai primi due decili di reddito non ha ricevuto benefici significativi. E si conferma la modesta efficacia sulle famiglie dei primi due decili. In percentuale dell’imponibile, lo sgravio complessivo decresce dal 3,4 per cento delle famiglie del terzo decile sino all’1,5 di quelle più agiate.
Questo esito è però il risultato dell’applicazione di due strumenti: la progressività (definita dalla struttura delle aliquote e delle detrazioni della no tax area) e la sostituzione delle detrazioni per carichi familiari con deduzioni.
Nella figura 3 si tenta una scomposizione del ruolo relativo di questi due strumenti. Si osserva che la gran parte dello sgravio è attribuibile alla modificazione delle aliquote, mentre un peso dell’ordine di appena il 10 per cento deriva dalla introduzione delle deduzioni per familiari a carico. Appare quindi impropria l’enfasi posta da alcuni commentatori sull’importanza di questa riforma per la famiglia, soprattutto se si tiene conto che dal prossimo anno si profila l’abolizione dell’assegno di mille euro per il secondo figlio.
La componente delle deduzioni familiari ha però un ruolo nettamente più importante per le famiglie più povere, dato che rispetto alle precedenti detrazioni, le deduzioni sono state disegnate in modo selettivo (si annullano per imponibili attorno a 80mila euro).

Una riforma al 25 per cento

Rispetto agli annunci contenuti nella legge delega di riforma del sistema fiscale e alla struttura a due aliquote là indicata, la promessa appare realizzata per meno della metà. Ma in altri settori le promesse sono state mancate in misura maggiore.
L’abolizione dell’Irap prometteva sgravi alle imprese per 33 miliardi, realizzati solo per 500 milioni. Altre imposte sono state aumentate. Limitando l’attenzione solo a quelle messe in campo con la Finanziaria per il 2005, si potrebbe fornire una più adeguata valutazione dell’impatto delle riforme fiscali sulle famiglia tenendo conto, ad esempio, di parte delle maggiori imposte introdotte (studi di settore, catasto, Tarsu, accise, giochi e lotto, acconti Irpef, eccetera).
Pur con notevole approssimazione, si può stimare che sulle famiglie finiranno per gravare 5 miliardi di ulteriori tributi. Lo sgravio netto per le famiglie si ridurrebbe in questo modo a poco più di 7 miliardi; un quarto di quanto promesso.

Tab. 1 – Risparmi medi di imposta del secondo modulo di riforma dell’Ire per classi di reddito imponibile individuale

Reddito

Distribuzione %

Risparmi di imposta

Risparmi in %

Ripartizione %

imponibile

dei contribuenti

In euro

dell’imponibile

dei risparmi

0-5

9,0

0

0,0%

0,0%

5-10

22,4

21

0,3%

2,4%

10-15

20,7

114

0,9%

12,0%

15-20

19,8

100

0,6%

10,0%

20-25

11,6

268

1,2%

15,7%

25-30

5,9

467

1,7%

13,9%

30-35

2,5

492

1,5%

6,1%

35-40

1,8

637

1,7%

5,7%

40-45

1,1

758

1,8%

4,3%

45-50

0,9

688

1,4%

3,1%

50-55

0,6

632

1,2%

1,9%

55-60

1,2

567

1,0%

3,3%

60-65

0,5

404

0,6%

1,0%

65-70

0,4

416

0,6%

0,8%

70-75

0,1

317

0,4%

0,2%

75-80

0,2

916

1,2%

1,1%

80-85

0,1

989

1,2%

0,6%

85-90

0,2

1276

1,5%

1,2%

90-95

0,1

1714

1,9%

0,5%

95-100

0,2

1862

1,9%

2,0%

>100

0,9

3320

2,0%

14,3%

Totale/media

100,0

198

1,1%

100,0%



Tab.2 – Secondo modulo della riforma – Effetti sulle famiglie per decili di reddito equivalente

Decili di imponibile equivalente

Imponibile medio familiare

Irpef media 2004

Irpef media 2005

Risparmio di imposta

Ripartizione del risparmio totale

Incidenza media

irpef 2004

Incidenza media

irpef 2005

Variaz. Incid.media

% delle famiglie che guadagna

1

4653

17

1

17

1%

0,4%

0,0%

-0,4%

2%

2

9629

148

75

72

2%

1,5%

0,8%

-0,8%

27%

3

13435

803

660

143

4%

6,0%

4,9%

-1,1%

58%

4

16633

1709

1559

150

5%

10,3%

9,4%

-0,9%

59%

5

20132

2538

2327

211

6%

12,6%

11,6%

-1,0%

54%

6

25796

3727

3466

261

8%

14,4%

13,4%

-1,0%

55%

7

30221

5063

4767

296

9%

16,8%

15,8%

-1,0%

67%

8

36185

6614

6227

387

12%

18,3%

17,2%

-1,1%

82%

9

47802

10526

9980

546

17%

22,0%

20,9%

-1,1%

95%

10

93273

29219

28055

1164

36%

31,3%

30,1%

-1,2%

99%

Totale

29765

6034

5709

325

100%

20,3%

19,2%

-1,1%

60%


Tab. 3 – Secondo modulo della riforma: risparmi di imposta medi familiari per alcune tipologie di famiglie

Professione del capofamiglia

% delle famiglie

Reddito imponibile medio

Irpef 2004

Irpef 2005

Risparmio medio

Ripartizione del risparmio totale

Operaio

17

25254

3702

3470

233

12%

Impiegato,insegnante

15

36610

7397

6997

400

19%

Dirigente

4

64289

18408

17600

808

9%

Lav. indipendente

12

47501

13058

12409

649

25%

Pensionato

41

22867

3753

3578

174

22%

Altro

11

20959

4004

3622

382

13%

Totale

100

29765

6034

5709

325

100%



Tab.4 – Riforma complessiva – Effetti sulle famiglie per decili di reddito equivalente

Decili di imponibile equiv.

Imponibile medio familiare

Irpef media 2004

Irpef media 2005

Risparmio di imposta

Ripartiz.

del risparmio totale

Incidenza media irpef 2004

Incidenza media irpef 2005

Variazione incidenza media

% delle famiglie che guadagna

1

4653

30

1

29

0%

0,6%

0,0%

-0,6%

9%

2

9629

311

75

236

4%

3,2%

0,8%

-2,4%

63%

3

13435

1115

660

455

7%

8,3%

4,9%

-3,4%

92%

4

16633

2035

1559

476

8%

12,2%

9,4%

-2,9%

99%

5

20132

2854

2327

527

9%

14,2%

11,6%

-2,6%

97%

6

25796

4096

3466

630

10%

15,9%

13,4%

-2,4%

99%

7

30221

5446

4767

680

11%

18,0%

15,8%

-2,2%

100%

8

36185

6994

6227

767

12%

19,3%

17,2%

-2,1%

100%

9

47802

10849

9980

869

14%

22,7%

20,9%

-1,8%

100%

10

93273

29482

28055

1427

23%

31,6%

30,1%

-1,5%

100%

Totale

29765

6323

5709

614

99%

21,2%

19,2%

-2,1%

86%


Gli italiani e la riduzione delle imposte: unÂ’indagine de lavoce.info, di Giuseppe Pisauroe Paola Monti

La riduzione delle imposte domina il dibattito politico da mesi. Dopo tanti annunci che indicavano nel taglio delle aliquote dell’Irpef l’obiettivo principale (per tutti i redditi? solo per i redditi bassi e medi? solo per i redditi medio-alti?), sembra che l’idea sia stata accantonata (o meglio, posticipata a data elettoraleÂ…) e sostituita dalla promessa di una riduzione dell’Irap a partire dal 2005.

Il campione

Ma gli italiani pensano veramente che la riduzione delle tasse sia la priorità nazionale? E, nel caso, quali imposte vorrebbero veder diminuire?
Per saperlo, abbiamo provato a rivolgere queste domande a un campione di cittadini. Il metodo scelto è stato quello del sondaggio tramite internet. Grazie al supporto della società Carlo Erminero & Co., sono stati contattati via web 2.300 individui e, nell’arco di pochi giorni, 954 di queste persone hanno risposto al sondaggio restituendo il questionario compilato.
Questo metodo di indagine chiaramente presenta problemi non indifferenti di rappresentatività del campione, nonostante siano possibili correttivi in fase di elaborazione dei dati (per maggiori informazioni a questo proposito, si rinvia alla scheda sulle caratteristiche del sondaggio).

Le priorità degli italiani

Innanzi tutto, abbiamo cercato di capire quali dovrebbero essere le priorità della politica di bilancio secondo gli intervistati, ipotizzando che il Governo disponga di risorse aggiuntive per un miliardo di euro. Alla domanda era possibile dare più di una risposta (e lo ha fatto circa metà degli intervistati).
Come si vede nella figura 1, l’ipotesi che ha raccolto maggiori consensi (è stata indicata dal 47 per cento del campione) è effettivamente quella di una riduzione delle imposte. Tuttavia, nell’insieme, una quota maggiore dei consensi va a un aumento della spesa pubblica per la sanità, l’istruzione e la ricerca e gli stipendi dei dipendenti pubblici. Un quarto del campione, infine, utilizzerebbe in tutto o in parte le nuove risorse per ridurre il debito pubblico.
Circa metà del campione non ha dato una risposta univoca: destinerebbe cioè eventuali nuove risorse, ad esempio, in parte a ridurre le imposte, in parte ad aumentare la spesa e in parte a ridurre il debito. Se consideriamo coloro che hanno dato una sola risposta, soltanto l’8 per cento degli intervistati ha indicato il taglio delle imposte come unica destinazione delle nuove risorse, il 13 per cento ha indicato un aumento della spesa (il 7 per cento di quella per l’istruzione) e il 6 per cento destinerebbe tutto all’abbattimento del debito. Insomma, la riduzione delle imposte non emerge affatto come una priorità assoluta: gli intervistati sembrano avere ben chiari altri problemi strutturali della nostra economia come l’elevato debito pubblico e le carenze del sistema di istruzione e ricerca.
In realtà, molti sarebbero anche disposti a pagare più imposte per avere servizi migliori. Davanti all’ipotesi di un aumento dell’addizionale regionale Irpef da destinare alla sanità per ridurre i tempi di attesa per esami diagnostici, il 47 per cento del campione ha risposto affermativamente (contro il 35 per cento di contrari e il 18 per cento di indecisi).

Quali imposte ridurre

Ritornando sull’ipotesi di riduzione delle imposte, abbiamo poi chiesto al campione quale tipo di imposta sarebbe opportuno ridurre. I risultati sono riportati nella tabella 1.
L’opzione di gran lunga preferita (da quasi il 60 per cento del campione) è una riduzione delle imposte sui consumi, come l’Iva e l’accisa sulla benzina. Sono forme di tassazione che coinvolgono indiscriminatamente tutti i cittadini e spesso colpiscono consumi indispensabili (la cui domanda è quindi poco elastica al prezzo).
Non stupisce perciò che la richiesta di una riduzione delle imposte sui consumi sia più pressante tra i gruppi sociali che normalmente dispongono di redditi più bassi: i giovani, gli studenti, le persone senza elevati titoli di studio, o tra coloro che valutano la propria situazione economica difficile o discreta, ma non buona. Insomma, i ceti sociali che negli ultimi anni hanno subito una perdita del potere d’acquisto dei propri redditi.
La riduzione dell’Irpef raccoglie il 37 per cento dei consensi e risulta più popolare nell’ambito impiegatizio e dei pensionati, al crescere del titolo di studio e dell’età, e tra coloro che valutano positivamente la propria situazione economica. Una riduzione dell’Irap, infine, è molto poco popolare (è stata indicata solo dal 3 per cento) e raccoglie qualche consenso solo tra commercianti, artigiani, dirigenti, imprenditori, liberi professionisti. L’area del lavoro autonomo, insomma.





Meno Irpef per i redditi bassi

Infine, abbiamo concentrato l’attenzione dei nostri intervistati su un’eventuale riduzione dell’Irpef (all’epoca del sondaggio, una settimana fa, era ancora d’attualità…).
Il risultato è molto netto: il 60 per cento del campione ritiene che lo sgravio fiscale dovrebbe andare unicamente a favore dei redditi bassi. Sommando anche coloro che distribuirebbero lo sgravio tra redditi bassi e medi, arriviamo al 74 per cento del campione (figura 2).
Abbiamo poi chiesto di scegliere tra un sistema fiscale proporzionale (ad aliquota unica) e progressivo (ad aliquota crescente, oppure ad aliquota unica, ma con esenzione totale dei redditi bassi). Anche in questo caso i risultati non lasciano dubbi: sceglie il sistema progressivo ad aliquota crescente il 66 per cento del campione (figura 3). La progressività delle imposte (e di eventuali sgravi) sembra essere un valore condiviso dagli intervistati a prescindere dalla propria situazione: tra coloro che dichiarano di essere in una condizione economica “molto buona”, il 49 per cento sceglie il sistema ad aliquota crescente e il 53 per cento concentrerebbe eventuali sgravi solo sui redditi bassi.
Insomma, gli italiani non guardano con sfavore a un taglio delle imposte, ma non pensano che esso debba essere la principale priorità della politica di bilancio. Ridurre il debito pubblico e migliorare alcuni servizi sembrano obiettivi almeno altrettanto importanti. Dovendo intervenire sulle imposte, preferirebbero che la riduzione avesse un impatto immediato sui prezzi piuttosto che sui redditi. Dovendo riformare l’Irpef, vorrebbero mantenere la progressività dell’imposta e concentrare gli sgravi sui meno abbienti.






Dov’è finito il popolo delle formiche, di Tullio Jappelli e Daniele Checchi

Lo scorso 5 novembre si è celebrata la giornata internazionale del risparmio.
Come negli ultimi anni, si sono sentiti toni allarmati sul calo del risparmio delle famiglie. L’ultima indagine Ipsos presentata per l’occasione riscontra che il 21 per cento delle famiglie intervistate ha consumato tutto il proprio reddito, mentre il 14 per cento ha fatto ricorso a risparmi accumulati o a debiti per far fronte alle spese per consumo; secondo l’indagine, in futuro il numero di coloro che non risparmiano è destinato ad aumentare.
( http://www.acri.it/7_even/Acri_Ipsos_2004.ppt).

Le famiglie e il risparmio

I dati non sono certo una novità. Secondo la più recente Indagine sui bilanci delle famiglie della Banca d’Italia, il 13 per cento degli intervistati tra febbraio e settembre del 2003 dichiarava che “Il reddito a disposizione della famiglia permette di arrivare alla fine del mese con molta difficoltà”; il 14 per cento che il reddito consente di “arrivare alla fine del mese con difficoltà”. Dunque, circa un terzo delle famiglie italiane dichiarava di avere gravi problemi di bilancio.
Si conferma quanto si è letto spesso in questi mesi sui giornali, con articoli e commenti allarmati sul grave impoverimento delle famiglie e del paese, quasi si trattasse di un fenomeno nuovo e prima poco diffuso. È vero che il popolo delle formiche non risparmia più? Dobbiamo preoccuparci per le tendenze del risparmio nel nostro paese?

È aumentato davvero il numero di quelli che non risparmiano?

Le espressioni “non arrivare alla fine del mese”, “famiglie in bolletta” e loro varianti sono generiche e non chiariscono se il fenomeno è aumentato o si è ridotto nel tempo.
Proviamo a definire meglio il concetto. Chi non riesce ad arrivare alla fine del mese ha un reddito inferiore al consumo, cioè un risparmio negativo. Vuol dire che in quel mese si è indebitato presso una banca, un parente, un amico (cioè ha aumentato le proprie passività), oppure ha fatto fronte alle spese per consumo con risorse risparmiate in precedenza (cioè ha ridotto le proprie attività). Per misurare il risparmio occorre quindi conoscere sia il reddito che il consumo di una famiglia.
L’Indagine della Banca d’Italia sui bilanci delle famiglie è il migliore strumento di cui disponiamo per studiare le tendenze del risparmio nel nostro paese, perché raccoglie informazioni sui redditi e sui consumi delle famiglie a partire dai primi anni ottanta. Il campione è formato da circa ottomila famiglie (24mila individui), distribuite in circa trecento comuni italiani. I risultati dell’indagine vengono regolarmente pubblicati nei supplementi al Bollettino statistico della Banca. I dati raccolti presso le famiglie, in forma anonima, sono disponibili gratuitamente per elaborazioni e ricerche. La metodologia di rilevazione è rimasta sostanzialmente invariata nel tempo.
Naturalmente, il risparmio può riflettere errori di misura del reddito o del consumo. Ad esempio, se una famiglia riporta tutte le spese sostenute, ma non tutto il reddito percepito, segnalerà con maggiore probabilità che il risparmio (cioè la differenza tra reddito e consumo) è negativo. Al contrario, una famiglia che registra con cura tutte le entrate ma sottostima le spese, tenderà a segnalare un risparmio positivo. Questi errori potrebbero avere una componente sistematica, ad esempio perché il numero di famiglie che sottostima le spese è superiore a quello che sottostima le entrate. Tuttavia, è poco probabile che l’andamento nel tempo del risparmio sia influenzato dagli errori di misura.

La figura 1 indica che fino al 1991 la quota di famiglie con risparmio negativo si è ridotta di cinque punti percentuali. Durante la recessione del 1992-93 la quota aumenta di oltre dieci punti. Dal 1993 si osserva però una sostanziale stabilità della quota di famiglie con risparmio negativo. L’Indagine della Banca d’Italia indica dunque che tra il 1993 e il 2002 il numero di famiglie che non risparmiano non è aumentato.
L’analisi per gruppi sociali coglie alcune differenze di rilievo. La quota di famiglie con risparmio negativo è maggiore tra i giovani (capofamiglia con età inferiore a 30 anni) e tra gli anziani (oltre i 60 anni). La quota è molto più elevata tra gli autonomi, che hanno redditi più variabili, che tra le famiglie di operai e impiegati, che invece hanno un reddito più stabile. Infine, la quota di famiglie con risparmio negativo è maggiore nel Mezzogiorno. Ma per tutti i gruppi si evidenzia una sostanziale stabilità del numero di famiglie con risparmio negativo tra il 1993 e il 2002.
Anche l’analisi della propensione al risparmio per fasce di reddito conferma il fatto che il risparmio delle famiglie non si è ridotto. La figura 2 mostra che negli anni più recenti il rapporto tra risparmio e reddito delle famiglie ha mantenuto un profilo costante, per ciascuno dei quattro gruppi di reddito considerati.

Il risparmio è una misura della povertà?

La tabella 1 riporta il rapporto tra risparmio e reddito disponibile delle famiglie (il cosiddetto saggio di risparmio) nei principali paesi europei, in Giappone e negli Stati Uniti. Fino al 1990 in Italia il risparmio era pari a circa il 27 per cento del reddito. Nel decennio successivo si è ridotto di oltre dieci punti. Dal 2000 però il saggio di risparmio in Italia si è mantenuto stabile, con valori prossimi al 15 per cento.
Il confronto internazionale evidenzia che nel 2004 l’Italia ha il saggio di risparmio più elevato tra i paesi industrializzati. In Francia, Germania, Olanda e Spagna il risparmio è intorno al 10-12 per cento del reddito disponibile. In Inghilterra, Stati Uniti, Giappone, e in tutti i paesi Scandinavi il saggio di risparmio è di circa tre volte inferiore a quello del nostro paese. La tabella evidenzia anche che il risparmio si è dimezzato in Austria, Giappone, Inghilterra, Stati Uniti; in altri paesi si è mantenuto stabile o è aumentato (Francia, Irlanda, Olanda, Portogallo, Spagna, Norvegia). Nonostante questo, l’Italia ha mantenuto il primo posto in classifica.

Naturalmente, un indicatore aggregato potrebbe nascondere dinamiche molto diverse a livello di singola famiglia. Sgombriamo però il campo da un equivoco. Il risparmio (o l’assenza di risparmio) non è una misura di benessere o di povertà. L’ultima colonna della tabella riporta il reddito pro capite in dollari nel 2003. La graduatoria del risparmio non coincide purtroppo con quella del reddito. Paesi in cui il reddito pro capite è molto più elevato del nostro (Stati Uniti, Svezia, Danimarca, Norvegia) hanno tassi di risparmio molto più bassi. Altri paesi, molto più poveri in termini di reddito pro capite (come la Cina) hanno tassi di risparmio molto più elevati del nostro. Dunque, per misurare la povertà o il benessere occorre guardare alla distribuzione dei redditi o dei consumi tra le famiglie, non alla differenza tra reddito e consumo. (1)

Perché allora il risparmio non è calato?

Il risparmio delle famiglie italiane rimane dunque elevato, sia nel confronto storico che in quello internazionale, nonostante l’abbassamento del tasso di crescita dei redditi familiari e il calo demografico. Ciò per due ragioni.
Le riforme della previdenza degli anni Novanta hanno drasticamente ridotto il grado di copertura previdenziale, particolarmente per le nuove generazioni. Dalla fine del 2001 gli indicatori sul clima di fiducia delle famiglie sono peggiorati costantemente e si sono collocati su valori nettamente inferiori a quelli del decennio precedente.
Le famiglie hanno quindi continuato a risparmiare per compensare il calo di ricchezza previdenziale. Allo stesso tempo, il movente precauzionale e il timore di una caduta dei redditi hanno frenato i consumi e favorito l’accumulazione. La figura 3 indica che il fenomeno si è verificato soprattutto per le nuove generazioni (persone nate dopo il 1960), quelle più colpite dalle riforma della previdenza e più incerte sul proprio futuro.(2)
Invece il risparmio di quelli nati prima del 1960 è calato o è rimasto costante; sono le persone che ai tempi delle riforme Amato e Dini (1992 e 1995) erano già in pensione o che hanno potuto mantenere, anche dopo le riforme, lo stesso livello di copertura previdenziale.


(1) Sotto questo profilo, l’indagine della Banca d’Italia segnala una sostanziale stabilità degli
indici di povertà e degli indici di disuguaglianza dei redditi disponibili tra il 1997 e il 2002.

(2) Per un’analisi dell’effetto della riforma della previdenza sul risparmio delle famiglie italiane cfr. Attanasio e Brugiavini (Social security and households’ saving,” Quarterly Journal of Economics, vol. 118, 2003) e Bottazzi, Jappelli e Padula (Retirement expectations, pension reform, and their impoact on private accumulation, settembre 2004, CSEF Working Paper n. 92 [http://www.dise.unisa.it/WP/wp92.pdf].





Fonte: Indagine della Banca d’Italia sui bilanci delle famiglie, 1984-2002.


Fonte: Indagine della Banca d’Italia sui bilanci delle famiglie, 1984-2002.


Fonte: Indagine della Banca d’Italia sui bilanci delle famiglie, 1984-2002.

Fonte: Elaborazioni Cesifi-Dice su OECD Economic Outlook. Il PIL pro capite è misurato in dollari. I saggi di risparmio riflettono anche differenze nelle definizioni adottate da ciascun paese sul risparmio delle famiglie; il reddito disponibile invece è armonizzato dall’OECD.
* dato stimato.

Un taglio poco consumato, di Tullio Jappelli e Mario Padula

Nelle intenzioni del presidente del Consiglio la riduzione delle imposte sui redditi a partire dal 1° gennaio 2005 aumenterà il reddito disponibile delle famiglie e i consumi, sostenendo la nostra esangue economia. Troppo spesso gli interventi di politica economica vengono attuati senza uno studio delle conseguenze delle manovre, senza una simulazione del loro impatto.

La propensione marginale al consumo

La questione è particolarmente delicata nel caso di uno sgravio fiscale. Si dà spesso per scontato che un aumento del reddito stimoli il consumo. Ciò non è sempre vero, perché un aumento di reddito può essere consumato interamente, risparmiato interamente, o in parte consumato e in parte risparmiato. Per rispondere a questa domanda, è importante calcolare la cosiddetta propensione marginale al consumo, cioè il rapporto tra la variazione dei consumi e del reddito. Se, ad esempio, il reddito di una famiglia aumenta di 500 euro e i consumi di 250 euro, la propensione marginale al consumo della famiglia è di 0,5. Ovvero, per ogni euro in più di reddito, 50 centesimi vengono risparmiati e 50 consumati. Tanto più elevata la propensione marginale al consumo, tanto maggiore lo stimolo ai consumi di uno sgravio fiscale.

Cinquecento euro da spendere. O risparmiare

Solo conoscendo la propensione marginale al consumo si può valutare l’effetto di una riduzione delle imposte. Servirebbero allo scopo indagini campionarie specifiche sui comportamenti dei consumatori, in grado di valutare l’impatto di breve e di lungo periodo di uno sgravio fiscale. I mezzi di cui dispone lavoce.info sono modesti. Con la collaborazione della società Carlo Erminero & Co , abbiamo condotto un’indagine campionaria via internet. Il campione è stato estratto da un indirizzario con oltre 500mila nomi. Le persone intervistate sono 954; il tasso di partecipazione (cioè il rapporto tra le persone che hanno risposto all’intervista e le persone contattate) è del 50 per cento. I dati vanno trattati e interpretati con cautela. In Italia gli utenti domestici di internet sono solo il 22 per cento della popolazione (10,5 milioni, dati di febbraio 2004) e sono ancora molto diversi dai non utenti. Fra gli utenti domestici di internet sono più numerosi i giovani, i laureati, gli imprenditori, i professionisti, i ceti medi e superiori. Le risposte devono quindi essere ricondotte alla popolazione italiana con un sistema di ponderazione.

Lo scopo del questionario è di valutare l’impatto di breve periodo sui consumi (la cosiddetta “scossa” all’economia) di un ipotetico sgravio fiscale. (1) Abbiamo dunque deciso di rivolgere al campione la domanda:

Nel caso in cui il Suo reddito l’anno prossimo aumentasse di 500 euro perché è stata varata una riforma fiscale che riduce le sue imposte sul reddito, cosa farebbe?

  • Utilizzerei i 500 euro soprattutto per spendere di più
  • Utilizzerei i 500 euro soprattutto per risparmiare di più
  • Utilizzerei i 500 euro soprattutto per pagare i debiti

Dalle risposte è emerso che il 21 per cento del campione destinerebbe un aumento di 500 euro di reddito soprattutto al consumo, il 48 per cento utilizzerebbe l’aumento soprattutto per incrementare il risparmio, il 31 per cento per ridurre i debiti.

Per valutare gli effetti di una riduzione delle imposte, occorre distinguere tra variazioni permanenti e variazioni transitorie del reddito. Le prime hanno un forte effetto sui consumi; le seconde hanno effetti modesti o trascurabili. Questo accade perché le famiglie desiderano mantenere standard di vita stabili nel tempo e sono disposte ad aumentare il consumo solo se pensano che l’aumento di reddito sarà duraturo. A un aumento temporaneo, invece, reagiscono aumentando il risparmio o riducendo il debito, per evitare di dover ridurre il consumo quando il reddito ritornerà ai valori precedenti l’aumento. Perché si verifichi un forte effetto sui consumi, è quindi essenziale che il taglio fiscale sia duraturo o, almeno, che sia percepito come tale. Le risposte del questionario indicano che l’effetto sul consumo è modesto. La riforma fiscale è percepita come transitoria, dunque poco credibile.

Un confronto con gli Usa

A titolo di confronto è utile riportare alcuni dati tratti da uno studio di due economisti americani che hanno sottoposto a un campione rappresentativo della popolazione degli Stati Uniti domande simili a quella dell’indagine de lavoce.info. Hanno infatti chiesto, nel 2001 e nel 2002, se il rimborso fiscale erogato dall’amministrazione Bush nel 2001 sia stato utilizzato prevalentemente per consumi, per risparmio, o per ridurre debiti. (2)

Il rimborso una tantum era compreso fra 300 e 600 dollari. La differenza principale è che nel caso americano si tratta di domande retrospettive; nel caso dell’indagine de lavoce.info invece si chiedono le intenzioni di spesa.

La tabella 1 indica che la percentuale di persone che destinerebbe soprattutto al consumo lo sgravio fiscale è molto simile a quella riscontrata dai due ricercatori americani: negli Stati Uniti poco più del 20 per cento degli intervistati dichiara che il rimborso fiscale è stato utilizzato prevalentemente per aumentare il consumo; l’80 per cento dichiara invece che il rimborso è stato utilizzato soprattutto per aumentare il risparmio o per ridurre i debiti. La reazione dei consumatori italiani rispetto a un’ipotetica riforma fiscale è simile a quella dei consumatori americani in risposta a una variazione una tantum del reddito, un’altra conferma di scarsa credibilità dello sgravio fiscale in Italia.

È utile chiedersi se l’effetto sui consumi cambi secondo i gruppi sociali. La tabella 2 offre alcune risposte. La quota di coloro che utilizzerebbero lo sgravio fiscale soprattutto per aumentare il consumo sale al 26 per cento tra i laureati e tra coloro che hanno più di 44 anni; raggiunge il 35 per cento per coloro che hanno redditi medi e alti. Non si riscontrano variazioni significative per ripartizione geografica. Nel complesso le risposte sono abbastanza omogenee: la quota di coloro che dichiara che destinerebbe lo sgravio fiscale prevalentemente al consumo oscilla tra il 18 e il 35 per cento.

Quanto aumenteranno i consumi?

Riconoscere che la risposta a una manovra fiscale è diversa tra i vari gruppi sociali aiuta a valutarne l’effetto complessivo. Tuttavia, la quota di coloro che dichiarano che lo sgravio servirà prevalentemente a finanziare i consumi non ci dice ancora di quanto i consumi aumenteranno. Anche chi dichiara che destinerà il maggiore reddito prevalentemente al risparmio, non è detto che destinerà tutto al risparmio. E anche chi decide di utilizzare il reddito soprattutto per aumentare il consumo potrebbe usarne una parte per risparmiare. La nostra indagine contiene una seconda domanda che consente di ripartire un’eventuale aumento di reddito di 500 euro in spese per consumi, risparmio e rimborso di debiti:

Se oggi il Suo reddito aumentasse di 500 euro, quanti euro risparmierebbe, quanti ne consumerebbe, quanti ne userebbe per ripagare i debiti?

  • Euro per consumo:
  • Euro per risparmio:
  • Euro per debiti:

Le risposte permettono di calcolare la propensione marginale al consumo di ciascuna famiglia intervistata. Nel campione, la media generale di tutte le propensioni marginali al consumo è 32 per cento (vedi l’ultima colonna della tabella 2). (3)

Inoltre, la propensione marginale al consumo è sostanzialmente stabile per gruppi di età, titolo di studio e ripartizione geografica. Solo per le famiglie con redditi medi e alti si registra un valore più elevato (42 per cento), presumibilmente perché per questi gruppi l’incertezza sulle condizioni dell’economia e della famiglia riduce le esigenze di risparmio.

In conclusione: secondo l’indagine de lavoce.info circa un terzo della riduzione di imposte promessa da Silvio Berlusconi per il 2005 si tradurrà in un aumento dei consumi. La gran parte del reddito aggiuntivo servirà per aumentare il risparmio (o ridurre il debito). Se la credibilità della manovra rimanesse ai livelli attuali, un’ipotetica riduzione delle imposte sul reddito delle famiglie di 8 miliardi di euro nel 2005 darebbe una “scossa” iniziale all’economia di soli 2,6 miliardi di euro, cioè lo 0,2 per cento del Pil. Naturalmente, ciò non tiene conto dell’effetto di una riduzione della spesa pubblica necessaria a finanziare il taglio delle imposte. Fra un anno sapremo se la montagna sarà riuscita almeno a partorire un topolino. Nel frattempo il Governo potrebbe almeno promuovere studi più approfonditi sugli effetti della manovra, sulla credibilità di un taglio duraturo delle imposte e sulle sue conseguenze di breve e di lungo periodo. Al momento, il clima di incertezza generato da annunci successivamente ritrattati non aiuta affatto la credibilità delle future riforme. Alimenta anzi la convinzione che eventuali tagli fiscali potrebbero avere effetti limitati nel tempo.

(1) David S. Johnson, Jonathan A. Parker e Nicholas S. Souleles, (“Household expenditure and the income tax rebates of 2001”, NBER WP 10784, 2004) studiano l’impatto di breve e di lungo periodo del bonus fiscale che le famiglie americane hanno ricevuto nel 2001 dall’amministrazione Bush. Utilizzando un campione rappresentativo della popolazione, essi mostrano che le famiglie americane hanno aumentato il consumo di circa il 30 per cento del bonus nei primi tre mesi, e di un altro 30 per cento nel trimestre successivo.

(2) Matthew D. Shapiro e Joel Slemrod, “Did the 2001 tax rebate stimulate spending? Evidence from taxpayer surveys”, NBER WP 9308, 2001. L’indagine è stata condotta per telefono nel 2001e nel 2002, come parte di Surveys of Consumers, un campione rappresentativo della popolazione americana utilizzato dall’Università di Michigan per costruire un indice di fiducia dei consumatori (Index of Consumers Sentiment). I due economisti usano anche un’altra indagine, How America Responds, che chiede ad un campione di famiglie americane: “Cosa farebbe se il Governo federale tagliasse le imposte di 1000 dollari?”. Il 16,6 per cento degli intervistati destinerebbe l’aumento del reddito disponibile soprattutto ai consumi.

(3) David S. Johnson, Jonathan A. Parker e Nicholas S. Souleles, (“Household expenditure and the income tax rebates of 2001”, NBER WP 10784, 2004) ottengono un risultato molto simile per la propensione marginale al consumo di breve periodo.


Tabella 1. Nel caso in cui il Suo reddito l’anno prossimo aumentasse di 500 euro perché è stata varata una riforma fiscale che riduce le sue imposte sul reddito, cosa farebbe?

Confronto Italia -USA

Italia 2004

Usa 2001

Usa 2002

Soprattutto per spendere di più

0.21

0.22

0.25

Soprattutto per risparmiare di più

0.48

0.46

0.48

Soprattutto per pagare i debiti

0.31

0.32

0.27

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Tabella 2. Nel caso in cui il Suo reddito l’anno prossimo aumentasse di 500 euro perché è stata varata una riforma fiscale che riduce le sue imposte sul reddito, cosa farebbe?

Analisi per gruppi sociali

Soprattutto per spendere di più

Soprattutto per risparmiare di più

Soprattutto per pagare i debiti

Propensione marginale al consumo

Età

fino a 34 anni

0.20

0.62

0.18

0.35

da 35 a 44 anni

0.19

0.46

0.35

0.31

oltre 44 anni

0.26

0.34

0.40

0.32

Titolo di studio

senza laurea

0.19

0.45

0.36

0.31

con laurea

0.26

0.48

0.26

0.36

Condizione economica

Buona

0.35

0.47

0.18

0.42

Discreta

0.23

0.54

0.23

0.34

Difficile

0.11

0.34

0.55

0.25

Area geografica

Nord

0.23

0.50

0.27

0.32

Centro

0.19

0.40

0.41

0.30

Il gioco delle tre aliquote, di Massimo Baldini e Paolo Bosi

L’ultimo mese è passato alla ricerca di una mediazione tra le forze di maggioranza sulla proposta di riforma del secondo modulo dell’Irpef. Si è discusso molto, quindi, ma di che cosa? Vediamo di capirlo aggiornando il nostro precedente articolo su lavoce.info, seppur con la cautela dovuta al fatto che non disponiamo ancora di tutti i dettagli delle proposte in campo.

Tre aliquote. Più una

Consideriamo in particolare tre ipotesi di riforma. Tutte condividono la struttura delle prime tre aliquote (23 per cento fino a 26mila euro, 33 per cento da 26mila a 33mila, 39 per cento oltre 33mila), ma si differenziano nei seguenti aspetti:
a) quarta aliquota del 43 per cento oltre i 100mila euro (ipotesi del ministero del Tesoro);
b) quarta aliquota del 43 per cento oltre gli 80mila euro (ipotesi An-Udc);
c) solo tre aliquote, con in più un contributo fisso di 1.000 euro oltre i 100mila, e esclusione della detraibilità delle spese oltre la stessa soglia (variante dell’ipotesi di riforma del ministero del Tesoro).

In tutte le ipotesi, inoltre, le detrazioni per coniuge e familiari a carico sono sostituite da deduzioni dall’imponibile, decrescenti al crescere del reddito, pari a 3.200 euro per il coniuge e a 2.900 per ogni figlio, che si annullano in corrispondenza di un reddito pari a 78mila euro.

Dal punto di vista del gettito, la ricerca del compromesso tra le diverse visioni in campo dovrebbe comportare un costo del secondo modulo della riforma dell’Irpef variabile da 7,2 a 7,6 miliardi, a seconda delle alternative, comprensivo anche di circa un miliardo per maggiori assegni familiari. Il che significa che la seconda tranche della riforma finirà per costare ben più dei sei miliardi (compresi eventuali tagli all’Irap) di cui si è parlato finora.

Non ripetiamo qui l’analisi già fatta nel precedente articolo. Rispetto alla struttura con tre aliquote e detrazioni lì discussa, le controproposte di Fini e dell’Udc con quattro aliquote e deduzioni si configurano come una lieve redistribuzione dai contribuenti con più reddito dichiarato a quelli che si collocano nelle fasce attorno a 40-50mila euro. Ciò è però dovuto alla sostituzione delle detrazioni con deduzioni, mentre, come si può notare dalla tabella 1, tutte le varianti oggi in discussione comportano lo stesso risparmio di imposta per tutti i contribuenti fino a 80mila euro di imponibile.

Gli effetti sui redditi familiari

Tuttavia, qualora si considerino i redditi familiari equivalenti, ordinati per decili di reddito imponibile equivalente, l’effetto del secondo modulo, in tutte le varianti proposte, continua ad avvantaggiare le famiglie più ricche.
L’ipotesi di An e Udc apporta alcuni limitati correttivi al privilegio di quelle appartenenti al decile più ricco (vedi la figura 1). Ma viene confermata la netta differenza di effetti del primo modulo rispetto al secondo.
Per quanto riguarda la riforma dell’Irpef, la discussione dell’ultimo mese si è quindi concentrata su aspetti poco significativi. Quarta aliquota, “aliquota etica” sembrano essere solo estemporanei correttivi di un impianto già disegnato nella proposta a tre aliquote.

Ma quale sarà l’effetto della riforma nel suo complesso (primo e secondo modulo)?
Come mostra la figura 2, l’abbandono dell’impostazione a due aliquote della legge delega ha in effetti introdotto elementi di maggiore moderazione nei propositi della riforma. La perdita di gettito è dimezzata (da 28 a 13 miliardi sommando le due fasi della riforma) e anche gli effetti distributivi appaiono meno drammaticamente sbilanciati nei confronti dei più ricchi.
Permangono tuttavia aspetti insoddisfacenti, che rivelano il carattere poco sistematico della riforma complessiva. È infatti un ibrido tra due visioni molto diverse dell’imposta personale all’interno della maggioranza di Governo: il modello della flat rate tax della legge delega, che rimane sullo sfondo degli obiettivi del premier, e le soluzioni più tradizionali di An e Udc.
Ma l’aspetto più preoccupante, messo in luce dalla figura 2, è che le famiglie che si collocano nel primo e nel secondo decile (il 20 per cento della popolazione con redditi più bassi) otterranno alla fine sgravi fiscali inferiori a quelle più benestanti.
La proposta di riforma avanzata nelle ultime ore dal ministero dell’Economia prevede però un correttivo, attraverso un aumento generalizzato degli assegni al nucleo familiare (anf).
Il carattere molto selettivo di questo strumento consente infatti di “mettere una pezza” allo svantaggio relativo delle famiglie più povere. Solo uno strumento di spesa permette di ottenere risultati distributivi non deludenti. Perché consente di raggiungere anche le famiglie che, in ragione della scarsità di imponibile, non sono soggetti passivi dell’imposta sul reddito o non possono godere di tutte le detrazioni o deduzioni cui avrebbero diritto (gli incapienti).
Non si può fare a meno di osservare che, con un minore dispendio di risorse, si sarebbero potuti realizzare obiettivi distributivi più apprezzabili, mantenendo a disposizione del bilancio pubblico risorse preziose per realizzare altre riforme nel campo del welfare. (1)


(1) Baldini, M., P. Bosi, Matteuzzi, Sostegno alle responsabilità familiari e contrasto della povertà: ipotesi di riforma, in Rivista delle politiche sociali, n.2, 2004 e in
www.capp.unimo.it.

Tabella 1 – Contribuenti: Risparmi di imposta derivanti da ipotesi alternative del secondo modulo della riforma fiscale



Figura 1 – Famiglie: Risparmio di imposta del primo e del secondo modulo in % dell’imponibile

Figura 2 – Famiglie: Riforme complessive risparmi di imposta totale in % dell’imponibile


Chi vince e chi perde con la nuova Irpef, di Massimo Baldini e Paolo Bosi

Dalla presentazione della legge delega (7 aprile 2003), è stato un continuo susseguirsi di proposte e discussioni sugli effetti redistributivi e di gettito della riforma dell’Irpef.
Non ci si può illudere di essere giunti a intenzioni definitive del Governo in questa delicata area, ma può essere utile fare il punto della situazione, sulla base delle informazioni fornite dalla stampa sulla struttura degli scaglioni, delle aliquote e delle deduzioni previste per il secondo modulo della riforma dell’Ire.
Secondo queste indicazioni, si prevede una nuova struttura degli scaglioni e delle aliquote, illustrata nella quarta colonna della tabella 1 (riforma finale).

Tab.1 – Scaglioni e aliquote dell’Irpef 2002 e delle riforme

Irpef 2002

Legge delega

Primo modulo

Riforma finale

scaglioni

aliquote

scaglioni

aliquote

scaglioni

Aliquote

scaglioni

aliquote

0-10329

0,18

0-100000

0,23

0-15000

0,23

0-26000

0,23

10329-15494

0,24

oltre 100000

0,33

15000-29000

0,29

26000-32600

0,33

15494-30987

0,32

29000-32600

0,31

oltre 32600

0,39

30987-69722

0,39

32600-70000

0,39

oltre 69722

0,45

oltre 70000

0,45

Qui interessano gli effetti di gettito e distributivi di questa seconda fase, messa a confronto non solo con la legislazione vigente, che è segnata dall’intervento effettuato nel 2003, il cosiddetto primo modulo della riforma dell’Ire, ma anche con la situazione in vigore nel 2002. I redditi sono in valori del 2004. (1)

Effetti della riforma sul gettito

Secondo le stime fornite dal modello di microsimulazione del Centro di analisi delle politiche pubbliche dell’Università di Modena, il secondo tempo della riforma costerà 6,9 miliardi di euro, che si aggiungono ai circa 6 miliardi del primo modulo. Complessivamente, si tratta di una riduzione del carico fiscale di circa il 2 per cento. La riforma prevista nella legge delega, basata su un modello a due sole aliquote, avrebbe invece comportato uno sgravio fiscale di circa 28 miliardi di euro, pari al 4,4 per cento dell’imponibile.
Tra l’approvazione della delega e la Finanziaria per il 2005, il Governo è stato quindi indotto a più che dimezzare gli originali propositi di “ridurre le tasse”. La riforma dell’Ire alla fine sottrarrà comunque all’erario 13 miliardi di euro.

Analisi individuale per contribuenti

La tabella 2 mostra i risparmi di imposta dei contribuenti, sia in valori assoluti, sia in percentuale del reddito imponibile. Si tratta quindi di un’analisi di tipo individuale.
Il secondo modulo della riforma non concede praticamente nulla ai redditi inferiori ai 20mila euro (se non l’aumento da 7mila a 7.500 euro della no tax area per i pensionati), e favorisce soprattutto i redditi attorno ai 35mila euro, a causa della rimodulazione delle aliquote, e quelli superiori ai 70mila euro, a seguito della riduzione dell’aliquota marginale più elevata. I maggiori beneficiari degli sgravi sono i redditi più bassi e quelli più alti, mentre i guadagni sono inferiori per le classi centrali della distribuzione del reddito. Un risultato tipico, quando si riduce il numero degli scaglioni e ci si avvicina a uno schema flat rate: se si vuole diminuire il numero degli scaglioni e non si vuole perdere troppo gettito, è inevitabile premiare soprattutto i molto ricchi e i molto poveri.
Se si considera invece la riforma nel suo complesso, essa non sembra avere una chiara identità. Fino a imponibili di 30mila euro, lo sgravio della riforma complessiva presenta un andamento altalenante che non sembra rispondere a una precisa logica. Da 30mila sino a 70mila euro, lo sgravio percentuale è decrescente, accentuando quindi la progressività della struttura preesistente. Da 70mila in su, lo sgravio risulterebbe proporzionalmente crescente per raggiungere il valore massimo di quasi il 4 per cento per i contribuenti più ricchi.
Il Governo, nel corso del tempo, ha ridimensionato significativamente i suoi propositi di passaggio al modello della flat rate, contenuti nella legge delega del 2003: le ultime colonne della tabella 2 mostrano che, se si fosse passati alle due sole aliquote del 23 e 33 per cento (oltre i 100.000 euro), il beneficio per i contribuenti oltre i 70mila euro non si sarebbe limitato a due o tre punti percentuali del reddito, ma avrebbe superato abbondantemente il 10 per cento .
Anche se appare evidente la differenza rispetto alla riforma programmata con la legge delega, sulla base di queste stime il giudizio distributivo sulla riforma complessiva non può essere positivo. A favore dell’1,78 per cento di contribuenti con imponibile superiore a 70mila euro si concentra il 20 per cento dello sgravio complessivo. A un contribuente con reddito tra i 20-25mila euro vengono restituiti 444 euro; per il contribuente con imponibile superiore a 100mila euro, lo sgravio è quindici volte tanto: 6.357 euro.

Tab. 2 Risparmi di imposta per contribuente per classi di imponibile delle riforme dell’Irpef

Reddito

primo modulo

secondo modulo

Riforma complessiva

Legge delega

Imponibile

%

sgravio

Var.%

sgravio

Var.%

sgravio

Var.%

sgravio

Var.%

(000 euro)

contrib.

in euro

imponibile

in euro

imponibile

in euro

Imponibile

in euro

imponibile

0-5

9,0

-30

-1,3

0

0,0

-30

-1,3

-30

-1,3

5-10

22,4

-168

-2,3

-23

-0,3

-192

-2,6

-192

-2,6

10-15

20,7

-250

-2,0

-54

-0,4

-305

-2,4

-305

-2,4

15-20

19,8

-237

-1,4

-38

-0,2

-276

-1,6

-276

-1,6

20-25

11,6

-165

-0,7

-278

-1,3

-444

-2,0

-444

-2,0

25-30

5,9

-68

-0,3

-589

-2,2

-657

-2,4

-732

-2,7

30-35

2,5

-56

-0,2

-495

-1,5

-551

-1,7

-1189

-3,7

35-40

1,8

-58

-0,2

-468

-1,3

-526

-1,4

-1933

-5,2

40-45

1,1

-42

-0,1

-468

-1,1

-510

-1,2

-2781

-6,5

45-50

0,9

-55

-0,1

-468

-1,0

-523

-1,1

-3583

-7,5

50-55

0,6

-94

-0,2

-468

-0,9

-562

-1,1

-4500

-8,5

55-60

1,2

-89

-0,2

-468

-0,8

-557

-1,0

-5153

-9,0

60-65

0,5

-77

-0,1

-468

-0,7

-545

-0,9

-6019

-9,6

65-70

0,4

-101

-0,1

-468

-0,7

-569

-0,8

-6787

-10,1

70-75

0,1

-147

-0,2

-672

-0,9

-819

-1,1

-8007

-10,9

75-80

0,2

-157

-0,2

-904

-1,2

-1061

-1,4

-8867

-11,5

80-85

0,1

-128

-0,2

-1221

-1,5

-1349

-1,6

-10000

-12,1

85-90

0,2

-166

-0,2

-1526

-1,7

-1691

-1,9

-11155

-12,7

90-95

0,1

-172

-0,2

-1812

-2,0

-1984

-2,1

-12212

-13,2

95-100

0,2

-177

-0,2

-2159

-2,2

-2336

-2,4

-13488

-13,7

>100

0,9

-193

-0,1

-6165

-3,7

-6357

-3,9

-21698

-13,2

media

100,0

-171

-0,9

-198

-1,1

-369

-2,0

-809

-4,5

Analisi per redditi familiari equivalenti

Nello studio degli effetti distributivi di una riforma, non si può prescindere da un’analisi che assuma come unità di riferimento le famiglie.
La figura illustra gli effetti della riforma con riferimento alle famiglie ordinate per decili di reddito imponibile complessivo. In questa più appropriata dimensione, appare evidente l’inversione di rotta tra la riforma proposta nella legge delega e quella prevista per il 2005, in particolare con riguardo agli effetti sulle famiglie del nono e soprattutto del decimo decile, il più ricco della popolazione.
Il grafico mette anche in rilievo il carattere compensativo del secondo modulo rispetto al primo. Il primo, a partire dal terzo decile, mostra sgravi in percentuale dell’imponibile decrescenti. Il secondo modulo mostra invece vantaggi percentualmente crescenti al crescere dell’imponibile familiare. Nel complesso per le famiglie dal terzo al decimo decile lo sgravio oscilla mediamente intorno al valore del 2 per cento. L’assenza di compensazione per le famiglie più povere (in cui come è noto si concentra il fenomeno dell’incapienza) comporta vantaggi pressoché nulli per il primo decile e molto bassi e comunque inferiori alla media per le famiglie comprese nel secondo decile. Un effetto più volte messo in luce in passato, che l’attuale riforma non sembra risolvere, quantomeno con lo strumento dell’imposta personale.

L’effetto complessivo della riforma può infine essere valutato con l’indice di Gini (pari a 0 nel caso di distribuzione egualitaria e pari a 100 nel caso di massima disuguaglianza). Mentre il primo modulo della riforma ha prodotto un effetto moderatamente migliorativo dell’uguaglianza delle distribuzione del reddito netto (l’indice di Gini infatti diminuisce di 0,23), la riforma nel suo complesso produce un lieve peggioramento, (+ 0,16 nell’indice di Gini). La riforma originaria prevista nella legge delega avrebbe comunque avuto un effetto assai più forte (1,65 nel valore dell’indice), dimezzando l’effetto redistributivo dell’Irpef. Conclusione provvisoria: è una riforma che aumenta le disuguaglianze e che assorbe 13 miliardi che altrimenti potrebbero essere utilizzati per riformare gli ammortizzatori sociali e introdurre un programma nazionale per la non autosufficienza. La pur modesta riforma degli ammortizzatori prevista dal Patto per l’Italia, giace ancora inattuata e l’assistenza sociale continua a essere affidata a comuni con tetti di spesa sempre più stringenti.

(1) La tabella 1 non tiene conto di altri importanti cambiamenti della normativa sull’Irpef, considerati invece conto nelle simulazioni, che riguardano in particolare la sostituzione delle detrazioni da lavoro e pensione con una deduzione dal reddito complessivo decrescente per mantenere comunque la presenza di una iniziale no tax area, che rispetto ai governi dell’Ulivo aumenta da circa 6500 a 7500 euro. Nella simulazione relativa al secondo modulo, si è ipotizzato che la no tax area abbia un livello iniziale di 7500 euro sia per i dipendenti che per i pensionati, e di 4500 euro per gli autonomi. Questa deduzione decresce linearmente fino ad azzerarsi a 33mila euro. Il primo modulo ha mantenuto la detrazione sui redditi da lavoro e pensione solo per una ristretta fascia di redditi medi; in mancanza di indicazioni precise, si è supposto che essa non subirà modificazioni. La simulazione inoltre non considera gli eventuali incrementi degli assegni familiari, su cui al momento non si dispone peraltro di nessuna informazione precisa. Non teniamo neppure in considerazione gli aumenti delle imposte locali, tra cui le addizionali regionali e comunali all’Irpef, che faranno molto probabilmente seguito alla riduzione dei trasferimenti statali, e che quindi ridurranno i benefici netti degli sgravi decisi a livello centrale.

Europa, cantiere aperto

Sommario a cura di Riccardo Faini

I due pilastri della politica economica europea, il Patto di stabilita’ e l’agenda di Lisbona, necessitano di un’urgente opera di manutenzione. Il coordinamento delle politiche fiscali e’ pero’ essenziale al buon funzionamento di un’unione monetaria. Analogamente, il processo di riforme strutturali di Lisbona va attuato se si vuole rilanciare la crescita economica. Su questi temi gli economisti intervenuti su lavoce.info sono sostanzialmente d’accordo. Su molte altre cose – delegare il rigore fiscale ai Parlamenti nazionali o rafforzare i poteri della Commissione, integrare il Patto di stabilita’ con tutta l’agenda di Lisbona o riportare nel Patto solo alcuni elementi, in particolare le pensioni, di tale agenda – invece le opinioni divergono. Rimane irrisolto infine il problema della piena integrazione dei nuovi paesi membri nella politica economica europea.

Le pensioni nel Patto, di Tito Boeri e Guido Tabellini

Alla riunione dell’Ecofin di Scheveningen, i ministri economici si sono limitati a mostrare le carte. Sono davvero molte le questioni aperte al tavolo della trattativa sulla riforma del Patto di stabilità e crescita. Si deve, infatti, trovare un difficile equilibrio tra due diversi obiettivi: da una parte, il Patto deve continuare a prevenire un’accumulazione eccessiva del debito, dall’altra, ai governi deve essere concesso un più ampio spazio di manovra per mettere in atto riforme strutturali e ridare competitività all’Europa.

Un ostacolo alle riforme

Così com’è, il Patto ha un problema fondamentale: è un ostacolo alle riforme. I leader europei stanno sprecando tutte le loro energie e il capitale politico per rispettare i parametri di bilancio, mentre non fanno niente per affrontare le vere sfide: l’invecchiamento della popolazione, il peso dell’elevata imposizione fiscale, la perdita di competitività. Le riforme strutturali, infatti, “pagano” nel lungo periodo, e “costano” nel breve. Il Patto è nato per proteggere i cittadini europei dalla miopia dei governi, ma ha finito per determinare comportamenti ancor più miopi. Un esempio tipico è quello delle riforme pensionistiche. Pensiamo a una riforma che riduca il peso del pilastro pubblico a ripartizione ed espanda gli schemi a piena capitalizzazione. Per incoraggiare l’avvio di schemi pensionistici privati, è necessario ridurre i contributi obbligatori al sistema pubblico. Allo stesso tempo, si devono però continuare a pagare le pensioni a chi è già pensionato. Questo significa meno risorse per le pensioni pubbliche e, quindi, un aumento temporaneo del deficit corrente. Ma con la diminuzione delle pensioni future si avrà poi un miglioramento della sostenibilità del sistema. Le regole attuali del Patto scoraggiano questo tipo di riforme: l’aumento temporaneo del deficit di bilancio è proibito, anche se accompagnato da miglioramenti di lungo periodo. I politici europei sono divenuti consapevoli del problema. In quest’ultima riunione dell’Ecofin, la Commissione ha chiesto una maggiore discrezionalità e ha espresso la volontà di dare più enfasi al debito (esplicito): i paesi con un più basso rapporto fra debito pubblico e Pil avranno maggiore libertà nella politica fiscale. I ministri economici hanno, inoltre, proposto che riforma delle pensioni e sostenibilità di lungo periodo rientrino nei criteri di valutazione dei paesi. Per superare gli ostacoli che il Patto pone alle riforme strutturali, alcuni paesi hanno chiesto che il Patto sia legato agli obiettivi di Lisbona, per dare maggiore flessibilità di bilancio ai paesi che li stanno realizzando. Alcune di queste innovazioni potrebbero rivelarsi utili. Ma c’è il rischio di dare troppa discrezionalità alla Commissione o al Consiglio.

Le regole del Patto

Il Patto è basato su regole e perché possano essere applicate è necessario che possano essere definite con una certa precisione ex ante. Altrimenti, le regole diventano inapplicabili. Vediamo allora la proposta di legare il Patto agli obiettivi di Lisbona. Ci sono più di cento indicatori nella strategia di Lisbona: che succede se un paese fa progressi in una di queste direzioni, ma peggiora in un’altra? Se fosse la Commissione a decidere sulla rilevanza dei diversi indicatori, interferirebbe così nei processi politici nazionali, imponendo priorità in aree che non sono di sua competenza e nelle quali non ha nessuna legittimazione politica. Se invece questa discrezionalità incontrollata fosse lasciata al Consiglio, e non alla Commissione, è facile prevedere che la “pressione dei pari grado” per ristabilire l’equilibrio di bilancio finirebbe presto per trasformarsi in una “protezione dei pari”. È possibile utilizzare il Patto a favore e non contro le riforme strutturali senza rendere le regole inapplicabili? Noi crediamo di sì. L’idea è individuare alcuni parametri ampi, ma precisi dal punto di vista operativo, e applicare a questi indicatori la stessa idea suggerita dalla Commissione per il debito pubblico: i paesi che fanno progressi su questi indicatori possono avere maggiore libertà d’azione sul deficit di bilancio. Un indicatore che risponde a questo criterio è il debito implicito dei sistemi pensionistici pubblici, cioè il valore attuale scontato delle prestazioni pensionistiche future, a legislazione vigente. Le prestazioni pensionistiche promesse ai lavoratori e ai pensionati sono più importanti dei deficit futuri dei sistemi previdenziali. I deficit possono essere ridotti con contributi più alti, ma non è nostra intenzione spingere i governi in questa direzione: i contributi per la sicurezza sociale sono già fin troppo alti in Europa e l’unico modo per riavviare la crescita senza compromettere il futuro, è attraverso una riforma delle pensioni che riduca il peso della componente previdenziale pubblica. Ovviamente, ogni stima del debito pensionistico implicito richiede cautele e assunzioni arbitrarie. Ma altrettanto arbitraria è l’attuale applicazione del Patto. Per esempio, sono convenzionali i criteri con cui si misurano i deficit di bilancio e si definisce che cosa è e che cosa non è un’entrata pubblica. Inoltre, la Commissione ha già fatto passi importanti nell’armonizzare le ipotesi utilizzate nelle proiezioni della spesa previdenziale nei diversi paesi. Ai fini del Patto, poi, il punto di riferimento dovrebbero essere le variazioni nello stock di debito pensionistico (date certe ipotesi economico/demografiche) piuttosto che il livello stesso. Le variazioni sono più semplici da confrontare dei livelli, perché è meno probabile che riflettano ipotesi arbitrarie.

Informare i cittadini

Ma c’è un motivo ancor più importante per concentrare l’attenzione sulle variazioni che avverranno da qui in poi nel debito pensionistico, a seguito di riforme previdenziali. Non c’è nessuna ragione perché l’Europa intervenga nei sistemi pensionistici dei singoli Stati membri. Dopotutto, qual è l’esternalità negativa per gli altri paesi europei se, per dire, la Spagna mantiene un sistema pensionistico generoso? Il problema è che la formulazione attuale del Patto è un ostacolo alle riforme. E d’ora in poi non deve essere più così. Una maggiore attenzione ai debiti pensionistici impliciti servirebbe anche per informare i cittadini. I sondaggi dicono che la maggior parte dei cittadini europei non è pienamente consapevole dell’entità della redistribuzione fra generazioni implicita nel funzionamento dei sistemi previdenziali pubblici. Molti ritengono che i loro contributi pensionistici vadano in un conto individuale, a capitalizzazione. Ignorano che invece stanno pagando le pensioni degli attuali pensionati. Questi sondaggi (www.frdb.org) rivelano anche che i cittadini più informati sono più favorevoli a riforme che riducano la generosità dei sistemi previdenziali. Stime ufficiali del debito pensionistico implicito aumenterebbero la trasparenza della redistribuzione tra generazioni dovuta ai sistemi a ripartizione. Così i governi verrebbero premiati da un più forte consenso politico per riforme che non possono essere ulteriormente rinviate.

Una riforma per due, di Riccardo Faini

Il quadro della politica economica in Europa è desolante. Tralasciando la politica monetaria, entrambi i pilastri su cui doveva poggiare la politica economica del nostro continente – il Patto di stabilità e crescita e l’agenda di Lisbona di riforme strutturali – necessitano di un’urgente e radicale opera di manutenzione.

Il Patto di stabilità e crescita

Cominciamo dal Patto di stabilità. L’obiettivo di rigore fiscale che avrebbe dovuto portare i paesi membri a conseguire il pareggio di bilancio entro il 2004 preparando i conti pubblici alle ricadute del processo di invecchiamento e consentendo alla politica fiscale di svolgere pienamente il suo ruolo di stabilizzatore del ciclo, è stato presto dimenticato, prima ancora che il rallentamento economico esercitasse i suoi effetti sui conti pubblici. Il Patto di stabilità rimane però uno strumento essenziale di coordinamento delle politiche fiscali in un’unione monetaria. In tale contesto, infatti, il mercato dei cambi non disciplina più le scelte di politica fiscale. Si appiattiscono quindi gli spread fra paesi e si indebolisce la sanzione di mercato nei confronti dei paesi meno virtuosi. Di conseguenza, politiche fiscali insostenibili in un paese membro si ripercuoteranno sui tassi di interesse di tutta l’area monetaria più che sui differenziali fra paesi. È un’esternalità negativa che la politica fiscale in un paese esercita sugli altri membri dell’area monetaria. Al Patto di stabilità era nei fatti assegnato il compito di internalizzare il più possibile questo effetto. Ma vi è un’altra esternalità, di segno opposto, che pesa non poco nel giudizio dei critici del Patto. È vero infatti che un miglioramento dei conti pubblici conseguito esclusivamente attraverso riduzioni di spesa o aumenti di imposte deprime l’economia e riduce la domanda di importazioni, con inevitabili effetti recessivi anche sulle altre economie dell’area. Oggi, in una situazione di forte rallentamento economico, è questo secondo effetto a prevalere.

L’agenda di Lisbona

Passiamo all’agenda di Lisbona. L’obiettivo era di favorire l’adozione di misure volte ad accrescere il potenziale di crescita delle economie dei paesi europei. L’attuazione delle riforme di Lisbona è però in gravissimo ritardo, come denunciato non solo dalla Commissione, ma anche dal Comitato di politica economica dell’Ecofin. Progressi più significativi avrebbero prodotto benefici di rilievo. Una crescita più rapida infatti non solo migliora i saldi di bilancio nel paese in questione, ma stimola i flussi di importazione e si ripercuote favorevolmente sui livelli di attività economica in tutta l’area. È un’esternalità positiva, a differenza del Patto di stabilità: l’adozione di politiche virtuose da parte di un paese ha ricadute favorevoli sui livelli di attività e sui conti pubblici di tutti i paesi dell’area. A ostacolare l’adozione dell’agenda di Lisbona hanno però contribuito i costi, anche di bilancio, delle riforme, le conseguenti resistenze politiche all’interno di ciascun paese, la riluttanza dei paesi membri a conferire ulteriori poteri alla Commissione e, di riflesso, la scelta di un metodo, quello del coordinamento aperto, in cui i paesi si limitano a confrontare le proprie esperienze di riforma nell’improbabile ricerca di una “best practice”. A differenza del Patto di stabilità, questo metodo non fornisce nessun incentivo, in positivo o in negativo, ad attuare le riforme per le quali, a parole, i governi si erano impegnati.

Il possibile rimedio

Un ovvio rimedio alla situazione di stallo che caratterizza sia il Patto di stabilità sia l’agenda di Lisbona consiste nel legare più strettamente i due programmi. Più che scorporare alcune voci “virtuose” di bilancio, ad esempio gli investimenti pubblici, dal computo del saldo di bilancio a fini dell’applicazione del Patto (anche molte voci di spesa corrente hanno effetti positivi sulla crescita, troppo spesso gli investimenti pubblici sono totalmente improduttivi), si dovrebbe consentire ai paesi che procedono più speditamente sulla strada delle riforme di struttura margini più generosi (ma limitati, nell’ordine dello 0,2-0,3 per cento del Pil) nella valutazione delle politiche di bilancio. I vantaggi sarebbero ovvii. Si stempererebbero le esternalità negative di una politica di mera restrizione fiscale che riduce la domanda aggregata anche nel resto dell’area. Si fornirebbe un incentivo ad attuare politiche di riforma, consentendo in particolare ai governi di compensare, nel breve periodo, i gruppi sfavoriti dalle riforme. L’obiettivo di crescita diverrebbe finalmente parte integrante del Patto di stabilità e l’agenda di Lisbona si vedrebbe dotata di strumenti operativi. Non mancheranno inevitabilmente le obiezioni a questa proposta. Valutare un programma di riforme strutturali è un esercizio intrinsecamente difficile,ma non impossibile. Non ci dovrebbero essere dubbi ad esempio che la liberalizzazione degli ordini professionali o lo smantellamento di un monopolio nel settore delle industrie a rete costituiscono un progresso anche se è difficile misurarne gli effetti. Ogni anno, sia la Commissione attraverso l’Implementation Report, sia il Comitato di politica economica dell’Ecofin, attraverso l’Annual Report, forniscono una valutazione dettagliata delle nuove politiche di riforma del mercato dei beni, dei servizi, del lavoro e dei capitali adottate dagli stati membri. Rimane ancora da definire a chi verrebbe affidata la valutazione delle politiche di riforme di un paese membro. All’Ecofin? No di certo. L’incentivo a un accordo collusivo in cui le riforme di tutti i paesi ricevono una valutazione favorevole sarebbe troppo forte. Una ragionevole soluzione di compromesso sarebbe di delegare alla Commissione tale valutazione, con l’obbligo però di sentire il Comitato di politica economica. Si eviterebbe così di conferire poteri giudicati eccessivi alla Commissione, si preserverebbe il metodo comunitario e si utilizzerebbero al meglio le competenze esistenti.

Nessun brindisi per il nuovo patto, di Charles Wyplosz

Il tentativo della Commissione europea di infondere nuova vita al moribondo Patto di stabilità e crescita è stato in larga parte accettato nell’incontro dell’Ecofin dello scorso week end, anche se resta qualche elemento di disaccordo. La strategia è quella di dichiarare che il Patto è vivo e vegeto, ma nello stesso tempo annacquarlo fino a renderlo irrilevante.

Le ragioni della Commissione

A prima vista, questo è un bene: il Patto doveva morire perché ha violato principi elementari di saggezza economica. Con l’estensione del concetto di circostanze eccezionali (l’oggetto del disaccordo all’Ecofin) per affrontare “condizioni specifiche” di un paese, la proposta della Commissione rompe quell’automaticità che era stata finora l’elemento fondamentale del Patto.
La Commissione ha ragione. Non solo mettere il pilota automatico alla politica fiscale è un non senso economico, ma è anche contrario al fondamentale principio democratico secondo il quale sono i parlamenti, e non le regole automatiche, a decidere sui bilanci. Alla Commissione deve inoltre essere riconosciuto il merito di aver respinto i suggerimenti dei tecnocrati che puntavano ad applicare il criterio del deficit del 3 per cento ai bilanci corretti per il ciclo. Il calcolo degli aggiustamenti per il ciclo è soggetto a tali difficoltà pratiche che potrebbe generare qualsiasi numero. Ma non solo. Perché mai cittadini e parlamenti dovrebbero imparare tali arcani concetti quando tutto quello che vogliono sapere è perché pagano le tasse? Infine, la Commissione ha giustamente riconosciuto che il metro corretto per misurare la virtù fiscale non è dato dall’equilibrio di bilancio annuale, ma dal fatto che i debiti pubblici, adeguatamente misurati, riescano a ridursi quando sono troppo alti.

Niente da festeggiare

Dobbiamo dunque festeggiare? Sfortunatamente, no. Il vecchio Patto era così rigido da risultare inapplicabile. È probabile che il nuovo sia così flessibile da non essere mai applicato. Certo, ai ministri delle Finanze continueranno a essere consegnati i pesanti rapporti della Commissione, con la descrizione accurata di tutti i loro sbagli. E continueranno gli inviti a esercitare la “pressione dei pari” l’uno sull’altro. I peccatori prometteranno di diventare virtuosi, per poi tornare nelle loro capitali e continuare a peccare. Come il precedente, anche il Patto resuscitato premia l’ipocrisia e come sempre le vittime sono i contribuenti. Con poche brillanti eccezioni, nell’Eurozona i debiti pubblici ufficiali sono già elevati, quelli reali sono ancora più alti. Il costo di pensioni e assistenza sanitaria presto reclamati dalla generazione del baby boom porterà i debiti pubblici ben al di sopra del 100 per cento del Pil. I governi soffrono di una distorsione sul deficit: amano lasciare un grosso conto da pagare ai loro successori più o meno prossimi. La maggior parte di noi non vuole lasciare in eredità ai propri figli debiti pesanti, invece è proprio questo che fanno i governi. Ma i contribuenti – e i loro figli – vanno protetti da questa distorsione sul deficit. Dobbiamo tornare ai principi di base e ricordarci che impedire ai governi di comportarsi male è esattamente la ragione per cui è nata la democrazia. Questo non ha niente a che vedere con l’unione monetaria, ma il Patto esiste ed è difficile che sia abolito. È perciò meglio usarlo per spingere i paesi membri ad adottare procedure che riportino i debiti pubblici a livelli ragionevoli. Ma non è necessaria l’uniformità. Ogni paese ha i suoi metodi per combattere il crimine o per scegliere i suoi governanti. Allo stesso modo, ogni paese può darsi le sue istituzioni per prevenire la distorsione sul deficit. Quelli che imputano il fallimento del Patto alla debolezza della Commissione perdono di vista il semplice fatto che fin dall’inizio la Commissione non doveva neanche essere coinvolta nella questione. È stata capace di uscire dalla trappola in modo intelligente, ma avrebbe potuto fare un passo ulteriore: chiamare i parlamenti nazionali a farsi carico della distorsione sul deficit, come sono costituzionalmente obbligati a fare. Il Patto deve diventare un accordo formale per costruire istituzioni nazionali capaci di varare politiche di bilancio virtuose. Come guardiano del Trattato, la Commissione dovrebbe proporre un calendario, monitorare i progressi e, se necessario, portare i governi inadempienti davanti alla Corte di giustizia europea.

Un patto più intelligente, di Andrea Montanino

Il 3 settembre la Commissione europea ha presentato le sue idee sulla revisione del Patto di stabilità e crescita. Si tratta di un ulteriore passaggio, dopo la Comunicazione di novembre 2002 (Pubblicata su lavoce.info del 26.11.2002) e quella di giugno 2004 (File pdf), verso un Patto più “intelligente”. Non sono però ancora proposte definitive e formali, ma piuttosto idee da cui partire per la discussione delle prossime settimane con gli Stati membri.

Le idee della Commissione

In sostanza, le idee della Commissione si sviluppano lungo due assi. In primo luogo, si propone una maggiore attenzione alla sostenibilità delle finanze pubbliche. Ciò si otterrebbe attraverso alcune modifiche legislative all’attuale sistema di regole tale da enfatizzare l’importanza delle condizioni del debito pubblico nella sorveglianza fiscale. Il secondo asse riguarda il ruolo da assegnare alla congiuntura economica. Attualmente, le condizioni cicliche sono considerate nell’analisi dell’obiettivo di medio termine (che è misurato in termini aggiustati per il ciclo), ma non nella procedura di deficit eccessivo: il tempo a disposizione per correggere il deficit una volta avviata la procedura è sostanzialmente indipendente dalla crescita economica.
Per quanto riguarda la sostenibilità, la Commissione propone che il percorso di rientro dal deficit eccessivo (quando cioè il deficit supera il 3 per cento del Pil) sia modulato in base allo stock del debito pubblico. In pratica, paesi a basso debito potrebbero beneficiare di un percorso d’aggiustamento più lento rispetto a quello attualmente previsto dal Patto (due anni. Cfr. http://europa.eu.int/). Anche l’obiettivo di medio termine – il cosiddetto bilancio prossimo al pareggio o in surplus – si differenzierebbe in base al debito e ai rischi di sostenibilità delle finanze pubbliche. Ancora una volta, paesi con posizioni di bilancio virtuose potrebbero avere obiettivi di medio termine meno stringenti del bilancio in pareggio, vale a dire un deficit.
Si tratterebbe poi di rendere operativo il criterio del debito previsto dal Trattato di Maastricht. Secondo il Trattato, un paese è soggetto alla procedura di deficit eccessivo sia se non rispetta il limite del 3 per cento nel rapporto deficit/Pil, sia se il suo debito è superiore al 60 per cento del Pil e il tasso di riduzione non è soddisfacente. Per mancanza di chiarezza su cosa debba intendersi per tasso di riduzione soddisfacente, la parte del Trattato relativa al debito non è stata di fatto mai applicata. La Commissione sembrerebbe intenzionata a dedicare maggiore attenzione alle condizioni cicliche anche nella procedura di deficit eccessivo, ammettendo ad esempio che la bassa crescita possa giustificare un aggiustamento più lento di quello normalmente richiesto. Inoltre, si avanza l’idea di rivedere la cosiddetta clausola di eccezionalità. Questa prevede che solo una caduta del Pil reale di almeno lo 0,75 per cento in un anno possa evitare la procedura a un paese che ha superato la soglia del 3 per cento nel rapporto deficit/Pil. La clausola di eccezionalità potrebbe invece verrebbe rivista per contemplare anche casi di riduzioni del Pil meno marcate. Così facendo, si potrebbero verificare più frequentemente casi di paesi con deficit superiori al 3 per cento, ma che – in base alle condizioni cicliche – non vengono sottoposti a procedura.

Il Trattato resta valido

Nel complesso, il Trattato rimane pienamente valido e l’impianto del Patto di stabilità non viene messo in discussione: i deficit eccessivi devono essere evitati, l’obiettivo di medio termine deve garantire finanze pubbliche sane e la sorveglianza fiscale rimane uno strumento essenziale di coordinamento delle politiche economiche. Le proposte della Commissione tendono piuttosto ad aumentare la razionalità economica del Patto stesso: maggiore attenzione alla sostenibilità, che in ultima analisi ha un effetto sulla stabilità dei prezzi, maggiore attenzione alle condizioni strutturali della finanza pubblica – in particolare lo stock e la dinamica del debito -, maggiore attenzione alle condizioni del ciclo economico nel fissare le scadenze della procedura di deficit eccessivo.
E’ necessario evitare che l’approccio proposto finisca per aumentare la discrezionalità degli agenti, in primo luogo del Consiglio, con il risultato di favorire un maggiore “opportunismo” piuttosto che una maggiore “intelligenza”. Per questo la Commissione sembra in favore di un sistema che preveda anche un tempo massimo per la correzione dei deficit eccessivi, oltre il quale un paese non può andare. Questo coniugherebbe la flessibilità necessaria per tenere conto delle diverse condizioni nei paesi membri, con il giusto rigore per dare certezza alle regole, anche a quella componente del Trattato che prevede sanzioni. L’applicazione del criterio del debito pubblico previsto dal Trattato andrebbe anch’essa in questa direzione.
Un approccio come quello abbozzato dalla Commissione non è maggiormente punitivo rispetto al sistema di regole attualmente in vigore per i paesi ad alto debito, ma piuttosto offre certezza che tutti i paesi si impegnino al risanamento fiscale per assicurare la sostenibilità delle finanze pubbliche nel lungo periodo. È un sistema che crea incentivi per politiche fiscali sane in periodi di alta crescita: la riduzione del debito pubblico infatti potrebbe portare in dote una maggiore flessibilità sul bilancio da usare in periodi di bassa crescita o per intraprendere costose riforme strutturali.

* L’autore opera presso la Direzione Generale Affari Economici e Finanziari della Commissione Europea, dove si occupa di finanza pubblica dei paesi europei e della riforma del Patto di Stabilità.

L’agenda di Lisbona e il presidente portoghese, di Stefano Micossi

L’agenda di Lisbona Â…

Tra i dossier che attendono il presidente Durão Barroso sulla scrivania, quello più impegnativo riguarda l’agenda di Lisbona, un ambizioso programma di riforme economiche approvato a Lisbona dai Capi di Stato e di Governo dell’Unione nel 2000, con l’obiettivo di fare dell’Unione “la più competitiva e dinamica economia della conoscenza entro il 2010”. Tutti i campi della politica economica sono coperti: innovazione e imprenditorialità, riforma del welfare e inclusione sociale, capitale umano e riqualificazione del lavoro, uguali opportunità per il lavoro femminile, liberalizzazione dei mercati del lavoro e dei prodotti, sviluppo sostenibile. Gli obiettivi sono condivisibili: ma essi appartengono perlopiù alla sfera delle decisioni nazionali. Nella maggior parte di quelle materie l’Unione non ha né competenze, né poteri d’intervento.

Â… e il coordinamento aperto delle politiche economiche

Tuttavia, il Consiglio europeo, dietro impulso della Commissione, ha utilizzato un nuovo metodo – il coordinamento aperto delle politiche economiche, già previsto dal Trattato per le politiche dell’occupazione – per giocare un ruolo crescente in questi campi. Il coordinamento aperto contempla la definizione d’obiettivi comuni a livello dell’Unione, l’adesione volontaria a tali obiettivi da parte dei paesi membri, e la verifica dei progressi compiuti da parte del Consiglio europeo attraverso meccanismi di benchmarking e “pressione dei pari”. Com’era inevitabile, il coordinamento aperto non ha mantenuto la promessa di facili realizzazioni. Inoltre, l’illusione di poter ottenere dal Consiglio europeo la ripresa della crescita e della produttività è diventata un diversivo per quei governi nazionali che non avevano la forza di decidere da soli. Per rimediare a tali mancanze, sono state proposte due vie d’uscita. La prima consiste nel far discutere ai parlamenti nazionali lo stato d’attuazione del programma di Lisbona, che in tal modo dovrebbero assumersene la responsabilità; la seconda, di accrescere la flessibilità del vincolo di bilancio del Patto di stabilità in funzione della realizzazione di certi obiettivi di Lisbona (ad esempio, le liberalizzazioni). Il mio suggerimento al presidente Barroso è di trovare il coraggio di gettare alle ortiche l’agenda di Lisbona. Ciò chiarirà, oltre ogni dubbio, che la responsabilità per la crescita, la disoccupazione e l’innovazione appartiene ai governi e ai parlamenti nazionali.

Il coordinamento delle politiche macro-economiche

Il mio secondo suggerimento riguarda il coordinamento delle politiche macro-economiche nazionali. Il Trattato di Maastricht aveva prefigurato uno schema semplice per la fase dell’unione economica e monetaria. La politica monetaria fu centralizzata e affidata ad una banca centrale indipendente, mentre la politica di bilancio fu lasciata agli stati membri, ma con il duplice vincolo – fissato dalla procedura dei disavanzi eccessivi del Trattato – del 3 percento sul rapporto tra il disavanzo (indebitamento netto) del settore pubblico e il pil e del 60 percento sul rapporto tra il debito e il pil (o almeno della tendenza a convergere verso tale valore). In seguito, il Patto di stabilità e crescita ha aggiunto l’ulteriore requisito dell’equilibrio “tendenziale”, nel medio termine, del saldo del bilancio pubblico. Ciò rispose all’obiettivo di prevenire il ritorno a politiche di bilancio destabilizzanti dopo l’ingresso nell’euro, creando al contempo lo spazio per oscillazioni adeguate del disavanzo, in funzione anticiclica, all’interno del limite del 3 percento.

Nonostante la sua credibilità sia danneggiata …

La credibilità di quest’apparato è stata malamente danneggiata – oltre che dalle difficoltà dei paesi membri a rispettare quei vincolo in un periodo prolungato di bassa crescita – dalla controversia pubblica tra il Consiglio Ecofin e la Commissione europea, nel novembre 2003, sull’applicazione della procedura dei disavanzi eccessivi alla Francia e alla Germania. Ciò non implica che l’apparato debba essere abbandonato.

Â… un vincolo esterno sulle politiche di bilancio dei paesi dell’Unione è necessario Â…

…come assicurazione collettiva contro il rischio di un’accumulazione esplosiva di debito pubblico in uno stato membro – un rischio accresciuto dall’impatto dell’invecchiamento della popolazione sulle spese per l’assistenza e le pensioni – la quale potrebbe danneggiare la stabilità finanziaria dell’Unione. Inoltre, tale vincolo fornisce un’ancora alle politiche di bilancio dei paesi membri con deboli sistemi politici e istituzionali.

… ma esso dovrebbe essere riferito alla sostenibilità del debito pubblico …

Ma l’apparato deve essere rivisto. Non condivido la posizione di coloro che chiedono di escludere le spese d’investimento dal disavanzo pubblico consentito: ciò fornirebbe nuovo stimolo agli accorgimenti contabili “creativi” e alimenterebbe il rischio d’accumulazione eccessiva di debito pubblico. Piuttosto, mi sembra che si dovrebbe spostare l’enfasi dei meccanismi di sorveglianza collettivi dal disavanzo allo stock del debito e alla sua stabilità intertemporale.

Â… e a contenere la crescita della spesa pubblica

Inoltre, il criterio di sostenibilità del debito pubblico dovrebbe essere integrato da un vincolo sul tasso di crescita tendenziale della spesa pubblica, che dovrebbe essere mantenuto sotto a quello del pil (nominale). La ragione è semplice: se le spese aumentano più del pil, alla fine si dovranno aumentare le imposte per sostenerne l’onere; e questo, abbassando il tasso di crescita potenziale del pil, finirà per ripercuotersi negativamente sullo stato di sostenibilità del debito pubblico.
Si dovrebbero anche aumentare i poteri della Commissione nell’iniziare la procedura dei disavanzi eccessivi, come da molte parti è stato proposto. Purché mai più essa dimentichi che la sorveglianza sulle politiche di bilancio degli stati membri è un compito che richiede nel massimo grado giudizio politico, e non può essere lasciato nelle mani di avvocati e meccanici esecutori.

Soprattutto, occorre concentrarsi sul completamento del mercato interno

Infine, la nuova Commissione dovrebbe assegnare priorità assoluta al completamento del mercato interno dell’Unione, un campo nel quale essa dispone di incisivi poteri legislativi e di esecuzione. Quest’obiettivo è ben lontano dall’essere realizzato, come risulta evidente dalla diffusione degli aiuti di stato e dalla mancata applicazione di direttive chiave quali quelle su appalti e forniture pubbliche e sulla liberalizzazione dell’energia. Inoltre, le norme comuni di liberalizzazione ancora mancano per molti servizi, dalla distribuzione ai servizi professionali ai servizi pubblici locali. L’evidenza empirica indica che la bassa produttività in questi servizi spiega largamente il divario di produttività dell’Unione rispetto agli Stati Uniti.

Benvenuto allargamento, di Fabrizio Coricelli

Il

 

Il primo maggio dieci nuovi paesi entreranno nell’Unione europea in un contesto di crescente scetticismo sul futuro della Ue.

Una barca senza timoniere

È sempre più evidente che si è messa in mare una barca senza timoniere. Gli atteggiamenti dei nuovi paesi membri sono altrettanto preoccupanti. Citiamo due esempi emblematici.
Il primo è il referendum tenutosi a Cipro, che ha visto la popolazione greca opporsi al piano dell’Onu per una riunificazione del paese.
Il secondo è dato dai consensi crescenti in Polonia per il partito populista di Lepper. Secondo il quotidiano Rzeczpolita, se si tenessero elezioni oggi, Lepper risulterebbe vincitore.
Questi non sono casi isolati. Con l’eccezione della Slovenia, i partiti di governo che hanno accompagnato i paesi nella Ue hanno consensi molto bassi (vedi tabella).
È difficile giudicare la dinamica politica nei vari paesi e le ragioni del netto calo di consensi verso i partiti pro-europeisti. È peraltro indubbio che qualcosa non abbia funzionato nel processo di allargamento, se si considera che l’ingresso nella Ue è stato uno dei principali motori del cambiamento e delle riforme in quei paesi.

Responsabilità equamente divise

A nostro avviso le responsabilità sono da attribuire, in parti uguali, ai vecchi paesi membri e alle istituzioni della Ue.
Si pensi a come è stato affrontato il problema dell’apertura delle frontiere ai cittadini dei nuovi paesi membri.
L’immigrazione è il principale beneficio economico per i vecchi paesi della Ue, che sono paesi maturi con una popolazione stagnante. L’immigrazione di cittadini dei nuovi paesi, molto più poveri, porterebbe significativi benefici al funzionamento del mercato del lavoro e contribuirebbe a migliorare le prospettive di sostenibilità dei piani pensionistici in molti paesi della Ue.
Questo, e forse unico, chiaro beneficio economico per i vecchi paesi Ue non potrà essere sfruttato, perlomeno nei prossimi anni, poiché si è deciso di rinviare fino a sette anni l’applicazione della libera circolazione dei cittadini nei paesi Ue.
A tale mancanza di visione di lungo periodo si è poi aggiunto il discredito delle istituzioni europee, in primis della Commissione europea.
Le vicende sul Patto di stabilità ne sono l’esempio più rappresentativo. La disinvoltura con la quale l’Ecofin ha liquidato le raccomandazioni della Commissione sull’applicazione delle regole fiscali alla Germania e alla Francia, ha minato la credibilità delle istituzioni europee.
Il segnale nei confronti dei nuovi paesi è chiaro: entrare nella Ue non vuol dire entrare in un’Unione condotta sulla base di regole trasparenti e, soprattutto, da rispettare.

Fuori dall’euro

Come si può notare nella tabella qui sotto, i paesi dell’Europa centro-orientale entrano nella Ue con elevati deficit fiscali, nettamente al di sopra del tetto massimo consentito del 3 per cento.
Non si può certo affermare che tali deficit sono causati da una posizione ciclica sfavorevole, poiché il tasso di crescita delle economie dei paesi entranti è sostenuto. Tali deficit sono il risultato di politiche economiche errate.
I paesi più piccoli (i paesi baltici e Slovenia) hanno seguito strategie diverse, probabilmente perché più consapevoli dei rischi che corrono paesi piccoli totalmente aperti ai movimenti di merci e di capitali se le politiche macroeconomiche non sono sostenibili.
Per i paesi più grandi non vi è stata alcuna pressione da parte della Commissione europea o della Banca centrale europea. Anzi, con l’obiettivo di ritardare i tempi dell’adozione dell’euro, la Commissione e la Bce hanno dato segnali evidenti di tolleranza per elevati deficit.
Si è diffusa l’opinione che finché resteranno fuori dall’euro i nuovi paesi membri non saranno soggetti ai vincoli fiscali della Ue. Questo fatto, scarsamente notato, è grave poiché i vincoli fiscali si applicano, secondo i Trattati dell’Unione, a tutti i paesi membri della Ue e non soltanto ai paesi della zona euro.
Fino a quando saranno fuori dall’euro i nuovi paesi membri rischiano crisi valutarie e finanziarie causate dal trinomio esplosivo di alti deficit pubblici, tassi di cambio più o meno controllati come prevede la Ue e perfetta mobilità dei capitali. L’esperienza dell’America Latina dimostra la vulnerabilità dei paesi emergenti a movimenti di capitali erratici, con boom seguiti da fughe repentine.

L’Ungheria ha già adottato il sistema di cambio previsto dalla Ue prima dell’ingresso nell’euro, ovvero quello di una banda (del 15 per cento sopra e sotto) attorno a una parità.
I risultati sono evidenti. Negli ultimi due anni il fiorino è stato sottoposto ad attacchi speculativi, prima verso l’apprezzamento poi verso il deprezzamento. La banca centrale ungherese ha tentato di scongiurare una crisi valutaria alzando drasticamente i tassi di interesse che sono saliti fino a toccare il 12 per cento, in un paese che ha un tasso di inflazione di poco superiore al 4 per cento.
Dopo che i mercati avevano scommesso su un rapido ingresso dei paesi entranti nell’euro, con una conseguente convergenza dei tassi di interesse ai livelli europei, ora le aspettative sono che l’ingresso nell’euro avverrà in un futuro remoto, con effetti negativi sui tassi di interesse interni anche per altri paesi, come ad esempio la Polonia. I nuovi paesi membri, in particolare quelli più grandi, sono avviati verso un periodo di forte instabilità economica che rischia di vanificare i grandi vantaggi del loro ingresso nella Ue. Al tempo stesso le tendenze politiche interne spingono in direzione di governi populisti e spesso anti-europeisti. Dall’euforia degli anni passati si sta passando a uno scetticismo generalizzato che prevede forti spinte nazionaliste.
Le responsabilità dei governi e delle istituzioni europee sono grandi. Un evento storico di portata straordinaria si sta trasformando in un processo caotico che accresce le spinte per un indebolimento del disegno di costruzione di una grande Europa.
La speranza è che i governi di tutti i paesi membri, vecchi e nuovi, comprendano la necessità di cambiare rotta per evitare che sfumi una grande opportunità.

Per saperne di più

Per una discussione più approfondita si veda Boeri, Tito e Fabrizio Coricelli, Europa: più grande o più unita?, Ed. Laterza, 2003.

 

 

 

Il fascino discreto del monopolio

Sommario, a cura di Carlo Scarpa

E’ stato un anno difficile per i servizi pubblici italiani, e lavoce.info ha cercato di mettere in luce alcuni aspetti critici. Soprattutto la telefonia sembra ancora un mercato ove la concorrenza stenta molto a funzionare, checché ne dica l’impresa dominante… Mentre i trasporti vivono momenti difficili, sia per quanto riguarda il punto di vista deiconsumatori, sia per la crisi pesante di Alitalia, che abbiamo analizzato sotto tanti punti di vista, senza pretendere di “dare una risposta” ma, speriamo, offrendo alcuni elementi di riflessione.

Liberalizzazione, servizi pubblici e povertà, di Raffaele Miniaci, Carlo Scarpa e Paola Valbonesi

Si parla di impoverimento continuo, di difficoltà delle famiglie ad arrivare alla fine del mese; temi più che rilevanti e preoccupazioni rispettabili. Spesso si incolpa l’euro o i commercianti , ma qualche volta si punta il dito accusatore anche contro le tariffe dei servizi pubblici, e ci si chiede se i consumatori siano veramente tutelati da chi le determina.

L’orientamento al mercato

La questione è particolarmente spinosa, poiché da diversi anni a questa parte si è assistito a un processo di graduale liberalizzazione – o quanto meno “orientamento al mercato” – di molti servizi pubblici. Questa tendenza ha avuto realizzazioni ed effetti diversi nelle diverse utility.
Nella telefonia, ormai siamo di fronte a un mercato dalla parvenze concorrenziali, anche se dominato dal vecchio monopolista. In ogni caso, è un mercato con dinamiche proprie e in forte evoluzione, tanto da meritare
un’analisi a parte.
Nel settore idrico, la riforma del 1994 (la “Legge Galli”) ha lentamente portato a superare la frammentazione dei servizi forniti nel territorio, così che quasi in ogni provincia si sta gradualmente giungendo ad avere un unico fornitore di tutti i servizi (acquedotto, fognatura e depurazione).
Liberalizzazione certo non è un’espressione pertinente a descrivere quanto avviene, ma “orientamento al mercato” sì: i sussidi pubblici non sono più accettati, e anzi il prezzo dell’acqua deve salire per coprire il costo dei pesanti investimenti necessari (1) e per incentivare il risparmio idrico a favore delle generazioni future.
Parimenti, nei settori dell’energia, il processo di orientamento al mercato si caratterizza per una maggiore attenzione alla copertura dei costi del servizio attraverso la tariffazione e per una maggiore trasparenza delle tariffe stesse. Qui, tale processo ha toccato soprattutto il segmento all’ingrosso (si pensi ad esempio alla borsa elettrica) ma, comunque, è sempre poca la concorrenza indotta: restano, infatti, posizioni di enorme potere di mercato da parte di Eni ed Enel.
D’altro canto, è anche vero che i conti delle imprese di questi settori, ormai tutte sul mercato azionario, devono rispettare criteri di mercato.

E l’impatto sulle famiglie

Come ha inciso questo processo di riforma sul budget delle famiglie italiane? I cosiddetti “problemi di sostenibilità” nel consumo delle utility di base sono aumentati o diminuiti? Analizzare i dati Istat sui consumi delle famiglie consente di mettere in luce alcuni aspetti di rilievo. (2)
Tra le tre utility “di base” qui considerate, il metano e gli altri combustibili per riscaldamento sono quelle per cui si spende di più: in media circa il 5-6 per cento del reddito delle famiglie italiane. Non gran che, ma tale ammontare varia parecchio da Regione a Regione, in considerazione di vari elementi che determinano effetti contrastanti (tabella 1).
Da un lato, il Nord è più ricco, ma è anche più freddo, e questo richiede maggiori spese per il riscaldamento (non a caso, in Sicilia la spesa per riscaldamento è minimaÂ…). Dall’altro, mentre i prezzi dell’elettricità sono uguali su tutto il territorio, quelli del gas e quelli dell’acqua presentano differenze a volte colossali (e non sempre comprensibili). Ad esempio, perché per riscaldarsi una famiglia dell’Emilia Romagna paga il 14 per cento più di una famiglia piemontese? Non certo perché in Piemonte fa più caldo. Si tratta quasi certamente di differenze di prezzo sulle quali occorrerà riflettere meglio.
Anche se si guarda alla percentuale del reddito che si spende per questi servizi, le differenze non riflettono la classica dicotomia Nord-Sud. La Regione ove in media si spende meno (il 4,6 per cento della spesa) è la Sicilia, probabilmente per ragioni climatiche. Quelle ove si spende di più, Basilicata e Calabria (6,6 e 6,9 per cento della spesa): qui il reddito basso non è neppure compensato da condizioni climatiche sempre favorevoli.

Povertà e servizi di base

Tutto questo assume un rilievo particolare quando l’attenzione si concentra sulle fasce più deboli. L’analisi a questo punto si scontra con un limite oggettivo. In Italia non si è mai costruito un indice sulla cui base definire – date le condizioni climatiche delle diverse zone del paese – quanta energia e quanta acqua dovrebbe consumare una famiglia per condurre una vita, non diciamo agiata, ma almeno sana. Quindi, manca un parametro oggettivo che ci sappia dire cosa significa “povertà” – in senso assoluto – con riferimento al consumo di questi servizi di base (ad esempio, quella che in Gran Bretagna si chiama “fuel poverty”).
A partire dalle informazioni contenute nell’indagine Istat sui consumi delle famiglie è comunque possibile individuare un livello minimo di consumi in utility al di sotto del quale si può parlare di “esclusione sociale”, e valutare che una famiglia incontri problemi di sostenibilità se per assicurarsi questi standard minimi di consumi deve spendere una quota considerata eccessiva del proprio reddito
Seguendo questa logica, si scopre che una quota tra l’11 e il 15 per cento delle famiglie italiane si trova a spendere per il paniere minimo considerato più di questa soglia – ovvero ha problemi di sostenibilità della spesa nei servizi di base – almeno per una delle tre utility. Questa percentuale è più alta in alcune delle Regioni tradizionalmente povere (Molise, Basilicata, Calabria), ma anche Regioni quali Piemonte o Friuli – più ricche, ma anche più fredde – mostrano tensioni da non trascurare.
Il processo di liberalizzazione ha acuito il problema? Per questi settori, la risposta per ora sembra essere negativa. La quota di famiglie “sotto stress” non cresce, anzi sembra diminuire. E in realtà se si guarda alla dinamica dei prezzi (figura 1) si vede come gas ed elettricità abbiano una dinamica dei prezzi in linea con l’indice generale dell’inflazione: nonostante l’aumento del petrolio, l’operare dell’Autorità per l’energia – almeno fino al 2003 – ha saputo proteggere i consumatori.
D’altra parte, i prezzi dell’acqua sono esplosi: +33 per cento dal 1997 al 2003 in termini nominali, circa 15 per cento sopra il tasso di inflazione. E questo è purtroppo solo l’inizio, stanti gli investimenti ingenti che attendono il settore idrico nei prossimi anni. Poiché elettricità e riscaldamento pesano di più nei bilanci familiari, questo significa che in media i consumatori che spendono una quota troppo elevata della loro spesa nelle utility di base sembra diminuire, proprio a partire dal 2001.
Possiamo fare previsioni sul futuro immediato? Sul fronte idrico, le tariffe continueranno a crescere, e su quello energetico presto o tardi le tariffe risentiranno dell’aumento del prezzo del petrolio. E non è certo che le Autorità locali preposte al servizio idrico integrato riusciranno a concordare opportune articolazioni tariffarie con i rispettivi gestori, né che – a livello nazionale, per gas ed elettricità – l’attuale Autorità dell’energia sarà in grado di proteggere i consumatori come quella precedente, guidata da Pippo Ranci.
Per ora, in termini di tariffe, le riforme in queste utility sembrano avere funzionato in modo imperfetto, ma almeno ragionevole.


(1) Si stimano pari a 51 miliardi di euro nell’arco di ventisei anni, di cui circa il 45 per cento per acquedotti e il 55 per cento per fognatura e depurazione, (Comitato Risorse Idriche, Relazione al Parlamento sullo Stato dei Servizi Idrici, 2003)

(2) R. Miniaci, C. Scarpa e P. Valbonesi (2004), Restructuring Italian utility markets: household distributional effects.



Il telefono, la tua bolletta, di Carlo Cambini

La liberalizzazione ha trasformato profondamente il settore delle telecomunicazioni, che oggi opera in regime di concorrenza, anche se imperfetta.
In attesa che l’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni renda pubblica la sua analisi di mercato e quindi ci dica se esistono eventuali problemi a cui porre rimedio, cerchiamo di valutare l’impatto che la liberalizzazione ha avuto dal 1998 a oggi sulle tariffe telefoniche e quindi sul consumatore.

Un’analisi difficile

Effettuare tale analisi è assai arduo. I servizi sono molto differenziati tra loro (chiamate urbane, nazionali e internazionali, le chiamate fisso-mobile, accesso a internet), spesso le tariffe variano con le fascia oraria, e il dedalo delle offerte (con parti fisse o variabili, sconti, offerte speciali e quant’altro), soprattutto nella telefonia mobile, complica ulteriormente la situazione.
Possiamo però dire qualcosa di più preciso sui servizi voce tradizionali (telefonia fissa) e sui ricavi medi per abbonato nel caso della telefonia mobile. Sono i segmenti più tradizionali, ma forse quelli più delicati per valutare se e quanto i piccoli consumatori abbiano beneficiato dalla liberalizzazione.

L’andamento delle tariffe nel fissoÂ…

In tabella 1 sono riportati i valori dei canoni mensili dal 1998 al 2003. (1)
Ne emerge che – a seguito del ribilanciamento tariffario (2) – i canoni medi sono aumentati di circa il 20 per cento in cinque anni, con un aumento in termini nominali del 44,2 per cento per il canone residenziale e del 13,8 per cento per quello affari (per il periodo 2000 – 2004).
Questo pesa soprattutto per le famiglie, per le quali il canone costituisce oggi in media circa il 40 per cento della spesa complessiva, mentre per l’utenza affari incide solo per circa il 18 per cento.
Il peso sempre più rilevante del canone è bene evidente anche nei ricavi di Telecom Italia: dal 2003 i ricavi fissi da canone (pari a 7.870 milioni di euro) hanno superato quelli da traffico (7.116 milioni di euro).
I costi variabili (per minuto) sono invece calati. I prezzi delle chiamate urbane (tabella 2) sono rimasti costanti in termini nominali e quindi si sono ridotti in termini reali, restando per altro sempre inferiori alla media Ue. Sia per le chiamate a lunga distanza (tabella 3) sia per quelle internazionali (tabella 4), i prezzi hanno avuto una consistente riduzione in termini nominali, pur restando in entrambi i casi ben al di sopra della media europea.
In media, quindi, la riduzione delle tariffe per il traffico voce in Italia è stata circa pari al 50 per cento, non distante peraltro dalla riduzione che hanno avuto le tariffe all’ingrosso (- 45 per cento circa) che gli operatori alternativi devono pagare a Telecom Italia per l’accesso alle sue reti.

Â…E nel mobile

Un discorso a parte merita il settore della telefonia mobile. Come già detto, i prezzi in questo settore sono particolarmente difficili da analizzare, stante i pochi dati a disposizione. In assenza di un vero e proprio prezzo di riferimento, si può usare come approssimazione il ricavo medio per abbonato (figura 1). Dai dati emerge come esso si sia ridotto nel tempo di circa il 50 per cento, ma anche come dal 2000 a oggi la discesa di questo valore si sia pressoché fermata.
Un tale andamento è legato all’esplosione nell’utilizzo del cellulare sia per le chiamate sia per i servizi dati (sms soprattutto) che ha permesso agli operatori di mantenere stabili i propri ricavi per abbonato. Proprio per il fatto che l’Italia è uno dei primi paesi europei per numero degli sms inviati, gli operatori mobili, invece di abbassare i prezzi unitari delle chiamate o guerreggiare su tariffe al minuto più basse, si sono concentrati sull’offerta di pacchetti di servizi sempre più articolati basati sulla possibilità di inviare centinaia di messaggi gratuiti a fronte di un costo fisso.
Il risultato è di rendere il sistema tariffario ancor meno trasparente di quanto poteva esserlo prima, ma questa è un’altra storia.

Dove sono i benefici per il consumatore

Se è vero che non si è qui tenuto conto delle molteplici offerte presenti oggi in Italia, è altresì vero che non si hanno dati certi circa il loro utilizzo nelle famiglie italiane. Quindi, la nostra analisi può considerarsi una proxy del consumatore medio italiano che non necessariamente utilizza offerte speciali.
Se in prima battuta ci si aspettava che la liberalizzazione avrebbe dato ai consumatori finali ampi benefici, forse è bene ricrederci, almeno in parte. Pur nei limiti dei dati disponibili, possiamo infatti concludere che i prezzi unitari dei servizi di telefonia si sono ridotti, ma l’aumento della spesa per il canone fisso è tale da assorbire buona parte di questi benefici.
Nelle stime effettuate da Eurostat ciò è evidenziato in modo significativo.
Considerando un paniere di spesa dei servizi telefonici in modo aggregato – fisso (canone + chiamate) + mobile, utenza residenziale e business -, si può osservare come dal gennaio 1996 al gennaio 2004 l’indice dei prezzi in Italia si è ridotto solamente di 10 punti percentuali in termini reali (si veda LINK BERARDI), molto meno di quanto si è verificato in Francia e Germania, paesi in cui il processo di liberalizzazione è partito allo stesso momento dell’Italia. E non solo: particolarmente preoccupante è il fatto che tale indice sia rimasto pressoché costante dal 2002 a oggi. Che ciò sia dovuto alla presenza di competitori più efficienti o a una regolazione più rigida di quella italiana è difficile da dire. Senza dubbio, ciò mostra che in Italia molto ancora si può e si deve fare per garantire maggiori benefici ai consumatori finali.


(1) Tutti i dati sono stati ripresi dai “Report on the implementation of the Telecommunications Regulatory Package” della Commissione europea pubblicati tra il 1999 e il 2004.

(2) In capo a Telecom Italia vi è l’obbligo di fornire il cosiddetto “servizio universale”, che consiste nell’assicurare l’accesso e l’erogazione di un livello minimo di servizi a tutti gli utenti che ne facciano richiesta, a un prezzo ragionevole e a prescindere dalla loro ubicazione geografica. Storicamente questi costi venivano coperti tramite sussidi incrociati, ossia praticando tariffe superiori ai costi per alcuni servizi (chiamate interurbane e internazionali) e tariffe più basse sui servizi di base. Questo poteva essere sostenibile con un solo operatore, ma con la liberalizzazione alcuni concorrenti sono entrati soprattutto ove i margini di guadagno erano più elevati, e il regolatore è allora dovuto intervenire, attuando il cosiddetto “ribilanciamento” tariffario che ha significato riallineare i prezzi ai costi dei singoli servizi, e anche aumentare il canone. Per maggiori dettagli si rimanda a Cambini, Ravazzi e Valletti, Il mercato delle telecomunicazioni, Il Mulino, 2003.



Alitalia dopo gli accordi, di Marco Ponti e Andrea Boitani

È difficile compiere una valutazione accurata delle prospettive di Alitalia dopo l’accordo con i sindacati. Molti punti cruciali del piano industriale sono ancora poco noti e pende il giudizio della Commissione europea sul riassetto societario e finanziario complessivo del gruppo, in particolare dopo la recente “segnalazione” da parte di otto compagnie concorrenti, secondo le quali il piano sarebbe sorretto da aiuti di Stato.

I vincoli della Commissione

La Commissione europea aveva condizionato l’autorizzazione all’erogazione del prestito-ponte di 400 milioni di euro (garantito dallo Stato) al varo di un piano credibile per riportare la compagnia in utile dopo dieci anni di bilanci in rosso. Inoltre, aveva vietato ad Alitalia (se si fosse salvata) di accrescere la sua flotta per qualche anno, in modo che non potesse utilizzare i fondi del prestito ponte per potenziare la sua capacità concorrenziale nei confronti delle altre compagnie europee. Allo stesso tempo, la Commissione aveva vincolato l’autorizzazione alla ricapitalizzazione di Alitalia alla riduzione della quota dello Stato nella compagine azionaria al di sotto del 50 per cento.

Gli accordi con i sindacati e la parte del Governo

La credibilità a breve termine del piano stava quasi tutta nella capacità della compagnia di ridurre il personale (che nei due anni precedenti era cresciuto, nonostante i risultati sempre più negativi) e il costo del lavoro per unità di prodotto, che era il più alto in Europa. (1) Perciò, nella trattativa coi sindacati, l’azienda aveva posto un obiettivo di 5mila esuberi, ma è riuscita a ottenerne soltanto 3.700. Inoltre, aveva chiesto e ottenuto l’azzeramento dei vecchi contratti di lavoro e l’accordo per contratti meno onerosi, con stipendi legati al lavoro effettivo prestato (ore volate, eccetera). Altro punto fondamentale era, per l’azienda, la separazione dei destini della compagnia di volo (AZ Fly) dalle attività di servizio a terra (manutenzione, handling aeroportuale, servizi di informatica, call center e così via), in cui si annidava una parte consistente delle perdite e che dovevano confluire nell’azienda AZ Service.
Un a volta raggiunto l’accordo con i sindacati, il Governo decideva di accordare ai lavoratori in esubero di Alitalia, così come ai loro eventuali colleghi di altre compagnie aeree, l’accesso alla cassa integrazione guadagni, integrata con un fondo speciale per portare i sussidi erogati all’80 per cento dello stipendio. Tale fondo dovrebbe venir alimentato con una piccola “tassa” (circa 1 euro) sui biglietti aerei.
La riduzione degli esuberi rispetto alle richieste dell’azienda può avere diverse letture. Resta comunque il fatto che i minori esuberi implicano una minor riduzione dei costi rispetto al desiderato e quindi – per far tornare i conti – la necessità di un maggior incremento dei ricavi. Cosa quest’ultima che implica una riconquista di quote di mercato non facile da ottenere nel quadro fortemente competitivo che si va affermando sulle rotte europee, grazie soprattutto alla presenza aggressiva delle compagnie low cost. Le prospettate alleanze di AZ Fly con altri vettori italiani, però, potrebbero semplicemente tradursi in un aumento del “grado di monopolio” sulle rotte nazionali, ovviamente a danno dei consumatori.
Quanto al nuovo sistema retributivo concordato con i sindacati, sembra di poter dire che esso rappresenti un effettivo passo in avanti verso un assetto sostenibile tanto sotto il profilo dei costi quanto sotto quello della produttività, anche se non è possibile affermare – sulla base delle informazioni disponibili in questo momento – che si tratti di un passo decisivo o anche solo sufficiente.
Per la prima volta si è deciso di offrire ammortizzatori sociali estesi a un intero comparto e non limitati all’azienda in crisi. È una novità importante. Tuttavia, la concessione del fondo integrativo appare un pericoloso precedente, soprattutto in quanto destinato a categorie di lavoratori tradizionalmente alquanto privilegiate. La vicenda, inoltre, ripropone l’esigenza di prevedere – non nel mezzo di una crisi aziendale o settoriale – un sistema di ammortizzatori sociali equo e generalizzato a tutti i lavoratori.

Riassetto societario o aiuti di Stato?

Molti dubbi solleva il riassetto societario previsto dagli accordi. Il controllo azionario di AZ Service da parte di AZ Fly (preteso e ottenuto dai sindacati) può indurre a sospettare che non venga reciso il cordone ombelicale tra le due aziende e che, quindi, AZ Fly continui ad “acquistare” servizi inefficienti e a costi superiori a quelli di mercato da AZ Service o che, invece, AZ Service fornisca i suoi servizi sottocosto, sobbarcandosi passivi ingenti.
Non chiaro appare il ruolo attribuito nel piano a Fintecna, che dovrebbe rilevare una quota rilevante (se non addirittura il 49 per cento) del capitale ordinario di AZ Service (e il 100 per cento del capitale “privilegiato”). Perché dovrebbe farlo? E a quale prezzo per ogni azione? Allo stato degli atti non pare che, per Fintecna, un simile acquisto possa costituire un obiettivo strategico. Qualora Fintecna acquisti le azioni di AZ Service solo perché l’azionista di riferimento di Fintecna stessa (cioè il Tesoro) lo impone, e a un prezzo molto più alto di quello di mercato, l’operazione potrebbe configurarsi come una mascheratura di aiuti di Stato. Che potrebbero configurarsi anche se ad AZ Service venisse attribuita una quota molto grande dei debiti pregressi di Alitalia. Ma qui conviene sospendere il giudizio, in attesa di maggiori informazioni sulla natura dell’operazione e del pronunciamento della Commissione europea.
La segnalazione alla Commissione da parte di otto compagnie europee è un segno inequivocabile dell’interesse con cui la vicenda Alitalia è seguita dai concorrenti. È anche un segnale (positivo) che il grado di collusione nel settore si è ridotto (un atteggiamento simile sarebbe impensabile nel settore ferroviario, per esempio).
D’altra parte, date le regole vigenti, i concorrenti possono sempre sperare che il mancato salvataggio di Alitalia sia seguito dalla cessione dell’azienda per un valore pari a quello degli unici asset realmente interessanti che possiede: gli slot aeroportuali e la “designazione” per le rotte intercontinentali più ricche (cioè soprattutto quelle transatlantiche). (2)
Alitalia non è più da tempo un monopolista in Italia, ma detiene pur sempre il 43 per cento del mercato nazionale (aveva il 66 per cento solo nel 2001) e il 22 per cento circa dei voli tra l’Italia e le altre città europee, ma soprattutto è ancora il duopolista leader sulla rotta Milano-Roma, una delle più ricche del continente.
Chi “ereditasse” Alitalia non sarebbe meno ingombrante della vecchia compagnia di bandiera. D’altra parte, le compagnie denuncianti hanno non a caso fatto riferimento alla presenza di un eccesso di capacità nel mercato del trasporto aereo. Il che significa che la scomparsa di un concorrente potrebbe consentire di ridurre la capacità e alzare i prezzi, con improbabili vantaggi per i consumatori. Purché, naturalmente, il salvataggio di Alitalia non sia esso stesso distorsivo della concorrenza, e che il perdurare di una “compagnia di bandiera” in difficoltà non induca il Governo ad atteggiamenti anticoncorrenziali sia nelle scelte di riassetto interno del comparto sia nei confronti di Bruxelles.


(1) Il valore aggiunto per dipendente è passato da 64mila euro nel 1999 a 47mila nel 2003, a causa di una riduzione del valore aggiunto prodotto e di un aumento dei dipendenti da circa 19100 a oltre 20600.

(2) Gli slot, infatti, non vengono messi all’asta ma sono assegnati in base alla regola dei grandfather rights. Questi diritti hanno dunque un valore di mercato proporzionale ai profitti ottenibili sui voli che possono essere fatti grazie a quegli slot.

Alitalia: bene così, ma non facciamoci illusioni di Carlo Scarpa

La crisi Alitalia sembra ormai arrivata vicina ad una soluzione. Era chiaro a tutti che o si sarebbe trovato un accordo sul nuovo assetto della compagnia, o il fallimento sarebbe stata l’unica alternativa. E’ da molti mesi evidente come un’impresa che perde oltre un milione di Euro al giorno (dati di inzio 2004) non aveva altre possibilità. Su lavoce.info abbiamo già trattato spesso il tema, e in particolare Marco Ponti già 15 mesi fa aveva indicato come la strada più seria poteva essere quella di rimettere Alitalia in linea con le compagnie a costo minore, piuttosto che rilanciare una improbabile super-impresa con ambizioni di “globalità”. Ma abbassare il costo del lavoro o il numero di dipendenti non serve a molto, se non aumenta di molto la produttività: di chi resta, e anche questo sembra che stia per succedere con i nuovi contratti. Non possiamo che rallegrarcene, auspicando che adeguati ammortizzatori sociali siano attivati per tutti i lavoratori coinvolti dagli esuberi. Purtroppo, della liberalizzazione che si auspicava allora si vede ben poco – anzi il recente richiamo dell’Enac alle compagnie straniere affinché aumentino i prezzi sembra un’agghiacciante stonatura. E della privatizzazione (auspicata anche da Mario Sebastiani) ancora non si vedono che promesse, e solo relativamente a una vendita parziale. Anche se è forse ovvio che al momento attuale solo un folle investirebbe in Alitalia, la soluzione che si prefigura – la semplice discesa della quota pubblica sotto il 50% – non è certo garanzia di apertura, poiché il controllo rimarrebbe saldamente in mano al Governo. Il problema (come anche sottolineato da Goldstein con riferimento ad esperienze apparentemente lontane) è la credibilità del Governo – non tanto o non solo di quello attuale, quanto dell’esecutivo italiano, sempre esposto a pressioni difficilmente controllabili. E, infatti, il costante richiamo di parte del sindacato al mantenimento del controllo pubblico rappresenta un’altra nota stonata, sia rispetto alle raccomandazioni della Commissione, sia rispetto ad eventuali prospettive di alleanze su base internazionale. Un altro tema importante che ora riaffiora è quello delle rotte da sviluppare o da abbandonare. Anche se le economie di rete non sono tali da prestarsi a soluzioni semplicistiche, il ridisegno delle rotte e del rapporto con gli aeroporti è un passaggio inevitabile. Allo stesso tempo, emerge con chiarezza che Malpensa sarà un problema, e lo si sapeva da tempo. Non credo sia un problema tanto per Alitalia, ma soprattutto per la Lombardia. E Malpensa dovrà seriamente cercare una soluzione ai suoi problemi senza Alitalia. La cosa curiosa è che la soluzione per Malpensa potrebbe proprio essere un aumento della concorrenza per Alitalia: mentre da un lato iniettiamo denaro pubblico per salvare la compagnia di bandiera, proprio i grandi investimenti effettuati a suo tempo con denaro pubblico si ritorceranno contro Alitalia?

Per Alitalia, guardiamo all’estero, di Andrea Goldstein

Sul Sole 24Ore del 18 maggio, Carlo De Benedetti osserva giustamente che la nazionalizzazione non può essere la soluzione dei problemi del trasporto aereo in Italia.

Una tattica errata

La strategia che De Benedetti indica, però, non convince e rischia di suggerire al Governo una tattica sbagliata nella ricerca delle risorse necessarie per risolvere la crisi di Alitalia. Un business plan che punti a rafforzare i collegamenti point-to-point in Europa e nel Mediterraneo, grosso modo sotto le tre ore, non è né necessario né sufficiente.
Non c’è bisogno di creare una nuova azienda sulle ceneri di Alitalia per permettere alla business community italiana e ai turisti stranieri di viaggiare. Per questo ci sono già i vettori stranieri e le low-cost, comprese quelle italiane che, come Volareweb, stanno già crescendo rapidamente.
Inoltre, a nessun vettore tradizionale, anche ove liberato degli oneri del servizio pubblico, è riuscita la transizione verso un modello di gestione a costi ridotti. Ma se anche questa strategia funzionasse, rischia di non essere sufficiente.
L’esperienza di compagnie europee e asiatiche (spesso pubbliche, come Air France, Emirates o Singapore Airlines) mostra chiaramente come il salto di qualità nei risultati aziendali richiede una strategia aggressiva di sviluppo a partire di un hub efficiente.

Due esperienze di successo

La strada per Alitalia passa necessariamente per la vendita di una quota significativa del capitale (diciamo il 30/40 per cento) a un operatore straniero, cui sia trasferita la gestione operativa del vettore.
Con esso il Tesoro dovrà firmare un chiaro contratto che indichi gli obiettivi strategici: in altre parole, la visione che il Governo ha per la compagnia di bandiera. Non è ragionevole discutere della cessione di una quota di maggioranza: allo stato la compagnia non è un cespite interessante e, soprattutto, la regolamentazione del trasporto aereo internazionale condiziona la designazione di una compagnia nel quadro degli accordi bilaterali alla proprietà nazionale.
Gli esempi cui guardare non mancano, per una volta bisogna però avere l’umiltà di imparare da paesi ben più poveri dell’Italia.
Nel 1996 e 1997, rispettivamente, i governi del Kenya e dello Sri Lanka decisero che l’unica strada per arrestare l’inesorabile declino delle proprie compagnie aeree passava per un accordo con partner esteri disposti a investire risorse, non solo finanziarie, nella difficile missione di trasformare vettori locali privi di una strategia chiara in aerolinee capaci di crescere e sostenere lo sviluppo dell’industria e del turismo.

Emirates ha acquistato 40 per cento di Air Lanka, ribattezzata Srilankan, mentre Klm ha acquisito il 26 per cento di Kenya Airways.
In ambedue i casi, l’investimento finanziario è stato relativamente modesto, anche perché gli introiti sono andati al fisco, non alla società.L’elemento cruciale è stato il contratto di gestione che ha chiaramente definito gli obiettivi e le responsabilità del nuovo partner.
Nel caso keniota, l’accordo indica come obiettivi aumentare i servizi tra l’Africa e il resto del mondo, condividere risorse, conseguire economie di scala e integrare Kenya Airways nelle alleanze che Klm sviluppa a livello globale. In cambio, Klm nomina i principali dirigenti, ma non la maggioranza del consiglio d’amministrazione, e ha il potere di veto sulle decisioni più importanti.
Anche in un contesto globale di crisi del trasporto aereo, le due compagnie hanno registrato tassi di crescita importanti – conseguiti grazie alla razionalizzazione della flotta, alla massiccia introduzione di strumenti informatici per ottimizzare la struttura tariffaria, a una rete di rotte e frequenze capace di supportare lo sviluppo di Nairobi e Colombo come incipienti hub regionali. Il margine operativo lordo è migliorato, il numero di passeggeri e la quantità di merce trasportati sono moltiplicati e ambedue la compagnie accumulano i riconoscimenti internazionali.
Risultati tanto più sorprendenti se si ricorda che Kenya e Sri Lanka sono stati drammaticamente colpiti dall’instabilità politica – attentati di Al Quaida a Nairobi e Mombasa, la guerra civile in Sri Lanka e la distruzione di aerei di Srilankan a opera dei terroristi Tamil. Ma ambedue le compagnie hanno ben letto i segnali del mercato. Ad esempio, dopo la conclusione di un accordo open skies con l’India, Srilankan serve quindici destinazioni in quel paese, con l’obiettivo di fare di Colombo un nuovo hub per collegare un mercato di un miliardo di persone con l’Asia e l’Europa.

Credibilità da costruire

L’esperienza di Kenya Airways e Srilankan contiene due messaggi che vale la pena trasmettere a chi ha a cuore l’avvenire di Alitalia.
Il primo, e più immediato, è che l’apertura a capitali esteri migliora la gestione con benefici reali, tra i quali l’aumento della forza lavoro rispetto all’epoca della proprietà pubblica. Non a caso, in ambedue i paesi le relazioni industriali sono ora significativamente migliori di quanto fossero quando la controparte del sindacato era il Governo.
Il secondo è che, in un settore come il trasporto aereo, per consentire questi risultati è necessario che il Governo sviluppi una strategia chiara e credibile. La credibilità si può costruire anche in contesti difficili come quelli di Kenya e Sri Lanka e non dipende necessariamente dalla continuità politica – tant’è che in nessuno di questi paesi il Governo che firmò gli accordi con gli investitori stranieri è ancora al potere.
Ma ciò richiede visione e perseveranza nel non capitolare di fronte alle proteste, per esempio quelle che accompagneranno la necessaria scelta dell’unico hub nazionale. Questa è la politica industriale moderna di cui l’Alitalia e il paese avrebbero bisogno.

(1) “Il mercato richiede chiarezza”, Il Sole 24 Ore, 18 maggio

Come si dice Malpensa in cinese?, di Francesco Cavalli, Francesco Gazzoletti e Daniele Nepoti

Malpensa e Alitalia: un rapporto turbolento

Malpensa è stato pensato e costruito come un grande hub. Uno scalo di questo tipo funziona se ricorrono, tra le altre, almeno tre condizioni:
La prima è che ci sia una compagnia aerea di riferimento. Alitalia è, nelle dichiarazioni, questa compagnia. Installata nell’hub di Fiumicino, la compagnia sostiene da anni di voler rafforzare Malpensa. Tuttavia, il personale Alitalia dislocato presso gli scali milanesi (centro di un bacino che vale circa il 70 per cento della domanda di trasporto aereo nazionale) si mantiene intorno a un irrisorio 6,6per cento (1.400 persone su 21.000) e non c’è traccia di progetto per l’installazione di una base di armamento a Malpensa.
Ora, è noto che nessuna compagnia aerea può puntare simultaneamente su due hub, meno che mai Alitalia. Il problema è che la lotta tra romani e milanesi per l’esclusività di Alitalia danneggia tutti, in primo luogo la compagnia aerea.

Una volta tramontata l’ipotesi di fusione con Klm infatti, che proprio in Malpensa trovò il motivo della progettata alleanza e la causa del suo fallimento, il rapporto speciale tra Alitalia e l’hub varesino è finito per sempre. Ed è interesse di tutte le parti in gioco considerarlo reciso una volta per tutte.

La questione di fondo è che in il trasferimento di Alitalia a Malpensa risulta semplicemente impossibile. A parte i costi in questo momento impensabili che la compagnia dovrebbe sopportare per il “trasloco”, Alitalia non lascerà Fiumicino perché è una società romana, nel bene e nel male legata a Roma e al suo milieu politico-economico.

Malpensa solo contro tutti

Una seconda condizione è che esista una serie di aeroporti serventi (Feeding). Si sa che Malpensa ha un nemico in casa: Linate. Un grande aeroporto riceve benefici dalla vicinanza di scali più piccoli a patto che sul primo si concentrino un’importante quantità di voli intercontinentali e che sia ben collegato, anche via terra, con i secondi.
Sotto il primo aspetto, Alitalia ha poche rotte intercontinentali (per di più spalmate tra Fiumicino e Malpensa) e con prezzi medi elevati. Inoltre, trasferire le rotte di Linate su Malpensa sarebbe possibile solo se il progetto incontrasse il consenso di tutto il paese. Ma questo non avverrà, in quanto il centro Sud (ovvero chi prende l’aereo e non il treno per raggiungere il Nord) preferisce (a ragione) volare su Linate, a soli 7 Km dal centro di Milano. Inoltre, i continui conflitti tra i soggetti politico-istituzionali milanesi e lombardi, con la Regione (esclusa dal capitale di Sea) decisamente propensa ad un depotenziamento di Linate e il Comune e la Provincia di Milano fieramente avversi, indeboliscono ulteriormente tale possibilità. Questi elementi, uniti alla questione infrastrutturale, spiegano il fatto che Linate (come altri aeroporti del Nord) funzioni spesso come vero feeding airport di hub europei diversi da Malpensa.

La terza condizione è poi un adeguato sviluppo delle infrastrutture e delle funzioni complementari di terra. Malpensa è sostanzialmente isolato dal suo territorio a causa della mancata attuazione dei piani esistenti per creare un sistema efficiente di infrastrutture stradali e ferroviarie. A questo si aggiunga il fatto che in prossimità dell’aeroporto non si è pienamente realizzato il necessario complesso di funzioni complementari e di supporto alle attività aeroportuali (accoglienza, logistica, ecc.).
Eppure, Malpensa beneficia di una localizzazione straordinaria per la prossimità al nodo di Milano (incrocio tra Corridoio V e Genova – Rotterdam, e tra i bracci della grande “T” dell’Alta Velocità italiana) e al mega polo esterno della Fiera.
Inoltre, dal punto di vista tecnico e di pianificazione, esistono tutti gli elementi perché possa decollare lo sviluppo del territorio circostante l’aeroporto (Piano d’area Malpensa) e perché possano essere gradualmente realizzate tutte le infrastrutture di trasporto necessarie (verso Milano e Orio al Serio, il Gottardo e il Sempione, Torino e Genova).

Quale soluzione?

Appare chiaro che la soluzione di questi tre punti è intimamente legata. Solo scegliendo una compagnia di riferimento si potrà ottenere un coinvolgimento dei privati, capace di affiancare un attore pubblico che difficilmente potrà farsi carico interamente del finanziamento delle opere infrastrutturali sopra richiamate.
Non è nell’interesse di nessuno che Alitalia fallisca. E se la compagnia italiana riuscirà ad uscire dalla crisi attuale, sembra destinata a raggiungere l’alleanza franco-olandese. Tuttavia, tale prospettiva pone a Malpensa un problema. La geografia stessa indica infatti che, al di là delle intenzioni di Alitalia, Malpensa sarebbe fagocitato da Parigi Charles de Gaulle: troppo vicini i due aeroporti, troppo bassa la capacità di contrattazione di Alitalia, troppo sviluppato l’hub parigino. Chi si prende dunque il mercato aereo del Nord Italia?

Sulla base di un quadro di fondo così tratteggiato, è possibile ipotizzare schematicamente uno scenario di questo tipo:

– abbandono da parte di Malpensa del legame con Alitalia, in favore di un vettore non continentale e concorrente rispetto agli aeroporti di riferimento dell’alleanza Skyteam e Star Alliance, meglio se asiatico: Malpensa hub europeo di AirChina?

Inoltre:
– definizione del ruolo degli scali dell’Italia del Nord attraverso l’avvio di uno stretto coordinamento tra la Sea e i gestori aeroportuali favorevoli;
– blocco di ogni prospettiva di sviluppo dell’aeroporto di Montichiari come ulteriore hub intercontinentale del Nord e progressiva riduzione di Linate ad aeroporto regionale.
-privatizzazione di Sea, cautelandosi rispetto a acquisizioni da parte dei concorrenti. In presenza di conflitti endemici tra diversi livelli amministrativi e partitici la privatizzazione della Sea, costituisce l’unica via per impostare una strategia di sviluppo svincolata dagli umori politici del momento.

All’Alitalia serve chiarezza, di Carlo Scarpa

Nel bloccare il salvataggio di Alitalia – se veramente è questa la sua intenzione – Giulio Tremonti ha ragione; è un atto di serietà. Ma la storia di Alitalia è complessa, e non abbiamo ancora capito come può andare a finire. E occorre proporre qualche alternativa (anche se il “no” è già un buon punto di partenza).

La storia di Alitalia, già raccontata anche su questo sito (vedi Ponti), è fatta di perdite che si cerca di tappare con provvedimenti di breve respiro e che ripetutamente la Commissione europea bolla come aiuti di Stato. E quando la società prova a mettere le mani a rimedi strutturali, montano gli scioperi e si cerca la soluzione politica. Ignorando che non c’è soluzione politica che possa consentire a un’impresa di stare su un mercato avendo costi superiori a quelli dei rivali, cambiando piani industriali ogni tre mesi, e fornendo un servizio di qualità ormai percepita dai consumatori come inferiore a quella degli altri. E Alitalia continua inesorabilmente a scivolare su una china in fondo alla quale non ci sono certo posti di lavoro.

Quanto costa il servizio pubblico?

Poco tempo fa, Mario Sebastiani su lavoce.info ha sottolineato come la privatizzazione totale di Alitalia sia l’unica strada per fare chiarezza, e la chiarezza è fondamentale se vogliamo riportare l’impresa sulla strada dell’equilibrio economico.
Da un lato, abbiamo rotte che “stanno in piedi da sole”, che sono redditizie e sulle quali Alitalia non avrebbe bisogno di particolari sussidi. Dall’altro, abbiamo rotte che invece vengono servite soprattutto, se non soltanto, per ragioni di equilibrio territoriale, per non isolare le periferie di questo complesso paese (le isole, ma non solo) dai suoi “centri”.
Se le prime possono essere lasciate al mercato, le seconde – costituendo un servizio “sociale” – dovrebbero essere invece pagate come gli altri servizi sociali di questo paese. Solo che questo richiede, intanto, di far sapere esplicitamente quanto costano, e poi di porre il problema di chi debba pagare per tale servizio. Potremmo magari scoprire che interessa una parte del territorio, ma non il resto. E in periodi di devolution, questi sono temi scottanti.
Si può lasciare Alitalia al mercato? Se si separa ciò che ha senso dal punto di vista della redditività dell’impresa da quanto invece è servizio pubblico, forse sì. O almeno, una volta effettuata tale separazione, se Alitalia dovesse affondare, le rotte non servite da Alitalia sarebbero comunque coperte da altre compagnie, che avrebbero a loro volta bisogno di lavoratori in più, e quindi non sarebbe un problema enorme. Se questa separazione avvenisse, sarebbe il mercato a dire se Alitalia merita di restare in vita, e il paese e i lavoratori andrebbero avanti comunque.
Se questa separazione non avviene, allora Alitalia resterà con un peso (il servizio pubblico in aree non redditizie) che rischia di affondare anche quanto di buono si annidasse in questo carrozzone. E continuiamo a vivere una contraddizione. Da un lato, mettiamo un’impresa nel mercato azionario; dall’altro continuiamo però a gravarla di obblighi simili al “servizio universale” a cui si assoggettano le imprese che vendono acqua, luce o gas, senza però dire chi dovrebbe pagare per tale obbligo. Peggio ancora, questo avviene in un settore che l’Unione europea (non solo la perfida Commissione) ha da tempo dichiarato aperto alla concorrenza, e ove gli aiuti di Stato non sono tollerati.
Come dicevo prima: occorre fare chiarezza. Occorre distinguere ciò che pertiene alla sfera del mercato, e ciò che invece pertiene alla sfera del servizio pubblico. Però per fare questo bisogna avere il coraggio di dire quanto costa servire le isole; quanto costa servire il Sud del paese, e magari convincere la Lega che probabilmente parte di questo deve essere pagato anche dal “Nord”.

Non facciamo previsioniÂ…

Anche se ritengo questa la soluzione (nel medio periodo) più sensata, non scommetterei un centesimo sul fatto che sarà quella prescelta.

Tempo fa, Guido Rossi definiva il capitalismo italiano un capitalismo “straccione”. È vero. Ma è anche un capitalismo – sempre – assistito e politicizzato. Purtroppo questo è vero per Parmalat (che per anni ha cercato di tenersi in piedi con appoggi politici), per Retequattro (salvata dal satellite dalla legge Gasparri), per le piccole imprese (leggi allevatori e quote latte, o società di calcio). Ed è vero per l’industria pubblica (leggi Alitalia). Ma l’elenco potrebbe continuare.

La chiarezza dei conti sembra essere un optional. E lo stesso Tremonti farà fatica a mantenere alta la guardia. Forse non è un caso che proprio un ministro della Lega (Roberto Maroni) preferisca un piano di salvataggio che mantiene l’attuale commistione tra mercato e servizio pubblico, che evita quindi la chiarezza, ma anche ad esempio di comunicare agli elettori del Nord quanto costa servire le zone meno avanzate del paese.

Perchè Alitalia resta a terra, di Mario Sebastiani

Si fa un gran parlare di Alitalia, come se rappresentasse l’unico motivo di preoccupazione del nostro paese in campo aereo. Lo stesso “tavolo” di settore attivato mesi fa dal Governo, iniziativa lodevole in astratto, in definitiva sembra avere come destinatario vero la sola compagnia di bandiera. Ma tutte le compagnie aeree italiane se la passano molto male, troppo piccole per essere competitive. Lo stesso vale per gli operatori aeroportuali, privi di certezze sul loro status, spesso carenti di cultura imprenditoriale e in deficit di trasparenza verso compagnie aeree o passeggeri.

Un paradosso italiano

Se le difficoltà del settore oggi hanno dimensione mondiale, in Italia assumono un aspetto paradossale. Le potenzialità di crescita della domanda di trasporto aereo sono considerevolmente più elevate che altrove e, diversamente dagli altri aeroporti europei, quelli italiani hanno capacità in eccesso. Esiste dunque una domanda sommersa da sfruttare e infrastrutture sufficienti a sostenerla, per quanto poco efficienti; ma sembra non esistano compagnie nazionali in grado di cogliere questa opportunità.
Alitalia rappresenta un problema nel problema: costi unitari più elevati, progressivo ritiro da una serie di collegamenti, perdita di quote di mercato su altri, con un circolo perverso attivato dalla tirannia dei costi fissi. E poi c’è Malpensa, hub senza speranze immediate, ma che obbliga la compagnia a dividere la già insufficiente massa critica di mezzi con Fiumicino.
A mio avviso, il management ha lavorato bene, anche se qualche errore lo ha commesso.

Ha avuto poco coraggio nel presidiare collegamenti in perdita, sottovalutando l’effetto domino, per cui se si abbandona un collegamento si finisce con il perdere traffico anche su altri. E forse c’è stata una certa mancanza di coraggio sul piano del costo del lavoro/sindacale, anche se questo va soprattutto attribuito ai condizionamenti politici. Le due cose hanno interagito, perché le opposizioni sindacali hanno tratto alimento anche dalla sensazione che gli esuberi fossero dovuti al ritirarsi progressivamente da una serie di mercati.
Ora il piano Alitalia sembrava andare nella direzione giusta. Nell’arco di un triennio, prevede di abbattere del 18 per cento i costi per posto offerto e di aumentare del 30 per cento la capacità, in parte consistente su collegamenti di lungo raggio. L’introduzione della cassa integrazione è un provvedimento salutare (lo sarebbe per l’intero settore dei trasporti) che può contribuire a sdrammatizzare nell’immediato le tensioni, anche se non risolve i problemi a lungo andare.

Un caso emblematico

E allora, perché cambiare cavallo proprio ora? Il motivo è lo stesso che ha decretato il declino della compagnia e del settore da quando la liberalizzazione ne ha rese evidenti le debolezze.
Da dieci anni il mercato su cui opera Alitalia è diventato contendibile, ma la società seguita a essere considerata come concessionaria di pubblico servizio, delegata a svolgere ruoli, come venditore e come acquirente di servizi, in nome e per conto dello Stato, entità che da noi è tradotta in “Governo”. Di qui la missione di massimizzare il consenso sociale e territoriale, in base al noto teorema per il quale una società di proprietà pubblica che genera tensioni sociali fa perdere voti nell’immediato, mentre non li fa guadagnare se è in utile, per lo meno non entro un orizzonte temporale rilevante.

Sotto questo profilo l’Alitalia è un caso emblematico dei molti conflitti di interesse che si annidano nei tanti ruoli che lo Stato si trova a svolgere. A cominciare dalla difficoltà di identificare l’azionista pubblico: teoricamente è il Tesoro che dovrebbe avere come obiettivo quello di massimizzare il valore dell’azienda. In realtà è il Governo, la cui collegialità costituisce la stanza di compensazione dei mille obiettivi che si pretende di assegnare alla compagnia.
E ci stupiamo se gli alleati europei pretendono che la società sia privatizzata prima di costituire un’alleanza? In generale la privatizzazione non è un toccasana, ma nel caso specifico porterebbe a due risultati essenziali:

· tracciare una chiara demarcazione fra i servizi che vanno svolti in regime di mercato (pagano i passeggeri) e quelli da sussidiare (paga la fiscalità generale). Se un’impresa ritiene non conveniente un servizio deve essere libera di sopprimerlo; se altri non subentrano spontaneamente interviene lo Stato con incentivi non discriminatori;
· attribuire alla politica il ruolo che le spetta: indicare le linee industriali del settore (non della compagnia);

Fatto questo, le relazioni industriali rientrerebbero nella normale dialettica fra le parti sociali.
E resterebbero distinte due figure che oggi si confondono: gli shareholders dagli stakeholders, posto che oggi gli italiani tutti si sentono azionisti; peggio, si sentono soci di un’associazione da cui pretendono servizi personalizzati.

La privatizzazione necessaria

In questo contesto una parziale privatizzazione è inimmaginabile: come può esistere un soggetto privato serio (disposto a investire soldi veri) desideroso di entrare in società con lo Stato? Più fattibile una privatizzazione totale: le difficoltà industriali ed economiche della compagnia sono un rischio valutabile, che ovviamente andrebbe scontato dal prezzo, con conseguente sacrificio per l’azionista uscente.
Naturalmente questo suscita lo spauracchio della mano straniera, della compagnia di bandiera “non più” di bandiera. Per inciso, questo spauracchio è stato agitato anche per altri settori, e la giusta richiesta di reciprocità verso gli altri Stati non sembra essere stata dettata tanto dall’obiettivo di offrire alle nostre aziende le stesso opportunità all’estero che riconosciamo a quelle straniere, quanto dall’inclinazione ad attivare un processo di reciproca interdizione.

Con la privatizzazione sarebbe possibile attivare le alleanze, complemento essenziale per ogni ipotesi risanamento e di sviluppo. È questa la via da seguire anche sul mercato domestico, dove le altre compagnie sono destinate a scomparire se non si va verso una logica di integrazione.
Sappiamo bene che su questa strada si va incontro ai rilievi delle Autorità antitrust, in particolare di quella italiana. Ma se è vero che il diritto della concorrenza deve assicurare il pluralismo, è anche vero che se si disconoscono le logiche industriali pluralismo e competitività verranno comunque meno, e con esse lo sviluppo e la tutela degli utenti.

Appartiene dunque alla politica europea e nazionale ricercare un nuovo equilibrio fra istanze che appaiono contrapposte, inclusa l’armonizzazione delle discipline e delle prassi antitrust.
Bisogna promuovere aggregazioni fra le compagnie (sostituire la concorrenza con la cooperazione) fino ad arrivare a pochi gruppi internazionali, ma al tempo stesso creare le condizioni per una concorrenza vera fra i gruppi.

Vola solo il deficit, di Marco Ponti

Alitalia perde 50mila euro all’ora. Ma negli ultimi quindici anni ha visto pochi bilanci in attivo, e a volte solo grazie ad artifici contabili. Questo, anche negli anni in cui era monopolista, con tariffe molto alte.

Una fotografia della situazione

Quanto è costato agli italiani il monopolio in questi anni? Difficile fare i conti: ma poiché le tariffe “low cost” sono circa un terzo di quelle delle compagnie tradizionali, la stima dell’ordine di grandezza è possibile. E si immagini gli effetti sulla crescita complessiva del settore, e dell’occupazione (la domanda è molto elastica alle tariffe).
Con l’avvento di una (modesta e incompleta) liberalizzazione, le tariffe hanno iniziato a scendere, e la crisi, già nota e segnalata dagli studiosi del settore, è diventata “conclamata”.
Le cause più evidenti sono da ricercarsi nella bassa produttività del personale e dei mezzi, una politica tariffaria divenuta dinamica solo da poco, una flotta “arlecchino”, con moltissimi tipi di aereo, e alcune scelte incomprensibili (in particolare il trireattore MD11).

Il settore rimane caratterizzato inoltre da costi elevati sia per i servizi aeroportuali (non liberalizzati nonostante i richiami della Commissione europea) che per quelli del controllo del traffico aereo, mai regolati in modo efficiente.
Rimangono, poi, importanti segmenti non liberalizzati: i voli intercontinentali e i diritti di atterraggio (“slots aeroportuali”) più redditizi, proprietà esclusiva della compagnie di bandiera. Senza tali protezioni pubbliche (assimilabili di fatto a sussidi), molte compagnie di bandiera sarebbero già uscite da tempo dal mercato, e non solo in Italia.

Da notare che la dominanza della compagnia di bandiera (che detiene più del 50 per cento del mercato) genera “scioperi selvaggi”. Tali scioperi in un mercato concorrenziale farebbero rischiare il fallimento della compagnia che non riuscisse a evitarli.
Nel caso di un produttore dominante paralizzano il paese, e quindi conferiscono un potere improprio per chi li promuove. È esattamente quanto accade nel trasporto pubblico locale, anch’esso caratterizzato da scioperi selvaggi che fermano le città.
Il monopolio quindi non garantisce la pace sociale, anzi si può affermare il contrario.

Una scelta di sviluppo

Che fare ora, con una situazione così deteriorata? La privatizzazione, sempre annunciata e sempre rimandata, sembra indispensabile, per rimettere nella gestione obiettivi di efficienza, “allontanando” le interferenze politico-clientelari.
Il cambio del management ora sembra immotivato (o peggio, ancora motivato da ragioni di controllo politico). Potrebbe essere giustificato solo se il nuovo vertice fosse scelto in base a un piano industriale più convincente di quello ora sul tavolo, ma non ci sono segnali in questo senso.

Ma il problema più di fondo, da molti sollevato, è quale politica complessiva perseguire per il settore.
Le alternative sono sempre le stesse: o una politica “colbertiana”, di rinnovata tutela del “campione nazionale”, o una politica che punta allo sviluppo di un contesto davvero concorrenziale, proteggendo gli utenti invece che i produttori, e favorendo la crescita complessiva del settore.
La prima strada punta a rafforzare le alleanze internazionali. Il loro scopo primario, si badi, non è il bene dei viaggiatori, ma la capacità di premere su Bruxelles per mantenere posizioni di privilegio nelle condizioni di apertura del mercato in corso di negoziato con gli Usa. Si tratta cioè di costituire “compagnie di bandiera europee” al posto di quelle nazionali. Questa strategia comporterebbe poi il mantenimento allo Stato di una “golden share”, che segnali la posizione di privilegio di Alitalia, e lo spostamento dei voli da Linate a Malpensa, in modo da ridurre la concorrenza sui voli intercontinentali, a danno dei milanesi (e delle città del Sud).

In passato, in questo modo non si è generata né efficienza né capacità di competere. Perché dovrebbe accadere ora?
La strada alternativa è quella di accelerare la privatizzazione senza “golden share”, e premere sull’Europa perché si acceleri la reale liberalizzazione del settore (l’Italia ha sempre agito in senso contrario, con i risultati che si vedono). La liberalizzazione dei servizi aeroportuali, e una regolazione efficiente delle concessioni (richiesta anche dall’antitrust) e del controllo del traffico aereo dovrebbe ridurre molti costi impropri.
Il settore è in rapida evoluzione con l’avvento delle compagnie “low cost”, che dovranno anche poter oprare sui servizi extra-Europa. Cosa abbiamo da perdere? Perché non scommettere su una Ryanair italiana tra qualche anno?
C’è solo da rammaricarsi che queste cose si scrivevano già cinque anni fa, in un contesto assai meno compromesso.

Alitalia: un’Italia senza ali, di Marco Ponti

Le recenti imbarazzanti vicende dell’Alitalia, ma soprattutto i disagi dei cittadini che devono servirsene, sollecitano qualche riflessione di carattere generale sul settore, senza soffermarsi solo su un episodio di ordinario malcostume.

Lo scenario

L’11 settembre, la guerra irachena, e infine la Sars hanno accentuato una crisi del comparto aereo in atto da tempo su scala mondiale: la United Airlines prossima al fallimento, la Sabena e la Swissair chiuse, Alitalia con bilanci in rosso da un decennio, e il ricorso di molte compagnie di bandiera europee agli aiuti di Stato (ogni volta l’ultimo, si intende). Ma la crisi è crisi delle “grandi compagnie storiche”, perché nel frattempo le nuove compagnie “low cost” sono cresciute e hanno anche realizzato ingenti profitti. E ciò nonostante l’opposizione, oltre che delle compagnie di bandiera “attaccate”, anche dei Governi. E senza risparmi in fatto di sicurezza perché le compagnie “low cost” attribuiscono a questo fattore una priorità molto elevata per la semplicissima economica ragione che nel loro caso un incidente sarebbe sicuramente attribuito dai “media” a insufficiente manutenzione, con conseguenze devastanti.

Caratterizzato da crisi profonde anche nei decenni precedenti (si pensi alla scomparsa delle maggiori compagnie “storiche” statunitensi (Twa, Eastern e Pan American), il settore affronta quindi un cambiamento strutturale, seppure ancora in presenza di elevate protezioni per le compagnie maggiori, sia negli Stati Uniti che, soprattutto, in Europa. Il regime degli “slots” (il diritto di operare servizi in certe ore su certe rotte) non è stato mai liberalizzato, così come sostanzialmente rimangono vincolati alle grandi compagnie i servizi intercontinentali (e infatti le compagnie “low cost” non operano in questo campo). Inoltre, sia negli Usa che in Europa permangono vincoli molto stringenti per i regimi proprietari, che sono negati a soggetti “esterni”.

Una debolezza strutturale

Di questa debolezza strutturale del settore sono state tentate molte spiegazioni. Vediamone due, tanto recenti e accreditate quanto poco convincenti. La prima (cfr. “The Economist” 3-9 maggio 2003) sostiene che il problema è essenzialmente legato a dimensioni aziendali insufficienti: basterebbe accentuare (e consentire) fusioni e concentrazioni per garantire la prosperità del settore (in analogia con quello automobilistico). Ma qui le “economie di scala” hanno un ruolo molto più incerto, come dimostra il fatto che sono le compagnie di maggiori dimensioni ad avere sofferto di più la crisi in Usa (e in Europa). Anche il fenomeno della crescita delle compagnie “low cost” contribuisce a smentire questa tesi.

La seconda spiegazione si fonda sui costi eccessivi del carburante, del lavoro, dei servizi aeroportuali, del controllo del traffico aereo, ecc., (cfr. “Volare” maggio 2003), ma la crescita delle compagnie “low cost” sembra indebolire l’argomentazione. Gli aumenti di costi, se reali, hanno colpito tutto il settore: le “low cost” sono sfuggite in Europa solo all’esosità dei grandi aeroporti, ma non alle altre voci, di fatto preponderanti.

E comunque non è chiaro perché tali maggiori costi non possano essere trasferiti all’utenza finale, in forte crescita sul lungo periodo (per confermare tale “non trasferibilità”, si ricorda che il settore ha avuto redditività molto modeste fino dagli anni Settanta, pur con crescita impressionante del traffico servito).

Sembrerebbe invece che la fragilità del settore sia determinata dalla combinazione di due fattori: caratterizzato da bassi profitti e con una domanda fluttuante nel breve periodo, il settore si dimostra inoltre a offerta rigida, come se prevalessero i costi fissi. In altre parole, sembra che la crisi sia connessa a esuberi di capacità strutturali, anche se periodici. Questa spiegazione si adatta bene all’Europa: grandi compagnie semipubbliche e inefficienti (da cui i bassi profitti), con offerta rigida per ragioni politiche (iper-tutela del lavoro, “immagine nazionale” da sostenere).

Ma forse è possibile riscontrare elementi di rigidità dell’offerta anche nelle grandi compagnie americane. Possono essere legati alla necessità del controllo sui segmenti più redditizi della rete (gli “slots” strategici non liberalizzati richiedono la non interruzione, neppure temporanea, del servizio, pena l’avvento di concorrenti. È la logica che discenda da un regime noto come “grandfathers’right”). A ciò si può aggiungere per estensione la necessità del controllo di interi aeroporti “hub” (cioè nodo della rete dei servizi, e spesso sede amministrativa e tecnica della compagnia dominante), come Atlanta, Denver, Chicago. La posizione dominante in un aeroporto ha anche risvolti politici: garantisce posti di lavoro o servizi alla comunità locale che è generalmente proprietaria dell’aeroporto, e che “ricambia” garantendo proprio la dominanza. Ridurre i voli nei periodi di crisi può incrinare le alleanze costituite, aprendo così le porte ai concorrenti (si pensi ai complessi rapporti tra Sea, Aeroporti di Roma e Alitalia, per un esempio più vicino a noi).

Il caso Alitalia

Per quanto riguarda il nostro Paese, Alitalia è in sofferenza ormai da più di dieci anni, con bilanci in perdita nonostante le elevate tariffe e la protezione di cui gode (slots, voli intercontinentali). La crisi attuale mette in moto pressioni per ridurre alcuni costi (aeroportuali e di controllo del traffico aereo). Sono costi da monopolio naturale che vanno ridimensionati, e di molto, con una buona regolazione pubblica mirata a incentivare drasticamente l’efficienza delle gestioni. In questi giorni il tentativo di riduzione del costo del lavoro, con la contrazione del personale di bordo, ha dato luogo a forme di protesta inaccettabili, indicative di relazioni industriali improprie e tipiche di aziende abituate a regimi clientelari (per inciso, un contesto più concorrenziale ridurrebbe grandemente l’impatto di tali proteste anomale sugli utenti, grazie a un’offerta di servizi meno concentrata).

Ma a livello europeo occorrerebbe “approfittare” dell’attuale crisi per liberalizzare il settore, invece che per rafforzarne le barriere monopolistiche (c’è una proposta all’attenzione della Commissione europea di “congelare” gli slots non usati dalle compagnie maggiori, a danno delle compagnie “low cost” che potrebbero accedere a rotte e aeroporti più appetibili).

Si potrebbe pensare a sostegni economici (“una tantum” per davvero, questa volta) concordati a livello europeo anche per bilanciare gli analoghi interventi in Usa. In cambio si dovrebbe avviare una reale privatizzazione e apertura del sistema a nuovi soggetti, che già hanno creato grandi benefici agli utenti europei con la loro efficienza. Tali sostegni economici avrebbero il significato di “viatico”, cioè sarebbero connessi alla sostanziale cessazione della presenza pubblica nel settore (se non a fini regolatori a difesa degli utenti), e potrebbero servire anche a tutelare gli addetti delle compagnie che fossero costrette a drastici ridimensionamenti.

Infine, la crescita delle compagnie “low cost” significa occupazione e domanda di nuovi aerei, in altre parole uno sviluppo del settore che i grandi “elefanti bianchi” del passato non sembrano più in grado di garantire. A quando una “Ryan Air” italiana?

Il magico mondo delle ferrovie, di Carlo Scarpa

C’erano una volta le Ferrovie dello Stato. Funzionavano bene o male, a seconda, ma almeno non cercavano di “gabbare” i passeggeri. Ora tutto è cambiato, e forse anche quest’ultima convinzione dovrebbe essere messa in discussione. Permettetemi di raccontare un paio di storie.

L’interregionale dei desideri

Cerco di fare un biglietto da Pordenone a Brescia. Mi dicono che all’ora che mi interessa devo cambiare a Mestre (vero) e che posso prendere solo l’Eurostar. Obietto: guardi che mi hanno detto che c’è un Intercity. Il bigliettaio mi guarda un po’ torvo, finge di faticare un po’ al terminale, e mi fa il biglietto Intercity (treno che partiva prima dell’Eurostar, si noti.). Stava cercando di farmi arrivare dopo, facendomi pagare più del necessario? Strano.

Cerco poi altri treni alla biglietteria automatica, e noto che sistematicamente, per andare da A a B, ti suggeriscono sempre se possibile l’Eurostar o l’Intercity, nascondendo gli interregionali fin quando possibile, ovvero te li propongono per la tratta minima.
Esempio? Per andare da Mestre a Treviglio (che è tra Brescia e Milano) si può andare in Intercity fino a Brescia, e poi prendere l’interregionale (che viene da Verona) per l’ultimo pezzetto; oppure prendere l’Intercity solo fino a Verona, e poi salire sullo stesso interregionale di cui sopra fino a Treviglio. Orari di partenza e di arrivo sono gli stessi. Ma la “macchinetta” ti nasconde la seconda combinazione, proponendo solo la prima, che ha una tratta Intercity più lunga, e quindi costa di più. Ripeto: a parità di orari di partenza e arrivo.
Il dubbio che effettivamente stiano cercando di far pagare al cliente più del necessario si rafforza. Esempi di questo tipo, da pendolare “storico” e cliente “affezionato” delle nostre ferrovie ne potrei fare tanti, ma mi sono chiesto se stavo sviluppando una mia paranoia, o se c’era qualcosa di vero in quanto osservavo. E ho cominciato a chiedere.

A ciascuno la sua Divisione

La separazione tra chi gestisce la rete (i binari, eccetera, Rfi) e chi gestisce il “materiale rotabile” (i treni, Trenitalia) è nota da tempo, sulla scorta di una qualche moda politica e intellettuale, secondo la quale si può avere sufficiente concorrenza tra diverse compagnie ferroviarie da più che compensare gli intuibili scompensi, frammentazione di responsabilità e così via, che la separazione comporta. Speriamo sia vero.
La cosa meno nota è che in questa riorganizzazione sono state effettuate ulteriori suddivisioni all’interno di Trenitalia, che è articolata non in vere e proprie società, ma in “divisioni”, che non solo non si coordinano come dovrebbero, ma hanno proprio interessi divergenti.
Per quanto ci riguarda più direttamente, da una parte abbiamo la “Divisione passeggeri”, a cui fanno capo tra l’altro Eurostar, Intercity e la maggior parte delle biglietterie; dall’altra, troviamo la “Divisione trasporto regionale”, ove stanno invece i treni regionali e interregionali. A parte il dubbio gusto nella scelta del nome (sono passeggeri pure le persone che viaggiano sui treni regionali) dove sta il problema? Facciamo un paio di esempi.

Ogni divisione ha i suoi treni e i suoi centri di manutenzione. In Lombardia, i due centri di manutenzione ancora aperti sono destinati uno ai treni merci (“Divisione cargo”, che meriterebbe un altro articolo), l’altro agli Intercity e Eurostar (della Divisione passeggeri). I locomotori del trasporto regionale vengono sottoposti a manutenzione un po’ da una parte e un po’ dall’altra, “ospiti” delle altre divisioni. Lo stato dei mezzi alimenta il sospetto – che ambienti sindacali non provano neppure a soffocare – che ciascuna divisione privilegi la manutenzione dei propri mezzi, a scapito di quelli regionali.

Secondo esempio? Quello dei biglietti. Poiché il grosso delle biglietterie appartiene alla stessa “Divisione passeggeri” insieme agli Intercity, mentre gli interregionali “stanno da un’altra parte”, può capitare (capita spesso) che, appena ci riesce, una biglietteria vi vende un biglietto per l’Intercity e non per il meno costoso interregionale.
Infatti, ogni divisione ha i suoi obiettivi distinti di ricavo, e se una di queste biglietterie vende un biglietto per un interregionale invece di uno per Intercity, una parte del ricavato passerà alla “Divisione trasporto regionale”, ovviamente a scapito degli obiettivi di reddito della “Divisione passeggeri”.
Morale? Abbiamo trasformato un’impresa statale che non pareva avere limiti nella capacità di bruciare denaro pubblico in un’impresa che cerca di perseguire l’utile (siamo realisti, basterebbe una riduzione delle perdite) con successi tra l’altro discutibili.

Non ho nostalgie per il passato, ma si vorrebbe almeno una qualche tutela per i passeggeri.
Perfino quelli dei treni locali, che forse non riguardano la “Divisione passeggeri”, ma non sono ancora bestiame.
A quando un’autorità per i trasporti che controlli quello che si sta facendo in questo settore alle spalle degli utenti? Per ora c’è solo una supervisione “tecnica”, effettuata tra l’altro dalla Rete ferroviaria italiana, anch’essa del gruppo Trenitalia.
Se tutti gli altri settori, una volta orientati al mercato, sono stati assoggettati a un controllo indipendente, cosa stiamo aspettando per i trasporti ferroviari?

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