Su lavoce.info, il dibattito sulla linea ferroviaria ad alta velocità tra Torino e Lione è iniziato ben prima che la questione diventasse nazionale. E unopera strategica? I contrari ritengono che i costi sarebbero ben più alti dei benefici. E che altre infrastrutture sono ben più urgenti. Daltra parte, il progetto potrebbe essere rimodulato in funzione della sola domanda merci, riducendo così i rischi di una domanda insufficiente. Anche perché non è affatto certo che riesca a liberare le valli piemontesi dai Tir. Ma cè anche chi sostiene che con la Tav si avrebbe un miglioramento delle condizioni ambientali, mentre rinunciarvi comporta una perdita di competitività e di quote del commercio mondiale.
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Un nostro sondaggio ha confermato che i giovani italiani continuano a essere filo-europei e voterebbero a favore del Trattato costituzionale. Perché hanno poca fiducia nel nostro sistema politico e nelle nostre istituzioni e l’Europa piace perché ci protegge dai nostri stessi errori. Eppure, il nuovo Patto resta troppo indulgente verso alcuni paesi. Affidare il giudizio sul rispetto delle regole all’Ecofin è svantaggioso per noi. Perché senza la garanzia che i deficit eccessivi siano osservati da vicino da un’istituzione indipendente, le agenzie di rating alzeranno lo spread sui titoli italiani. Se poi si vuole rilanciare la crescita economica, va attuato il processo di riforme strutturali di Lisbona.
Oggi alla Camera si vota per la riforma costituzionale del Polo. E’ il secondo passaggio. Dopo resta solo l’approvazione definitiva da parte del Senato. Ma non è chiaro se la riforma sarà mai applicata.
Riproponiamo ai lettori una serie di interventi che lavoce.info ha offerto in tema di concorrenza e antitrust.
In vista del tavolo con le parti sociali, riproponiamo ai lettori una serie di interventi che lavoce.info ha dedicato al decreto del Governo in tema di trasferimento del Tfr ai fondi pensione.
In Italia e in Europa le l’idea di incoraggiare la ricerca e l’innovazione è ormai diventata un luogo comune del dibattito politico. MA non c’è identità di vedute su come fare. Proprio in questi giorni (luglio 2005), ad esempio, in Europa si discute di politiche per la brevettabilità del software e, più in generale, della tutela dei diritti di proprietà intellettuale.
Gli articoli in questa monografia trattano di questi temi offrendo punti di vista anche differenziati sulle politiche da adottare e – comunque – tanti spunti per riflettere.
Il software è un’opera dell’ingegno, tutelata dal diritto d’autore. Non serve permetterne la brevettazione, come si chiede ora anche in Europa sull’esempio americano. Intanto, il brevetto è uno strumento sempre meno utile a incentivare l’innovazione. Nel caso del sofware non accelera il processo di diffusione delle conoscenze né ci sono da ripagare ingenti investimenti iniziali. Infatti, vi si affidano soprattutto le imprese più grandi e meno innovative, spesso con l’intento di bloccare le invenzioni altrui, più che di proteggere le proprie.
Perché il software non ha bisogno del brevetto
Raimondello Orsini e Massimo Portolani
Il software è unopera dellingegno, tutelata dal diritto dautore (copyright). Viene inoltre commercializzato con un nome o marchio depositato: oggi quindi unimpresa che sviluppa software è già protetta dal diritto dautore e dalla legge sui marchi industriali. Negli Usa, a partire dalla fine degli anni Ottanta, si è ritenuto di permettere anche la brevettazione del software: proteggere quindi non più solo il programma (la forma nella quale è scritto), ma anche la funzione che assolve. LEuropa si sta interrogando sullopportunità di seguire gli Usa su questa strada. Tra i motivi che inducono a rispondere negativamente si intrecciano sia ragioni generali che rendono il brevetto in sé uno strumento sempre meno utile a incentivare linnovazione, sia ragioni specifiche che rendono il software inadatto al brevetto.
Le ragioni del brevetto
La concessione del brevetto è finalizzata a incentivare linnovazione, che viene remunerata dai profitti monopolistici, e ad accelerare il processo di diffusione delle conoscenze, tramite il disvelamento, o “rivelazione dellinsegnamento inventivo” contestuale al deposito del brevetto.
Entrambe queste motivazioni sociali sembrano mancare nel caso del software. Lequazione “maggiore protezione uguale maggiore incentivo a innovare” solitamente non vale se le innovazioni hanno natura sequenziale (ovvero si appoggiano su innovazioni precedenti, avendo carattere complementare o incrementale): ampliare la protezione può avere un effetto deterrente superiore alleffetto incentivante (si incentiva il primo innovatore, ma si disincentivano i potenziali innovatori successivi). Riguardo al disvelamento, la brevettazione del software così come intesa negli Usa permette allinnovatore di depositare il software senza svelarne il codice sorgente. È quindi scarso il beneficio che la società riceve come corrispettivo alla concessione del monopolio. Il brevetto ricompensa chi ha ottenuto linnovazione impiegando ingenti risorse in un progetto complesso e rischioso, investimenti che necessitano di anni di protezione monopolistica per essere recuperati (per esempio, nel settore farmaceutico). Lo sviluppo di soluzioni software non ha questi requisiti. Risolvere un problema con un algoritmo richiede delle valutazioni astratte e capacità creativa, non investimenti. Anche per questo è stato finora escluso dalla brevettabilità, come gli algoritmi matematici. Inoltre, la complessità delloggetto software è tale da non consentire un facile giudizio sia in sede di deposito del brevetto, sia in caso di contenzioso: difficilissimo accertare i requisiti di novità e non ovvietà, necessari perché il brevetto sia valido. Negli Usa, visto che lUspto si finanzia con le tasse di deposito, il brevetto viene concesso praticamente sempre, e la sua validità viene valutata in tribunale, dove il detentore si ritiene autorizzato a trascinare coloro che considera illegali imitatori. Lesplosione della litigiosità brevettuale – che non riguarda solo il software – costituisce un problema economico rilevante: le risorse spese nel deposito di brevetti inutili e nelle cause legali da questi generate sono spese di rent-seeking che non creano alcun valore per la società. Uno spreco di risorse di cui beneficiano solo gli studi tecnico-legali. (1)
A chi è utile
La natura burocratica e costosa dellattività di brevettazione fa sì che a essa si affidino soprattutto le imprese più grandi e paradossalmente meno innovative, spesso con lintento non di proteggere le proprie invenzioni, ma di bloccare quelle altrui. La possibilità di essere trascinati in costose cause legali è in grado di scoraggiare sia le numerose piccole imprese che operano in ambito proprietario, sia la miriade di operatori che collaborano al circolo virtuoso dei progetti Open Source. Lincertezza, i lunghi tempi dei processi e limpegno finanziario sono unarma nelle mani delle grandi imprese detentrici di brevetti (validi o no), per indurre altre imprese ad accettare accordi extragiudiziali che possono anche implicare restrizioni della concorrenza. La legislazione sul diritto di proprietà intellettuale deve essere chiara e ridurre le incertezze. La concessione di brevetti dalla validità opinabile non va evidentemente in questa direzione.
In Europa ci sono poche grandi case di software che non siano distributrici o sussidiarie di grandi imprese americane. Queste non aspettano altro che l’estensione dei propri brevetti ai paesi europei. A desiderare un esito simile, possono essere solo la potente lobby degli avvocati o i funzionari dellEuropean Patent Office (Epo), i quali hanno pensato bene di organizzare, il 30 marzo 2005, un Information Day presso il Parlamento europeo. http://events.european-patent-office.org/2005/0330/ Tra le motivazioni della “urgenza” della brevettabilità del software ve ne è una davvero singolare: il Parlamento europeo deve legiferare in proposito, perché ormai lEpo ha già concesso più di 30mila brevetti in ambito software (in palese violazione della normativa vigente: “la prassi ha ormai scavalcato i vincoli normativi”). Resta da vedere se il Parlamento è ancora sovrano, o deve limitarsi a recepire le pressioni dei lobbisti avvallandone i comportamenti mediante modifiche legislative che ne sanino gli abusi.
Per saperne di più
Sul ruolo controproducente dei brevetti, si veda J. Bessen- E. Maskin (2000), “Sequential innovation, patents, and imitation”, Working Paper del Mit: http://www.researchoninnovation.org/patent.pdf .
(1) Per rendersi conto direttamente dellesplosione del numero dei brevetti depositati negli Usa senza avere i requisiti di novità e non ovvietà, si può consultare il sito ufficiale Uspto: http://patft.uspto.gov/netahtml/search-adv.htm facendo una ricerca con parole chiave come “computer” o “internet”.
LEuropa potrebbe risolvere la diatriba tra fautori e critici della brevettabilità del software istituzionalizzando la Generalized Public License. E’ il contratto principe dell’open source e impone a chi migliora un programma open di mettere a disposizione il codice sorgente dei nuovi apporti. E’ anche facilmente applicabile ad altri contesti. Questa soluzione stimolerebbe la concorrenza tra i due sistemi: chi inventa potrebbe scegliere tra brevettare o mettere le proprie innovazioni in campo aperto.
Licenza d’innovare
Alfonso Gambardella
Il 7 marzo, il Consiglio sulla competitività della Commissione europea ha rimandato al Parlamento il testo della “direttiva sulla brevettabilità del software“. È latto più recente di una diatriba che va avanti dal 2002, da quando Commissione e Parlamento si rimpallano il documento a suon di emendamenti in cui la prima amplia ciò che può essere brevettato come software e il secondo lo restringe.
Chi brevetta. E chi no
Per entrare nel merito della disputa, possiamo valutare lesperienza degli Stati Uniti, che hanno avviato la brevettazione “forte” sin dai primi anni Ottanta.
I problemi sono la crescita dei brevetti mirati non tanto a proteggere le proprie invenzioni quanto a bloccare quelle degli altri e il grande aumento delle citazioni in giudizio su questioni brevettuali. Daltra parte, brevetti più forti non sembrano aver scoraggiato le piccole-medie imprese high-tech. Sam Kortum e Joshua Lerner mostrano che nella seconda metà degli anni Ottanta, la quota di imprese che non avevano brevettato nel quinquennio precedente è aumentata rispetto alla seconda metà degli anni Settanta. Brownyn Hall e Rosemarie Ziedonis documentano entrambi gli effetti nei semiconduttori. E mostrano che leffetto dellaumento della litigiosità brevettuale e dei “blocking patent” è più marcato degli stimoli alle piccole-medie imprese innovative. Jim Bessen e Robert Hunt ottengono risultati analoghi proprio nel software. Anzitutto, i brevetti delle grandi imprese manifatturiere sono aumentati molto di più di quelli delle imprese di software: secondo i loro dati, le prime impiegano l11 per cento dei programmatori e analisti di software e detengono il 75 per cento dei brevetti, mentre le seconde impiegano il 33 per cento dei programmatori e analisti e posseggono il 13 per cento dei brevetti software. Una differenza così marcata nella produttività brevettuale non può essere spiegata da differenze di efficienza, ma solo da differenze nella propensione a brevettare. Inoltre, Bessen e Hunt mostrano che, a parità di altre condizioni, le imprese con una maggiore propensione a brevettare hanno una intensità più bassa di ricerca & sviluppo (R&S). Un brevetto più forte, che protegge meglio chi brevetta nella difesa delle proprie innovazioni, rende la R&S più remunerativa, e dunque dovrebbe aumentarla e non diminuirla. Il sospetto è perciò che i brevetti non servano a proteggere le proprie innovazioni, ma a qualcosaltro, e probabilmente ad avere più potere contrattuale rispetto ai concorrenti e a bloccarne le innovazioni.
Il modello open source
Insomma, gli Stati Uniti sembrano essersi spinti un po troppo in là. E, in effetti, due rapporti della Federal Trade Commission e della National Academy of Science suggeriscono strade per riequilibrare il sistema. Ora, la posizione della Commissione è più articolata di quanto gli oppositori della direttiva sostengono. La direttiva metterebbe solo ordine in una materia in cui non cè disciplina in Europa e, comunque, lUfficio brevetti europeo sta brevettando software da tempo senza guida da parte del legislatore. Inoltre, come ribadito l8 marzo di fronte al Parlamento dal commissario alla Direzione mercato interno e servizi, Charlie McCreevy, la direttiva non consente di brevettare nulla che non sia già brevettabile oggi, ed è fatta in modo da consentire di brevettare soltanto contributi tecnologici importanti.
Lesperienza Usa ha mostrato però che la corsa alla brevettazione e laumento delle citazioni in giudizio sono stati un fenomeno troppo grande e socialmente costoso per sentirsi rassicurati dalle parole di un Consiglio comunitario, per quanto autorevole. Al tempo stesso, lopen source è un modello nuovo e interessante di produzione del software, sta realizzando progetti e innovazioni utili per la società e andrebbe incoraggiato.
Perché non pensare anche a una direttiva che istituzionalizzi la Generalized Public License (Gpl)? La Gpl è il contratto principe dellopen source che impone a chi contribuisce a un programma open, del quale viene cioè messo a disposizione pubblicamente il codice sorgente, di mettere a disposizione il codice sorgente dei relativi miglioramenti. Il modello potrebbe essere adottato in contesti diversi e difatti si sta diffondendo in altri sistemi tecnologici, come le biotecnologie. La direttiva potrebbe definire il meccanismo e in particolare lestensione del vincolo di pubblicità dei miglioramenti a valle, standardizzare le caratteristiche dei contratti Gpl, articolarne la tipologia e assicurarne il rispetto. Al di fuori del software, la Gpl potrebbe imporre pubblicità e licenze non esclusive sui migliormenti di uninnovazione.
La direttiva stimolerebbe poi la concorrenza tra i due sistemi. Chi inventa può brevettare o mettere le proprie innovazioni in campo aperto. Il meccanismo va studiato e precisato, ma sarebbe una bella innovazione istituzionale europea, una volta tanto in anticipo e non a rimorchio degli Stati Uniti.
Per saperne di più
Bessen, J. e R. Hunt (2004) “An Empirical Look at Software Patents”, Working Paper 03-17, Federal Reserve Bank of Philadelphia.
Gambardella, A. e B.H. Hall (2005) “Proprietary vs Public Domain Licensing in Software and Research Products”, NBER Working Paper 11120, www.nber.org.
Hall, B.H. e R. Ziedonis (2001) “The Patent Paradox Revisited: Determinants of Patenting in the US Semiconductor Industry, 1980-1994”, Rand Journal of Economics 32 (1), 101-128.
Kortum, S. e J. Lerner (1999) “What is Behind the Recent Surge in Patenting”, Research Policy 28, 1-22.
Link ai rapporti Ftc e Nas:
http://www.ftc.gov/opp/intellect/
http://www7.nationalacademies.org/ocga/briefings/Patent_system_21st_Century.asp
Si può trasferire l’esperienza dellopen source in campo informatico ad altri aspetti del progresso tecnologico? A dispetto del problema del free-riding, la ricerca sullo sviluppo di un input comune a più processi produttivi può risultare addirittura maggiore in un contesto di General Public Licence rispetto a un regime di monopolio protetto da brevetto. Accade quando si ha un effetto di accrescimento del profitto totale dell’industria dovuto a un miglioramento tecnologico dell’input comune. Ciò suggerisce una nuova politica della brevettabilità.
Oltre Linux
Philippe Aghion e Salvatore Modica
Il dibattito sull’open source, o più propriamente sulla General Public Licence, è generalmente centrato sul software, dove in termini di miglioramento del prodotto la Gpl ha dato risultati estremamente positivi, in particolare con Linux.
Lavoce.info ha già discusso gli aspetti fondamentali del problema negli articoli di Gambardella e Santarelli-Bono. (LINK) Vorremmo aggiungere qualche commento su unaltra questione: cosa possiamo astrarre dall’esperienza di Linux pensando al progresso tecnologico in generale, non necessariamente “digitale”?
I due problemi dellopen source
Conviene tener distinte le due fasi principali del ciclo di vita di un nuovo prodotto: (i) la nascita, con linvenzione primaria (per il software si pensi alla versione 0.01 di Linux, che Linus Torvalds mise in giro a beneficio di un centinaio di hackers, o al sistema Dos di Microsoft) e (ii) il successivo sviluppo, generato dai miglioramenti apportati da ricerca incrementale (ad opera della collettività degli sviluppatori o del monopolista proprietario del brevetto). Della General Public Licence si dice che permette a ognuno di “dare un mattone per avere in cambio una casa intera”. (1)
Ma lo slogan non racconta proprio tutto: primo, qualcuno deve aver gettato le fondamenta. (2) Secondo, vero è che in fase di sviluppo uno può dare un mattone e avere una casa intera in cambio, ma è altrettanto vero che la casa è sua anche se il mattone non ce lo mette: quindi, perché sprecarlo? In altre parole, ladozione della Gpl presenta due problemi. Il primo, classico, è che lassenza di brevettabilità riduce l’incentivo a inventare – in fase (i). Laltro, che a invenzione avvenuta, miglioramenti incrementali di qualità possono essere frustrati dal free-riding – in fase (ii).
Il primo problema, discusso già da Schumpeter e poi da Nordhaus in un famoso libro del 1969, è ancora più chiaro alla luce della teoria della crescita contemporanea che individua nel processo innovativo il motore principale dello sviluppo economico. (3) La prospettiva di profitti monopolistici garantita dalla brevettabilità rende profittevole lattività di ricerca in quanto consente di recuperare costi iniziali che vendendo al costo marginale andrebbero inevitabilmente perduti. Fortunatamente, i processi innovativi non si arrestano del tutto in assenza di brevettabilità, e Linux ne è esempio eloquente. D’altra parte, è difficile contestare il fatto che tipicamente la brevettabilità costituisce un importante incentivo alla ricerca. (4)
Se linput è comune a più processi produttivi
Il problema di free-riding creato dalla Gpl sugli sviluppi della nuova invenzione, con conseguente livello subottimale dell’investimento, è tipico dei beni pubblici (il risultato della ricerca diventa un bene pubblico con la General Public Licence). Tuttavia, il volume di ricerca su Linux ha di gran lunga superato quello messo in atto da Microsoft su Windows, e da un paio d’anni allo sviluppo di Linux concorre un pool di grosse imprese di telecomunicazioni e di produttori di hardware (in concorrenza fra loro) che finanziano l’Open Source Development Labs, dove non a caso lavora Torvalds a tempo pieno. Cosa sta succedendo? La nostra opinione è che stia accadendo qualcosa che non ha tanto a che fare con la natura digitale di Linux, quanto con la sua funzione di input comune a molteplici processi produttivi (5).
Per ricorrere a un esempio non digitale e non high-tech, si pensi agli impianti frenanti che entrano nella produzione delle automobili, dei camion, degli aeroplani. La nostra idea, confermata nel contesto di un modello biperiodale, è che a dispetto del problema di free-riding, la ricerca sullo sviluppo di un input comune a più processi in un contesto di General Public Licence può risultare addirittura maggiore che in regime di monopolio protetto da brevetto. Accade quando a fronte dell’effetto negativo di bene pubblico, è presente un abbastanza forte effetto di accrescimento del profitto totale dell’industria dovuto alla qualità dell’input comune e alla conseguente crescente produttività dei processi produttivi delle singole imprese. In altre parole, l’impresa investe nell’input/bene comune nonostante così facendo avvantaggi non solo se stessa ma anche i concorrenti, se al contempo accresce abbastanza la dimensione della “torta” da dividere con loro. Questa dei beni intermedi largamente usati sembra dunque la categoria di prodotti su cui concentrarsi, al di là del software, per pensare alla possibilità di adozione della Gpl.
Quale politica dei brevetti
Ristretta in tal modo l’attenzione a un campo di applicazione potenzialmente proficuo, emerge comunque un tradeoff per la politica dei brevetti: orientarsi sulla brevettabilità, favorendo innovazioni primarie che andrebbero incontro a uno sviluppo di prodotto relativamente lento. Oppure imporre una Gpl sulle nuove invenzioni (del tipo in questione) garantendo uno sviluppo sostenuto di qualità, accettando però un rallentamento del loro tasso di natalità. Ci sono vie d’uscita? Alla ricerca di un intervento pubblico che riesca ad aggirare il tradeoff appena descritto, sembrerebbe ragionevole esplorare la possibilità di mantenere sì la brevettabilità, ma poi per quei beni in cui cè più ricerca incrementale con Gpl che sotto regime di monopolio (del tipo da noi individuato), lo Stato acquisti i brevetti, e li rilasci con licenza Gpl.
(1) Sono parole di Ganesh Prasad, un web designer affascinato dalle implicazioni economiche e sociali di Linux, che utilizza dal 1996.
(2) Per Linux è stato Linus Torvalds, un finlandese freddoloso che voleva fare tutto da casa, come ricorda nella sua autobiografia “Rivoluzionario per caso” pubblicata da Garzanti.
(3) Si vedano ad esempio i capitoli disponibili dell’Handbook edito da Philippe Aghion e Steven Durlauf, di prossima pubblicazione.
(4) Il caso della brevettabilità del software piuttosto che la sua protezione con copyright, che tocca anche delicate questioni di brevettabilità delle idee, potrebbe essere un’eccezione, anche a causa degli intricati problemi legali che verrebbero a crearsi. Vedi il sito della Foundation for a Free Information Infrastructure, ffii.org, per il dibattito in Europa.
(5) Aghion, P. e Modica S., “Open Source without Free-Riding”, in preparazione.
La Commissione Europea e i ministri europei reponsabili della Competitività hanno varato una controversa direttiva sulla brevettabilità di “computer-implemented inventions”. Lungi da poter essere considerato concluso, il dibattito dovrebbe ora investire l’intero sistema di tutela della proprietà intellettuale. Se si vuole incoraggiare l’attività innovativa e favorire la circolazione dei suoi risultati, le strategie copyleft sembrano le più adatte a promuovere la ricerca di base. E potrebbero innescare meccanismi per il recupero di competitività e di rilancio verso l’economia basata sulla conoscenza, perno della strategia di Lisbona.
L’Europa tra copyright e copyleft
Giovanni Bono e Enrico Santarelli
In passato, i programmi per elaboratori elettronici (“software”) erano soggetti alla disciplina sul diritto d’autore: le idee contenute nel programma non potevano essere brevettate. Sulla scorta dell’idea che il software contiene invenzioni come ogni altra realizzazione tecnologica, gli Stati Uniti (USA) hanno da tempo rotto con questa tradizione ed il software – come gli algoritmi matematici, i “business methods”, etc. è entrato a pieno titolo fra le materie di brevetto. Nello stesso tempo, il “copyright” sul software è stato messo in crisi da una comunità transnazionale di sviluppatori, detta del “software libero” o “movimento open source”. Questa comunità è cresciuta grazie all’uso di licenze cosiddette “copyleft”, che mettono in comune i risultati invece di negoziarne la circolazione sul mercato. Tale pratica, che ha prodotto esperienze di successo nel settore del software – come GNU, Linux e Apache – e ha contagiato giganti come Netscape, IBM e Sun Microsystem si sta estendendo anche ad altri settori, dalla musica alle biotecnologie.
Commissione europea ed Europarlamento hanno dibattuto a lungo attorno alla possibilità di brevettare software.
La querelle si è aperta con un Green Paper presentato dalla Commissione nel 1997. Il 24 settembre 2003, lEuroparlamento ha approvato un testo fortemente limitativo, la direttiva dell’Unione Europea sulla brevettabilità di “computer-implemented inventions”. A sua volta, la Commissione ha presentato, il 18 maggio 2004, un testo modificato nella direzione opposta. Questultimo, tuttavia, non ha raccolto sufficienti consensi, tanto che il 2 febbraio 2005 l’Europarlamento ha chiesto l’azzeramento dell’intera procedura, invitando la Commissione a soprassedere rispetto alla decisione in tema di brevettabilità del software. Infine, tra il 3 e il 7 marzo 2005, prima la Commissione poi i ministri europei responsabili della Competitività, hanno respinto questo invito e, malgrado lopposizione più o meno ferma di alcuni paesi membri (la Spagna in testa, ma anche Cipro, Danimarca Lettonia, Paesi Bassi, Polonia, Ungheria) e lastensione di altri (Austria, Belgio e Italia), manifestato una preferenza per lorientamento copyright. In attesa di un nuovo pronunciamento dellEuroparlamento, è nostra opinione che la politica comunitaria per l’innovazione dovrebbe invece operare una scelta di campo diversa e decidere di sfruttare a fondo le opportunità di crescita generate dal copyleft.
Fautori e oppositori della brevettabilità
I fautori ritengono la brevettabilità del software un incentivo necessario all’attività innovativa: ne garantirebbe il futuro in Europa proteggendo le invenzioni sia delle piccole che delle grandi imprese. Gli oppositori osservano che, mentre negli altri campi la concessione del brevetto è subordinata alla divulgazione dellinformazione tecnologica su cui esso si basa, nel caso del software tale protezione è accordata anche se il codice sorgente rimane segreto. Di conseguenza, l’estensione del meccanismo brevettuale frenerebbe l’innovazione, mettendo l’industria europea del software saldamente in mano a un cartello di grandi imprese in grado di eliminare i concorrenti più piccoli grazie al pieno controllo che esercitano sui codici sorgente del software più diffuso. In effetti, il dibattito è stato talvolta letto come uno scontro tra gli interessi delle grandi e delle piccole imprese del settore.
La prassi ha tuttavia da tempo scavalcato i vincoli normativi, posti ad esempio dallarticolo 52 della European Patent Convention, e di fatto sono stati concessi numerosissimi brevetti sul software. Il problema, però, è di portata maggiore. Il punto di fondo è infatti se l’Unione europea debba seguire gli Stati Uniti sulla strada di una politica intransigente di tutela della proprietà intellettuale o se vi sia la possibilità di imboccare percorsi diversi. Si tratta, in altre parole, di scegliere con chiarezza il sistema prevalente di accesso alle conoscenze codificate, che rappresentano sia il principale input che il principale output di ogni attività innovativa.
Copyright e copyleft
La regolamentazione privata dell’accesso alle conoscenze codificate prende forme diverse in settori e sistemi giuridici diversi. Questa varietà di forme, pratiche e strategie negoziali può essere ricondotta a due tipologie generali: “copyright” e “copyleft”.
La strategia copyright, che include i brevetti, è tipicamente “chiusa” e comporta un’attribuzione selettiva dei diritti di accesso. La strategia copyleft, adottata dalla comunità degli sviluppatori di software libero, è invece “aperta” e attribuisce i diritti di accesso non selettivamente. Nel primo caso, la conoscenza generata dall’attività innovativa è una collezione di beni privati, accessibili soltanto a seguito di una negoziazione privata. Nel secondo, è un “commons”, cioè una risorsa di proprietà comune la cui riproduzione, circolazione e modifica sono limitate in modo tale da garantire la loro permanenza nel “commons”. Gli esempi di “commons” nella moderna società dellinformazione sono molteplici. Basti pensare, ad esempio, che gli standard tecnologici del world wide web sono in larga parte un “commons” e che l’istituzione che orienta la loro produzione – iniziata al Cern di Ginevra nel 1989 – è una joint venture franco-nippo-statunitense, il World Wide Web Consortium (w3c). E recenti esempi di successo di software copyleft come quelli del sistema operativo Linux e del server http (hyper text transfer protocol) Apache dovrebbero attenuare la diffidenza attorno a questa modalità di accesso alle conoscenze codificate. Tra laltro, il ciclo di vita del software tende a diventare sempre più breve. Tutelarlo con una strategia copyright rigida e protratta nel tempo non sembra avere molto senso, anche in considerazione del fatto che la profittabilità di un prodotto software è di regola alta subito dopo la sua immissione sul mercato, ma rapidamente decrescente nel periodo successivo (Forrest, 2003).
Imparare dagli Usa?
L’esperienza Usa non sembra d’altra parte un modello da imitare. In un recente libro, due tra i massimi studiosi statunitensi di economia dell’innovazione, Adam Jaffe e Josh Lerner, sostengono che il sistema americano di tutela della proprietà intellettuale tramite i brevetti è andato in crisi proprio a partire dalla prima metà degli anni Ottanta.
Le cause sono l’introduzione di una Corte d’Appello centralizzata (Cafc) che ha unificato e potenziato il trattamento giudiziario dei diritti brevettuali, e la trasformazione dell’ufficio brevettuale (Uspto) in agenzia di servizi i cui costi di mantenimento sono pagati attraverso le fees dei “clienti” (i patent applicants, coloro che presentano domanda di concessione di brevetto), anziché dal governo federale. L’orientamento pregiudizialmente favorevole della Cafc nei confronti dei titolari di brevetto (“patent holders”) e la trasformazione dello Uspto in una struttura di servizio dei “patent applicants”, ha determinato una autentica esplosione dell’attività brevettale, cresciuta tra il 1982 e il 2002 al ritmo medio del 5,7 per cento lanno, contro l1 per cento medio annuo del periodo 1930-1982. Accompagnata, però, da una crescita esponenziale nel numero dei contenziosi giudiziari, da una sostanziale perdita di rigore nelle procedure di valutazione delle domande e di attribuzione dei brevetti da parte dello Uspto, nonché da un aumento dei costi di transazione per l’acquisto e la cessione di licenze sui brevetti. Oltre tutto, la proliferazione di brevetti di scarsa o nessuna rilevanza tecnologica e i costi sempre più elevati di difesa dei brevetti in sede giudiziale, non hanno portato all’incremento sperato nella realizzazione di innovazioni di prodotto.
Cosa fare in Europa
Naturalmente, occorre valutare con estrema cautela se una politica tradizionale – di impostazione copyright – sia preferibile all’esplorazione di politiche nuove – di ispirazione copyleft. Oltre a suggerire un ripensamento della normativa sulla brevettabilità del software, il dibattito europeo dovrebbe investire lintero sistema di tutela della proprietà intellettuale. Gli strumenti per la “tutela della proprietà intellettuale” e quelli per la formazione di “commons” di conoscenza servono lo stesso duplice scopo: incentivare l’attività innovativa e favorire la circolazione dei suoi risultati. L’esperienza delle economie industriali induce a considerare i primi come i più adatti a promuovere gli investimenti privati in ricerca & sviluppo, perché consentono una esplorazione sistematica e ordinata delle prospettive aperte da una invenzione primaria. I secondi sembrano invece i più adatti a favorire la ricerca di base, svolta o finanziata da fondazioni ed enti pubblici, le università in testa.
Se lEuropa riuscisse a coniugare il regime di tutela e riconoscimento dell’innovazione nel suo complesso con politiche ispirate a esperienze copyleft, potrebbe gettare le basi per lo sviluppo di un meccanismo incentivante originale e capace di indurre individui e imprese a scegliere strategie di innovazione aperte. Sarebbe uno strumento di recupero di competitività e di rilancio nel cammino verso un’economia basata sulla conoscenza, lobiettivo prioritario individuato dal Consiglio europeo di Lisbona nel marzo 2000.
Per saperne di più
Sulle recenti tendenze negli Usa e in Europa abbiamo citato:
Jaffe, Adam J e Josh Lerner (2004), Innovation and Its Discontents, Princeton e Oxford, Princeton University Press.
Forrest, Heather (2003), “Europe: Open Market … Open Source?”, Duke Law & Technology Review, http://www.law.duke.edu/journals/dltr/articles/2003dltr0028.html
Per quanto riguarda il “copyleft”, rinviamo alle pagine web delle più importanti istituzioni di governo di “knowledge commons”, la Free Software Foundation (http://www.fsf.org/), la Open Source Initiative (http://www.opensource.org/) e il Creative Commons (http://creativecommons.org/).
Un’introduzione tecnica ma accessibile al problema della circolazione delle conoscenze codificate è contenuta in:
Quah, Danny (2004), “Digital Goods and the New Economy”, Centre for Economic Policy Research, Discussion Paper Series No. 3846,
Un’utile risorsa bibliografica per il lettore economista si può trovare al seguente indirizzo:
http://www.dklevine.com/general/intellectual/intellectual.htm
La pubblica amministrazione ha difficoltà a utilizzare le tecnologie con efficienza e efficacia. Lo dimostra la limitata diffusione di software open source. Per non aggravare i ritardi già accumulati servono scelte precise e un sistema di incentivi e disincentivi per realizzarle. E si potrebbe così rivitalizzare lindustria italiana del software.
Perchè la PA diffida di Apache
Lucio Picci
Il 63 per cento nel mondo, ma solo il 38 per cento nell‘amministrazione pubblica italiana: questo il confronto della diffusione di un importante software open source (Os), il server web “Apache“, il programma che permette di far funzionare i siti web (compreso quello de “lavoce.info“). (1) Sono necessarie politiche precise per colmare questa distanza, che è un sintomo della difficoltà dell‘amministrazione italiana a utilizzare le tecnologie con efficacia ed efficienza. Da un punto di vista pratico, e con qualche approssimazione, la differenza tra software “proprietario“ e Os consiste nel fatto che nel primo caso, di solito dopo il pagamento di una licenza d‘uso, l‘utente può “eseguire“ il programma, ma non vede come è stato scritto e non può modificarlo, mentre il software open source può essere modificato e ulteriormente distribuito, ed è gratuito.
Non sempre vince il migliore
La scelta tra software proprietario (come quello prodotto da Microsoft) e Os non è ovvia. È importante considerare la presenza di “effetti di rete“, che si hanno quando il beneficio del possesso di un prodotto dipende positivamente dal numero di consumatori che già ne dispongono. Come telefono o fax, anche il software è tanto più utile quanto più è diffuso. Per questo è difficile contrastare un prodotto che gode di un mercato ampio anche quando si dispone di una tecnologia più vanzata: nelle industrie in cui vi sono effetti di rete, non sempre vince il migliore. Ed è questo il vantaggio di cui godono i prodotti Microsoft nel mercato del software per la “produttività di ufficio“ (videoscrittura e fogli di calcolo, per esempio): abbandonarli significa anche rinunciare all‘estrema comodità con cui si scambiano per e-mail documenti in un formato che è divenuto uno standard de facto, oltre che alla consulenza gratuita dei vicini di scrivania.
Nel mercato “lato server“, come nel caso del server web Apache, la situazione è diversa. Per esempio, Apache è dominante, gratuito, eccellente, ben documentato e utilizza un sistema operativo, Unix, disponibile (anche) a titolo gratuito, secondo molti migliore del concorrente Microsoft. Al di là di una generale avversione per il software che non proviene da un produttore importante, con la relativa deresponsabilizzazione dei tecnici che comporta una tale attitudine, vi sono dunque poche ragioni per non adottarlo: la ridotta diffusione di Apache nell‘amministrazione pubblica indica una scarsa propensione ad avvalersi di soluzioni tecnologiche efficaci ed efficienti.
Dalla commissione le consuete raccomandazioni
Il Governo dovrebbe riflettere. Il ministro dell‘Innovazione, Lucio Stanca, istituì lo scorso novembre una commissione sul software Os che ha da poco terminato i suoi lavori. Senza prendere posizione precisa, e cercando di accontentare un po’ tutti, la commissione propone l‘usuale armamentario: qualche misura concreta, qualche risorsa, ma soprattutto raccomandazioni assortite, il più delle volte senza occuparsi degli incentivi e disincentivi perchè queste non rimangano sulla carta. Invece, trascura completamente il fatto che la scelta di una tecnologia di rete non è analizzabile al livello del singolo utente, ma deve tenere conto degli effetti che abbiamo indicato e del conseguente problema del coordinamento delle scelte individuali. Esiste un‘ampia letteratura scientifica su questo tema, e Stanca avrebbe fatto bene a non affidarsi soltanto, o prevalentemente, a (ingegneri) informatici, le cui competenze sono altre.
È
tempo di decisioniNei fatti se non nelle intenzioni, le commissioni dagli esiti ecumenici, molto spesso servono per non decidere, o per decidere di non fare nulla. Per il software Os, con i ritardi già accumulati e dopo decenni di decadenza dell‘industria italiana del software, sono invece necessarie iniziative, magari di portata ridotta, ma concrete.
Un obiettivo ragionevole consiste nel promuovere il software Os “lato server“, dove gli effetti di rete non sono avversi. Servirebbe un misto di prescrizioni e di incentivi verso quei tecnici e quelle amministrazioni che si comportano virtuosamente, e un servizio di consulenza e di formazione, all‘interno di strutture già presenti, che permetta ai tecnici di adeguarsi e renda ingiustificabili le eventuali resistenze. Si otterrebbero risparmi, si incoraggerebbe l‘utilizzo di tecnologie avanzate, si creerebbe un primo presupposto per un maggiore controllo delle tecnologie e si valorizzerebbero le competenze tecniche migliori dentro l‘amministrazione. Esistono però obiettivi più ambiziosi, che il Governo farebbe bene a considerare con attenzione maggiore di quanto non abbia fatto sino ad ora, e senza timore reverenziale verso Microsoft. L‘amministrazione pubblica spende per il software circa 700 milioni di euro all‘anno. C’è spazio per una politica che promuova l‘insieme della produzione Os, tanto più che uno spostamento della domanda dell‘amministrazione pubblica sarebbe di grande beneficio per l‘industria italiana del software, in un certo senso la reinventerebbe. Ma sarebbero necessari interventi veramente incisivi e una notevole capacità di gestire una strategia coraggiosa e innovativa.
Il primo, più modesto, obiettivo, può essere considerato intermedio rispetto al secondo: l‘analisi dei primi risultati ottenuti potrebbe servire per decidere se allungare il passo.
In ogni caso, però, il Governo dovrebbe dichiarare che cosa vuole fare e con quali strumenti. Tenendo presente che le scelte, o le non scelte, del passato, hanno già danneggiato la diffusione del software Os nell’amministrazione pubblica.
(1) I dati derivano da una rilevazione realizzata presso il corso di laurea in Economia di Internet dell‘Università di Bologna, e si riferiscono a un campione di siti dei soli comuni, province e regioni. Oltre alla diffusione del server web Apache, essi mostrano la diffusione degli analoghi prodotti Microsoft, utilizzati nel 58 per cento dei casi, contro il 27 per cento a livello mondiale (il confronto mondiale è reso possibile dalla rilevazione di Netcraft).
Il rischio di bocciatura dell’Irap da parte della Corte di Giustizia Europea, per quanto immotivato dal punto di vista giuridico ed economico, ha riportato alla ribalta il dibattito su come sostituire la terza imposta del nostro ordinamento.
Fra le opzioni che sono discusse negli articoli che seguono, alcune puntano a preservare le caratteristiche dell’Irap (ipotesi dello “spacchettamento”), altre considerano imposte alternative, sui redditi o sui consumi. Fra queste, assumono particolare interesse quelle che garantiscano autonomia impositiva alle regioni, e sono meno sperequate sul territorio. Su un tema così delicato è comunque fondamentale evitare l’improvvisazione.
La scuola italiana non funziona. Ma non è un problema di risorse: nei paesi che spendono quanto lItalia in formazione primaria e secondaria, la performance dei quindicenni è di gran lunga migliore che da noi. E’ un problema di qualità degli insegnanti? E’ difficile, ma non impossibile, misurarla e dovrebbe essere maggiormente incentivata. Ma per farlo bisogna affermare la cultura della valutazione, vincendo fortissime resistenze alle rilevazioni. La valutazione sulla base di parametri oggettivi è ancora più importante nel caso dei concorsi universitari. Apriamo il confronto su due proposte alternative. La prima propone di mantenere i concorsi per l’ingresso nella carriera universitaria a livello decentrato, attribuendo agli atenei locali anche la responsabilità finale (e lonere economico corrispondente) della conversione a tempo indeterminato dei contratti di docenza e/o ricerca. La seconda propone di tornare ai concorsi nazionali per combattere il malcostume dei concorsi fasulli. Ma non basta probabilmente riformare i concorsi. Perchè luniversità italiana incentivi la ricerca bisogna smettere di premiare solo (e troppo) lanzianità di servizio, rendendo il sistema impermeabile alla concorrenza esterna, come dimostrano i dati sui pochissimi docenti stranieri presenti in Italia. Mentre le risorse disponibili al sistema universitario italiano non sono cresciute in termini reali negli ultimi 5 anni, il governo ha scommesso sulle iniziative di eccellenza come l’Istituto italiano di tecnologia. Se ne è parlato più prima della sua nascita che adesso che sta per concludersi la fase di startup. Al commissario unico e al direttore scientifico dell’Iit abbiamo formulato alcune domande per capire lo stato di avanzamento di questo progetto. Ospitiamo le risposte di Vittorio Grilli, commissario unico dell’Iit e Roberto Cingolani, direttore scientifico dell’istituto.
Per il reclutamento dei professori universitari, fino alla riforma del 1998 la legge italiana prevedeva che si svolgesse un concorso unico nazionale ad anni alterni, un anno per quelli di prima fascia e nellaltro anno per quello degli associati. Quanto alla commissione giudicatrice, per la prima fascia, tutti i professori della materia erano chiamati a eleggere dieci possibili commissari, tra i quali venivano sorteggiati i cinque membri. Per gli associati, il sorteggio dei possibili commissari precedeva lelezione. Alle singole facoltà interessate era data poi la scelta tra i vincitori per la copertura delle cattedre messe a concorso. Il circolo vizioso del passato Perché quel sistema funzionasse bene (nei limiti consentiti dal contesto del sistema universitario italiano), mancava solo una regola: scioglimento automatico della commissione che non avesse esaurito i propri lavori entro tre o quattro mesi; ed elezione di una nuova, con esclusione dallelettorato passivo per i vecchi commissari. I gravi difetti dellattuale sistema Questa alluvione di ricorsi giudiziali è stata una ragione non secondaria della scelta del ministro Berlinguer di decentrare i concorsi: con la riforma del 1998 sono ora i singoli atenei a bandirli (e quindi a doversi eventualmente difendere davanti al Tar). Ma il nuovo sistema ha due difetti gravissimi. In primo luogo, garantisce un forte privilegio al candidato appartenente alluniversità che bandisce il concorso, alla quale compete la nomina di uno dei membri della commissione; è rarissimo, infatti, che il “candidato interno” risulti perdente; lunico dato incerto, quando è incerto, è il nome del secondo vincitore, destinato a essere chiamato altrove. Inoltre, il nuovo sistema prevede lelezione di tante commissioni quanti sono i concorsi banditi dagli atenei: ciò che comporta un gran numero di voti e di candidature, con corrispondente enorme lavorio elettorale (praticamente ininterrotto: le “tornate” elettorali sono due, tre, persino quattro allanno), seguito da giochi estremamente complessi tra le commissioni di concorsi diversi cui partecipano contemporaneamente gli stessi candidati. E poiché per questo lavorio elettorale e post-elettorale sono normalmente più disponibili i professori che si dedicano meno intensamente alla ricerca e allinsegnamento, il sistema presenta un alto rischio di favorire nettamente gli interessi di questi ultimi rispetto a quelli dei professori migliori. Una possibile soluzione Alla radice di questi mali del nostro sistema universitario sta, certo, il “valore legale” della laurea che toglie gran parte del significato alla concorrenza tra gli atenei; e a questo si accompagnano altri difetti strutturali che non si eliminano con la sola riforma per quanto ben congegnata – del reclutamento dei docenti (per un disegno di riforma organica vedi qui sotto l’articolo di Gagliarducci, Ichino, Peri, Perotti). Ma il sistema di reclutamento oggi in vigore fa troppi danni per essere lasciato sopravvivere anche solo per poco. Nel contesto attuale, forse la scelta migliore è quella di un ritorno al sistema precedente al 1998 per i professori di prima fascia, con il correttivo di cui si è detto sopra: i professori di ciascuna materia votano una volta allanno e una sola, per una commissione composta da membri non rieleggibili nella tornata successiva; la commissione designa ogni anno un piccolo numero di idonei alla cattedra; e se non lo fa entro tre mesi decade automaticamente. Libero poi ciascun ateneo di chiamare uno degli idonei, se concorda con la commissione nel ritenerlo tale, anche rispetto ai propri standard, alle proprie esigenze didattiche e ai propri programmi di ricerca.
Poiché questa regola non cera, i lavori delle commissioni erano sovente interminabili, essendo intralciati dai veti incrociati e dai complessi giochi di alleanze e contro-alleanze accademiche in cui i commissari venivano invischiati. I concorsi duravano anni. Così, a ogni nuovo concorso, il numero di posti in palio era molto elevato; il che contribuiva ulteriormente a rallentare i lavori. Lintervallo lungo tra un concorso e laltro e il numero abnorme dei posti in palio contribuivano a drammatizzare limportanza del concorso e a rallentarne lo svolgimento, in un evidente circolo vizioso. La drammatizzazione portava poi con sé un altissimo numero di ricorsi dei candidati perdenti al Tribunale amministrativo, dai quali il ministro dellIstruzione era letteralmente sommerso.
Questo spiega e in qualche misura giustifica la prassi, invalsa in numerosi comparti accademici, di affidare a uno o più professori anziani il compito di “dirigere il traffico” concorsuale, raccogliendo le candidature, valutandone il merito, stabilendo una sorta di graduatoria di precedenza ragionata e proponendo alla comunità accademica le corrispondenti indicazioni elettorali per la costituzione delle commissioni. Anche se comprensibile e, dove funziona in modo pulito, giustificabile come male minore questa prassi significa che, in realtà, i concorsi tendono a ridursi a una formalità vuota: la vera sede in cui si decidono i vincitori è lorgano informale di “coordinamento”. Quando poi il coordinatore rafforzato dagli alti costi di transazione che si impongono a chi tenti di scalzarlo dalla sua posizione si trasforma in dittatore, minacciando e applicando sanzioni contro chi disattende le sue indicazioni, si verifica la grave degenerazione del sistema denunciata da Gino Giugni due settimane or sono. Lordinamento statale, come ci ha insegnato Ronald Coase, serve essenzialmente per ridurre i costi di transazione. Quando esso, invece di ridurli, li moltiplica, tende a nascere spontaneamente qualche altro ordinamento finalizzato a ridurre quei costi, che si sovrappone allordinamento statale. Con risultati sovente pessimi: la spontaneità del fenomeno non costituisce affatto una garanzia di bontà del rimedio.
Questo scritto propone un sistema per il reclutamento dei docenti universitari che possa facilitare laccesso alla carriera accademica a chi è giovane e si dedica principalmente alla ricerca. Il nostro schema adotta la produzione scientifica come criterio fondamentale per lassunzione e lentrata in ruolo dei giovani ricercatori il cui lavoro verrebbe valutato dai dipartimenti di riferimento e da commissioni composte da ricercatori di “chiara fama” (come nel Comitato di indirizzo per la valutazione della ricerca). Tuttavia, il nostro schema ha il pregio di non proporre un meccanismo esclusivo rispetto ad altri sistemi di reclutamento. In particolare, riteniamo che debba affiancare un sistema concorsuale completamente decentrato regolato da incentivi e disincentivi pecuniari per il miglioramento della qualità (scientifica e didattica) degli atenei. Perché intervenire Nella seduta del 13 e 14 aprile del 2005, il Consiglio universitario nazionale ha approvato un parere sul riordino dello stato giuridico e del reclutamento dei professori universitari che, esprimendo contrarietà alla messa in esaurimento del ruolo dei “ricercatori”, propone larticolazione “della docenza universitaria in tre livelli, con precisa definizione delle funzioni specifiche di ognuno di essi”. (1) La nostra proposta Questi difetti non rendono inopportuno il principio meritocratico alla base del sistema liberista, ma richiedono lintroduzione di un meccanismo parallelo per il reclutamento dei docenti rivolti alla ricerca. Già oggi le unità di ricerca che si formano nei dipartimenti possono ottenere dal ministero il finanziamento di posizioni a contratto nellambito dei progetti di ricerca. Si tratta, in generale, di contributi inadeguati e limitati a un massimo di tre anni. I vantaggi Riassumiamo i principali vantaggi di questo sistema. Innanzitutto, è basato sul merito scientifico perché “incentiva” comportamenti virtuosi nella selezione dei ricercatori, condizionando la concessione dei fondi ai risultati della ricerca. È un obiettivo condiviso dal sistema “liberista”, che pensiamo debba essere introdotto come sistema principale per lassunzione e la promozione dei docenti universitari. Tuttavia, crediamo che il nostro meccanismo possa funzionare come “complemento” sia dellattuale ordinamento che di quello “liberista”. Il sistema da noi proposto interviene ex-ante, cioè allinizio del progetto quando i ricercatori vengono selezionati, garantendo un punto di partenza paritetico a tutti i dipartimenti in competizione. Inoltre, è maggiormente selettivo: concede premi o penalità ai singoli dipartimenti, evitando che “le politiche di ateneo” possano contrastare lefficacia degli incentivi ministeriali, mentre consente ai docenti più impegnati nella ricerca di acquisire un maggiore potere accademico. (1) Sessione 174, 13 e 14/4/2005
Chi ritiene che la qualità della ricerca e linserimento dei giovani nelluniversità italiana siano obiettivi fondamentali, non può che essere deluso dal documento del Cun. Non si capisce a cosa serva un terzo livello di docenza. Non si avverte lallarme per lautomatismo che caratterizza la progressione di carriera dei professori. Del resto, nemmeno il ministro Moratti offre proposte soddisfacenti. Il prospettato ritorno al “concorso nazionale” non risolve nessuno dei problemi principali. Alcuni sostengono giustamente lesigenza di “liberalizzare” il reclutamento per concentrarsi sui meccanismi di finanziamento degli atenei, incentivando così comportamenti virtuosi. Gli atenei che assumono ricercatori bravi dovrebbero avere più soldi, quelli che assumono parenti e amici dovrebbero essere penalizzati. Il criterio di ripartizione dei fondi dovrebbe essere affidato a una commissione composta da accademici di fama italiani e stranieri. Questa proposta, che chiameremo “liberista”, semplifica enormemente le procedure, cerca di premiare il merito scientifico, ma, secondo noi, soffre di alcuni difetti che la nostra prospettiva cerca di risolvere.
In base al sistema liberista, i dipartimenti hanno incentivi deboli: possono aspettarsi di conseguire solo vantaggi marginali da un comportamento virtuoso perché lassegnazione dei fondi avverrebbe sulla base degli atenei, non dei dipartimenti. Inoltre, la penalizzazione pecuniaria ex post ha due problemi. In primo luogo, non è facilmente praticabile perché sanziona, negando i finanziamenti, sulla base di criteri stabiliti posteriormente alle condotte.
In secondo luogo, ha il difetto di colpire tutti i dipartimenti e le facoltà compresi nellateneo, indipendentemente dal loro comportamento individuale. Infine, la proposta liberista sembra penalizzare gli atenei periferici e di recente formazione, generalmente caratterizzati da una breve serie di risultati scientifici e una scarsa capacità di attrazione.
Questo sistema dovrebbe essere potenziato e adeguato. Vogliamo fare in modo che i contratti di lavoro per i ricercatori così finanziati (1) siano retribuiti in modo adeguato, (2) abbiano maggiore durata riducendo lincertezza dei giovani ricercatori e, soprattutto, (3) permettano limmissione nellorganico di ruolo delluniversità, previo parere favorevole di una commissione ministeriale e degli organi accademici di riferimento. Il sistema che abbiamo in mente potrebbe essere facilmente organizzato. Ogni anno ciascun dipartimento può sottoporre al ministero alcuni progetti di ricerca di durata compresa tra tre e sei anni. La flessibilità è completa: ciascun progetto risponde a esigenze e caratteristiche della disciplina di riferimento, ma include sempre la richiesta dei fondi necessari al suo completamento e, in particolare, del finanziamento del numero di ricercatori desiderati. I rapporti di lavoro prodotti sono quindi motivati dal progetto di ricerca, e perciò di eguale durata. Le retribuzioni di ciascun ricercatore sono flessibili e decise in autonomia da ciascun dipartimento: soggette a un limite minimo, non ne hanno uno massimo. I dipartimenti possono essere incoraggiati, da incentivi fiscali ai donatori e premi ministeriali, a “cofinanziare” il progetto procurandosi finanziamenti aggiuntivi (privati, ateneo, eccetera). Il ministero costituisce un fondo per ciascuna disciplina e i dipartimenti che vi appartengono competono per lattribuzione delle risorse ministeriali. Naturalmente, questi fondi devono essere ben più consistenti di quelli oggi stanziati. Potrebbero essere aumentati anche prelevando denaro dal fondo per la gestione ordinaria degli atenei.
Lapprovazione dei progetti e la conseguente assegnazione dei fondi viene quindi decisa sulla base del giudizio di una commissione nazionale composta da studiosi di chiara fama impegnati in Italia e all’estero, per ciascuna disciplina di riferimento. Non tutti i progetti presentati devono necessariamente essere finanziati: una preselezione esclude quelli non meritevoli. Come si vede, la caratteristica fondamentale del sistema fin qui proposto è quella di garantire un punto di partenza paritetico a ciascun dipartimento, tenendo fermo lobiettivo di incentivare comportamenti virtuosi, come nel sistema liberista, e fornendo un canale aggiuntivo per lassunzione dei giovani ricercatori.
Una volta attribuiti i fondi, i dipartimenti bandiscono con procedura pubblica e trasparente le posizioni a contratto coerenti col progetto approvato. Non hanno però alcun vincolo riguardo alle procedure di selezione, ai possibili vincitori e alle remunerazioni, eccetto lincompatibilità con altri incarichi di docenza a tempo pieno.
Infine, alla scadenza dei termini del progetto di ricerca, le commissioni nazionali valutano la coerenza tra obiettivi e risultati dei progetti finanziati (numero e qualità delle pubblicazioni scientifiche, risultati di esperimenti, brevetti, eccetera). Il risultato di queste valutazioni porta allassegnazione del finanziamento necessario a trasformare, presso il dipartimento ove si è svolta la ricerca, una o più posizioni a tempo determinato in posti di ruolo per professori di prima o seconda fascia (ad arbitrio della commissione). Oppure, alternativamente, alla negazione di tale finanziamento e alla conclusione del rapporto di lavoro degli assunti. Il numero delle posizioni di ruolo finanziate mediante questa procedura dipende dallammontare dei fondi ministeriali stanziati. Il sistema non subisce la pressione corporativa: da una parte la limitatezza dei fondi e dallaltra il doppio livello di controllo (commissione ministeriale e dipartimento afferente) garantiscono la selettività delle “conferme in ruolo”.
Quest’anno per la prima volta si è registrata nelle scuole una notevole opposizione alle rilevazioni del Servizio nazionale di valutazione degli apprendimenti, a diversi livelli e con diverse motivazioni. Alcune critiche sembrano francamente poco condivisibili, altre sono decisamente più fondate. Come l’obbligatorietà, l’oggetto e il campo delle rilevazioni e il periodo in cui vengono effettuate. Ma soprattutto la scarsa qualità delle prove. Si rischia così di bloccare la diffusione della cultura della valutazione nella scuola.
In aprile si sono svolte le rilevazioni del “Servizio nazionale di valutazione degli apprendimenti”, organizzate e gestite dallInvalsi.
Per la prima volta da quando sono stati organizzati i cosiddetti “Progetti pilota”, nel 2001-2002, si è registrata nelle scuole una notevole opposizione alle rilevazioni, a diversi livelli e con diverse motivazioni. Allo stesso tempo, prese di posizione critiche sono state assunte da parte di organizzazioni sindacali, di associazioni professionali e di genitori, di comitati spontanei che si sono formati in questi ultimi due anni in opposizione alla legge di riforma della scuola promossa dal ministro Moratti.
I motivi delle resistenze
Basta navigare un po in Internet per raccogliere un campionario dei motivi allorigine delle proteste che si sono manifestate nelle scuole. Alcuni di questi motivi sembrano francamente poco condivisibili, altri hanno ben diversa e più fondata motivazione. Tra i primi rientrano quelli che denunciano ipotetiche situazioni di stress a cui verrebbero sottoposti i “bambini” della scuola elementare; oppure quelli che sottolineano limpossibilità e lillegittimità di qualsiasi forma di rilevazione esterna, che non sia preventivamente negoziata e concordata con insegnanti e genitori. Altri motivi appaiono invece più fondati e più mirati.
Obbligatorietà delle prove Da questanno la partecipazione alle rilevazioni è obbligatoria per il primo ciclo dellistruzione (scuole elementari e medie). In realtà, non cè alcuna circolare ministeriale che sancisca questa obbligatorietà. La comunicazione alle scuole è arrivata dallInvalsi e sulla base della approvazione di alcuni provvedimenti normativi: la legge di riforma della scuola che prevede listituzione del Servizio nazionale di valutazione; il decreto legislativo con il quale è stato riordinato lInvalsi, trasformandolo definitivamente (per ora) in Istituto nazionale per la valutazione del sistema dellistruzione e della formazione; la pubblicazione delle Indicazioni nazionali, allegate al decreto legge 59/2004. Ma in nessuno di questi documenti è sancita esplicitamente la obbligatorietà della partecipazione alle rilevazioni. Il Miur ha interpretato in termini di obbligatorietà quanto nel decreto istitutivo del Servizio nazionale di valutazione viene presentato in termini di “concorrenza“: “(…) al conseguimento degli obiettivi di cui al comma 1 concorrono l’Istituto nazionale di valutazione di cui all’articolo 2 e le istituzioni scolastiche e formative“.
Loggetto della rilevazione. Per la costruzione delle prove si è fatto riferimento agli Osa (Obiettivi specifici di apprendimento) contenuti nelle Indicazioni nazionali. Le Indicazioni sono allegate al decreto 59/04 e di fatto non si possono ancora considerare obbligatorie (anche in riferimento alla normativa vigente sullautonomia delle istituzioni scolastiche).
Il campo della rilevazione. La rilevazione è limitata agli apprendimenti. Non viene utilizzato alcun questionario che consenta di interpretare i risultati conseguiti con le variabili socio-culturali di provenienza degli studenti. Il cosiddetto “questionario di sistema” a tutto aprile non era stato ancora inviato alle scuole e, comunque, non è prevista una sua utilizzazione per analizzare le variabili di contesto (scolastico) in rapporto ai risultati conseguiti dagli studenti nelle prove. Ulteriori critiche vengono rivolte allattendibilità e alla trasparenza delle procedure di rilevazione, alla valenza culturale delle prove, alluso dei risultati della rilevazione.
Le ambiguità e le contraddizioni
Queste critiche sarebbero già di per sé abbastanza rilevanti. In realtà la situazione è ancora peggiore, gli elementi di ambiguità e di contraddizione sono più numerosi.
Innanzitutto, permane lambiguità sulloggetto delle rilevazioni. Leggendo i vari documenti normativi e i materiali pubblicati sul sito dellInvalsi, di volta in volta si parla di Osa, di conoscenze e abilità, di competenze. Su questo punto specifico va ricordato che la legge di riforma riserva esplicitamente alle rilevazioni nazionali il compito di individuare soltanto le conoscenze e le abilità, ma non le competenze, la cui valutazione è spetta in modo esclusivo degli insegnanti.
In secondo luogo, anche se lobiettivo dichiarato sembra essere quello di contribuire alla valutazione del sistema scolastico, la decisione di condurre una rilevazione non campionaria, ma censimentaria farebbe pensare alla volontà di utilizzare i risultati delle rilevazioni per valutare le singole scuole. Del resto, il ministro Moratti ha più volte affermato che, grazie al Servizio nazionale di valutazione, i genitori avranno utili elementi di giudizio per decidere a quale scuola iscrivere i propri figli.
In terzo luogo, il periodo dellanno scolastico in cui vengono effettuate le rilevazioni è quanto meno singolare. Non siamo ancora alla fine dellanno scolastico e quindi le rilevazioni non possono riferirsi a quanto gli studenti hanno acquisito nelle classi che stanno frequentando. Daltro canto, sono passati ormai troppi mesi perché le rilevazioni possano essere destinate a misurare i risultati conseguiti nel precedente anno scolastico. È chiaro quindi che, da questo punto di vista, la rilevazione non è né carne, né pesce. Ma dopo tre progetti pilota non è più accettabile che ancora si parli di una prova volta a “testare la macchina organizzativa”. La riforma prevede che queste rilevazioni debbano in futuro essere effettuate allinizio dellanno scolastico per poter essere utilizzate in funzione diagnostica da parte degli insegnanti e delle scuole. Chi abbia un minimo di consuetudine con i problemi connessi alla realizzazione di rilevazioni su scala così larga e con i problemi legati alla elaborazione e alla analisi dei dati, sa bene che tutto ciò richiede alcuni mesi di lavoro e che quindi tale obiettivo è chiaramente non perseguibile.
Un quarto motivo di ambiguità, anzi di forte critica, è relativo alla qualità delle prove utilizzate e delle modalità con cui sono state elaborate. Fino ad ora non un solo dato è stato reso pubblico sulle caratteristiche metriche delle prove.
Preoccupa anche il fatto che tali prove non sono accompagnate come è prassi normale in tutte le indagini da questionari volti ad acquisire informazioni sulle variabili di contesto. In che modo interpretare, quindi, i dati raccolti? Lassenza di informazioni su tali variabili sarebbe giustificabile solo se la rilevazione avesse per obiettivo la certificazione di livelli di prestazione predefiniti. Ma questo non accade nelle “valutazioni di sistema” e, comunque, presuppone la definizione di standard di prestazione, articolati per ciascun anno scolastico, che nessuno ha provveduto a predisporre.
I rischi e i danni in prospettiva futura
Purtroppo, le reazioni negative determinate dal modo in cui le rilevazioni vengono impostate e realizzate stanno trasformandosi in un rifiuto generalizzato nei confronti della valutazione tout court. Il rischio è che sarà sempre più difficile distinguere tra posizioni di conservazione, contrarie a qualsiasi introduzione di momenti seri di valutazione nel nostro sistema scolastico, e posizioni che giustamente individuano le ambiguità e le caratteristiche negative delle rilevazioni in atto. Per anni, si è parlato della necessità di lavorare per la diffusione di una cultura della valutazione nella scuola, tra gli insegnanti e anche tra studenti e genitori.
Limpressione è che la (scarsissima) qualità delle rilevazioni proposte dallInvalsi nellambito del nuovo sistema di valutazione vadano in direzione opposta, con il rischio di buttare il “bambino” della valutazione insieme allacqua sporca delle rilevazioni di questanno.
È da poco apparsa su Econometrica una importante ricerca sulla qualità della scuola, alla quale hanno lavorato studiosi che si occupano di scuola da trent’anni. Le due questioni che l’articolo affronta sono queste: quanto contano gli insegnanti nel determinare la qualità dell’apprendimento? E cosa determina la qualità degli insegnanti? Un insegnante vale laltro? A giudicare dall’alacrità con cui i genitori si informano sui possibili insegnanti dei figli, e da tutto quello che sono disposti a fare per ottenere che i figli entrino nelle classi degli insegnanti che vengono giudicati bravi, sembrerebbe del tutto evidente che la risposta alla prima domanda non possa che essere: “gli insegnanti contano quasi più di tutto il resto”.
Il problema è che quando per la prima volta, negli Stati Uniti con il Coleman Report del 1966 si cominciarono a misurare gli effetti delle caratteristiche principali degli insegnanti, quali per esempio la loro esperienza di insegnamento e il loro livello di istruzione, sui risultati degli alunni, si trovò che risultavano sorprendentemente deboli. Da allora, le ricerche si sono ovviamente moltiplicate, gli strumenti di misurazione raffinati, sono poi cominciati ad arrivare risultati dei test sulla qualità dell’apprendimento, si sono evolute le tecniche econometriche di analisi dei dati, e così via. Tutte queste ricerche non hanno fatto altro che riconfermare quelle strane conclusioni del Coleman Report: le caratteristiche che comunemente si pensa stiano alla base della qualità degli insegnanti non influenzano più di tanto la qualità dell’apprendimento. Pochi credo abbiano pensato di potersi basare su questa pur schiacciante evidenza per dire convinti a un genitore “Rilassati, in fin dei conti un insegnante vale l’altro”. Ma come dimostrare il contrario?
La svolta è arrivata con lidea di un gruppo di ricerca della University of Texas, guidato da
Il principale risultato osservato è che la correlazione era alta fra i rendimenti scolastici di due coorti esposte allo stesso insegnante (entrambe buone o entrambe scarse), mentre nello stesso anno solare la correlazione era praticamente zero (il risultato di una coorte non diceva nulla su quello dell’altra). (2)
Questa era finalmente un’evidenza forte, anche se indiretta: i dati erano perfettamente compatibili con una realtà sottostante in cui l’elemento che fa la differenza è l’insegnante. Tuttavia, fino a questo punto, avrebbe potuto trattarsi di correlazione spuria, ovvero di un legame solo apparente tra fenomeni, in realtà spiegabili da eventi esterni non osservabili.
Le tecniche econometriche correntemente utilizzate permettono però l’identificazione diretta dell’effetto dell’insegnante sull’apprendimento, grazie allutilizzo di modelli a effetti fissi, che tengano conto delle regolarità ricorrenti associate ai fattori familiari, a quelli della scuola e per lappunto quelli relativi allinsegnante. In un modello di questo tipo, in pratica, si riesce a misurare quanto sistematicamente migliora lapprendimento di uno studente esposto allattività didattica di un insegnante, al netto delle caratteristiche ricorrenti sia nella famiglia dello studente che nelle caratteristiche della scuola frequentata. Solo così ci si pone al riparo della classica obiezione che dice “non si può confrontare il contributo allapprendimento dovuto a diversi insegnanti, perché gli insegnanti operano in contesti socio-culturali molto diversificati”. È evidente che uno studente del liceo in media possiede più competenze di uno studente della scuola professionale, ma è meno evidente che le sue competenze crescano relativamente di più quando viene esposto a un buon insegnante, di quanto non possa per esempio accadere allo studente delle scuole professionali.
Con questa metodologia i risultati attesi sono emersi: l’insegnante risulta influenzare il rendimento dello studente in misura apprezzabile. È difficile ottenere misure precise, ma il paragone con la numerosità delle classi rende l’idea: un incremento del dieci per cento nella qualità dell’insegnante equivarrebbe all’effetto quasi di un dimezzamento del numero di alunni per classe.
Risultato addizionale, anche quello non inatteso, e che l’effetto insegnante va scemando con l’età dello studente.
La qualità della classe docente
Allora tutto a posto? Purtroppo niente affatto. Perché siamo rimasti che la qualità dell’insegnante è certamente importante, ma non dipende dalle variabili che si possono influenzare più facilmente, tipo il suo livello di istruzione. L’insegnante brava è brava perché è brava, punto e basta; ognuno può dire la sua (la mia è che è brava quando ci mette il cuore), ma niente che sia facile da tradurre in misure concrete di intervento pubblico.
Cosa suggerisce il gruppo di Hanushek? Testualmente, loro osservano che “the substantial differences in quality among those with similar observable backgrounds highlight the importance of effective hiring, firing, mentoring and promotion practices”. Elegantemente, “segnalano l’importanza di” una politica del personale di tipo privatistico. I termini usati sono molto americani, ma in sostanza vogliono solo suggerire che “un più stretto legame fra rendimenti e premi alzerebbe alla lunga il livello della classe insegnante”. Questo piaccia o no è difficile da contestare, sicché sembrerebbe più utile cominciare subito a pensare come farlo meglio, piuttosto che discutere se sia giusto farlo o meno. Il che non è una faccenda da poco, perché la “azienda scuola” ha centinaia di migliaia di dipendenti, non una dozzina.
Resta la legittima aspirazione dell’insegnante a far bene, che è fra l’altro completamente in linea con gli interessi dei beneficiari del servizio da loro fornito. E a questa non si può semplicemente rispondere “Se ce la fai bene, altrimenti a casa”.
Come migliorare la qualità dell’insegnante è l’altro tema su cui potrebbe essere utile (ri)focalizzare la discussione alla luce della nuova evidenza empirica. Anche qui la strada è lunga e sarà inevitabile procedere in modo sperimentale. Giusto per dirne una, se qualcosa di impalpabile sta sotto la capacità di insegnare, cioè di trasmettere, comunicare nuova conoscenza, allora potrebbe essere utile mandare i giovani insegnanti a vedere da vicino, cioè da dentro la classe, cosa/come fanno i docenti più bravi, non per dieci ore, ma per mille (due al giorno per due anni).
(1) In pratica, negli esperimenti cui i dati si riferiscono c’è un insegnante per anno (per eliminare l’effetto scuola i dati utilizzati riguardano solo scuole nelle quali esistono osservazioni per entrambi gli anni), e si procede così: si registrano i risultati di N classi “prime” ed N “seconde”, in N scuole, per esempio nellanno 2000, siano essi P(1), P(N) ed S(1), S(N). Poi nel 2001 si registrano i risultati delle ex-prime diventate seconde, diciamo SS(1), SS(N). Si noti che essendoci un insegnante per anno in ogni scuola, P ed S non hanno lo stesso insegnante, mentre S ed SS sì. Le correlazioni misurate sono fra P ed S e fra S ed SS.
(2) In termini delle variabili sopra definite, la correlazione fra S ed SS è alta (cioè in genere S(n) e SS(n) sono entrambe alte — possibilmente linsegnante della scuola è bravo — o entrambe basse — possibilmente linsegnante è scarso; mentre la correlazione è bassa fra P e S (la relazione fra P(n) e S(n) non è regolare possibilmente perché in alcune scuole è più bravo linsegnante di P, in altre quello di S).
In molti paesi sviluppati, dagli Stati Uniti alla Germania, è in corso un dibattito profondo sul futuro della scuola. In Italia, invece, si parla molto di alcune vicende specifiche, come i buoni per la scuola privata decisi da alcune Regioni, ma manca un dibattito a tutto campo su come vogliamo che listruzione evolva nei prossimi decenni. Anche lavoce.info ne ha parlato poco, ad eccezione di alcuni interventi molto interessanti di Solomon Gursky e Daniele Checchi. I miti da sfatare In questo intervento vorrei fare un confronto, molto rozzo, tra la scuola italiana e quella di altri paesi sviluppati e non. Cominciamo sfatando alcuni miti: Tabella 1
Tutto sommato, la scuola italiana non è male. Un confronto internazionale tra sistemi scolastici è svolto dal Programme for International Student Assessment dellOcse. Invito i lettori de lavoce.info a consultare i rapporti del 2000 e del 2003, disponibili sul sito Pisa. Tali rapporti, basati su test svolti da 4.500/10mila quindicenni per paese, indicano senza ombra di dubbio che gli italiani hanno risultati peggiori dei loro coetanei degli altri paesi dellEuropa occidentale (con la possibile eccezione, ma solo in alcuni casi, della Grecia e del Portogallo). Questo vale per tutte e tre le aree considerate: scienze, lettura e matematica. I nostri risultati sono peggiori anche di quelli di paesi con un Pil pro capite più basso del nostro, come Spagna, Corea del Sud e molti paesi dellEuropa dellEst. (1)
Il problema è che mancano le risorse. Al contrario, lItalia è uno dei paesi al mondo con la spesa per studente più alta (vedi Tabella 1). Solo lAustria, la Svizzera e gli Stati Uniti spendono di più. Spendiamo il 50 per cento in più della Germania, che ci batte sistematicamente in tutte le materie. (2)
Spesa cumulativa per studente (dai 6 ai 15 anni) in dollari PPP adjusted | |
Australia | 58 480 |
Austria | 77 255 |
Belgio | 63 571 |
Canada | 59 810 |
R. Ceca | 26 000 |
Danimarca | 72 934 |
Finlandia | 54 373 |
Francia | 62 731 |
Germania | 49 145 |
Grecia | 32 990 |
Ungheria | 25 631 |
Islanda | 65 977 |
Irlanda | 41 845 |
Italia | 75 693 |
Giappone | 60 004 |
Corea | 41 802 |
Messico | 15 312 |
Olanda | 55 416 |
Norvegia | 74 040 |
Polonia | 23 387 |
Portogallo | 48 811 |
Slovacchia | 14 874 |
Spagna | 46 774 |
Svezia | 60 130 |
Svizzera | 79 691 |
Stati Uniti | 79 716 |
Il problema è la Moratti. Al di là dellopinione che si può avere sulloperato di Letizia Moratti (la mia è molto negativa), la situazione era più o meno la stessa nel rapporto Pisa 2000.
I fatti
E adesso passiamo ai tre fatti.
In Italia ci sono tanti insegnanti. Secondo dati Ocse 2002, il numero di studenti per insegnante in Italia è ai minimi mondiali. La Tabella 2 riporta i dati per le quattro maggiori nazioni europee. Questo spiega perché in Italia la spesa per studente è così alta.
Tabella 2
Germania | Francia | GB | Italia | |
Primaria | 18,9 | 19,4 | 19,9 | 10,6 |
Secondaria inferiore | 15,7 | 13,7 | 17,6 | 9,9 |
Secondaria superiore | 13,7 | 10,6 | 12,5 | 10,3 |
Manca un meccanismo di valutazione esterna degli studenti. Le commissioni esaminatrici ai vari livelli sono composte unicamente o in maggioranza da membri interni. Questa situazione è stata peggiorata dal ministro attuale, ma esisteva già prima. Nella maggior parte degli altri paesi europei esistono meccanismi di valutazione esterni, che cercano di offrire un giudizio imparziale e standardizzato. (3)
Manca un meccanismo di valutazione esterna degli insegnanti e delle scuole. La valutazione esterna degli studenti non serve solo per valutare gli studenti, ma permette anche di formare unopinione, seppure imperfetta, sulla qualità dei singoli insegnanti e delle singole scuole. In Italia, ciò è impossibile. Lesperienza di altri paesi soprattutto della Gran Bretagna e degli Stati Uniti dimostra che quando ci si rende conto che un sistema scolastico non funziona non esistono soluzioni facili, e soprattutto non esistono soluzioni rapide. I sistemi di valutazione presentano problemi enormi e in alcuni casi possono essere controproducenti. (4)
Altre opzioni, come lautonomia scolastica, gli incentivi per gli insegnanti o la libertà di scelta della scuola da parte dei genitori, sono controverse. Non esiste consenso su quale sia il sistema ideale. Però non possiamo continuare a nascondere la testa sotto la sabbia. La scuola italiana è in crisi. E non possiamo dire che non ci sono i soldi o che è tutta colpa di questo Governo. I mali della nostra scuola hanno radici profonde. È ora di aprire un dibattito a tutto campo, senza escludere a priori alcuna alternativa.
(1) Il rapporto Pisa mostra come, a parità di scuola, i risultati del singolo studente dipendano dalla situazione socio-economica della sua famiglia. Quindi gli studenti italiani potrebbero andare peggio di quelli tedeschi perché in media le famiglie italiane sono meno ricche ed istruite di quelle tedesche. Però, questo ragionamento non spiega perché gli studenti italiani vadano peggio di tutta una serie di paesi con condizioni socio-economiche meno avanzate. Su lavoce.info Salvatore
Modica nellarticolo “Leducazione di Zu Vice” ha messo in evidenza unimportante differenza tra i risultati dei ragazzi del Nord e di quelli del Sud. Sarebbe interessante capire quanta parte di questo divario è dovuta alleterogeneità delle condizioni socio-economiche piuttosto che a differenze nel sistema scolastico.(2) Non è neanche vero che gli insegnanti italiani siano necessariamente sottopagati. È vero che alcuni paesi, come la Germania e la Svizzera offrono stipendi nettamente più alti. Però i dati Ocse (2002) mostrano che un insegnante di secondaria superiore italiano di prima nomina guadagna come il suo collega francese o inglese (circa 25mila dollari allanno).
(3) Anche negli Stati Uniti manca, per tradizione, un sistema nazionale di valutazione. Per unanalisi del costo di introdurre tale sistema si veda Caroline Hoxby,
The cost of accountability.(4) Si veda ad esempio il lavoro di Jacob e Levitt,
Catching Cheating Teachers: The Results of an Unusual Experiment in Implementing Theory.La “fuga dei cervelli” dallItalia ha recentemente trovato spazio nelle prime pagine dei quotidiani ed è stata ampiamente confermata da numerose analisi statistiche. Tuttavia, ciò che forse dovrebbe fare riflettere maggiormente è che quasi nessun ricercatore straniero è attratto dal nostro paese. Nei corsi di Dottorato Italiani soltanto il 2% degli studenti proviene dallestero e, in tutto, meno di 3,500 persone provenienti da altri paesi dell’Unione Europea lavorano nel settore scientifico-tecnologico in Italia. Nel Regno Unito (e risultati simili valgono per altri paesi europei) il 35% degli studenti nei corsi di Ph.D. sono stranieri e piu di 42,000 cittadini della U.E. (non Britannici) lavorano come ricercatori in quel paese. Produttivita Scientifica dei Ricercatori Italiani La prima e la seconda colonna della Tavola 1 mostrano il numero medio di pubblicazioni e di citazioni per ricercatore (nei settori di Scienza e Ingegneria) durante il periodo 1997-2001 (i dati sul numero dei ricercatori si riferiscono al 1999). LItalia risulterebbe avere un rapporto “pubblicazioni / ricercatore” e “citazioni / ricercatore” tra i piu alti in assoluto (si vedano le colonne 1 e 2 della Tavola 1). Questi risultati, apparentemente incoraggianti, sono stati ampiamente citati nella stampa italiana, in particolare nella risposta del ministro Moratti ad un articolo di Francesco Giavazzi sul Corriere della Sera del 22 Novembre 2004. Cè tuttavia qualcosa di strano in questi dati: gli Stati Uniti appaiono agli ultimi posti di questa classifica un risultato assai implausibile. Il mistero è facilmente svelato: la definizione di ricercatore include una varietà di figure professionali, ma le pubblicazioni scientifiche provengono per la maggior parte da una sola di queste figure: i ricercatori accademici. Essi sono una maggioranza nei paesi sud europei inclusa l Italia, ma sono una minoranza (e molto piccola negli Stati Uniti) in quasi tutti gli altri paesi. Quando al denominatore usiamo i ricercatori accademici lItalia ha rapporti “pubblicazioni / ricercatore” (colonna 4) e “citazione / ricercatore” (colonna 5) ben inferiori agli USA, ma anche a Regno Unito, Olanda e Danimarca. Retribuzioni Il sistema retributivo italiano ha tre caratteristiche. Primo, la progressione retributiva dipende quasi esclusivamente dall anzianità di servizio: all’interno di ciascuna categoria di docenza (Ricercatore, Associato, Ordinario), la produttività è completamente irrilevante per la determinazione del salario. Le analisi di Daniele Checchi (1999) di Roberto Perotti (2002) mostrano chiaramente che il numero di pubblicazioni ha uninfluenza marginale nelle decisioni di promozione di categoria. Secondo, il profilo temporale della progressione salariale è molto “ripido”: si guadagna poco a inizio carriera, ma l anzianità viene remunerata molto bene. Consideriamo un giovane che diventi ricercatore a 25 anni, associato a 35 anni e ordinario a 45 anni: tra inizio e fine carriera il suo salario aumenta di un fattore pari a 5, sostanzialmente per effetto della sola anzianita (vedi Tabella 2). Proposte per una Riforma La causa principale dei problemi dell università italiana non è dunque la mancanza di fondi, bensì lesistenza di meccanismi sbagliati di distribuzione delle risorse. Le nostre proposte sono quindi volte a modificare il sistema di incentivi in modo che, a parità di risorse, nell’accademia italiana venga premiata l’eccellenza scientifica secondo parametri condivisi dalla comunità internazionale. Il nostro lavoro “Lo Splendido Isolamento dell Università Italiana” discute queste proposte in maggiore dettaglio. Tabella 1. La produttività e la qualità dei ricercatori italiani
Il nostro obiettivo in questo contributo (che si basa su Gagliarducci, Ichino, Peri e Perotti, 2005) e di illustrare tre punti fondamentali. Primo, mostrare che contrariamente ad una interpretazione diffusa – un analisi corretta dei dati bibliometrici rivela che la qualita della produzione scientifica Italiana e modesta. Secondo, discutere come lattuale sistema di remunerazioni e carriere induca incentivi sbagliati e allontani i “talenti”. Terzo, formulare una proposta di riforma a costo zero che modifichi profondamente il sistema di incentivi attuali.
Una misura della qualità, anziché della quantità, di pubblicazioni è data dal loro fattore di impatto, cioè dal numero di citazioni che essa riceve. La colonna 6 della Tabella 1 mostra il numero medio di citazioni per lavoro pubblicato nel periodo 1997-2001. LItalia ha un valore simile alla Francia, e superiore solo a Spagna e Portogallo.
Terzo, per effetto di questa progressione, e contrariamente ad una credenza assai diffusa, un ordinario italiano con 35 annni di anzianità è ben pagato anche rispetto ai suoi colleghi statunitensi. Come si vede confrontando la Tabella 2 con la Tabella 3, egli riceve un salario superiore a quello dell 80 percento dei professori ordinari nelle migliori università statunitensi (quelle con un programma di PhD), e superiore a quello del 95 percento degli ordinari nelle università con al più un corso di master (la stragrande maggiornaza delle università americane).
Il sistema retributivo dei docenti universitari negli Stati Uniti segue regole assai diverse. Il salario è negoziato individualmente, ed è quindi funzione delle opportunità di lavoro alternative, cioè, essenzialmente, dalla produttività di un professore. In conseguenza, a qualsiasi livello di anzianità la dispersione salariale è molto elevata (mentre in Italia è nulla). Ad esempio il rapporto tra i salario massimo (113,636 euro nelle piu prestigiose università con corsi di Ph.D.) e minimo (27,273 euro in un community college) di un assistant professor (ricercatore) è pari a circa 4.2. E un assistant professor di 25 anni molto produttivo e promettente può benissimo guadagnare ben più di un ordinario a fine carriera ma poco produttivo. Daltro canto, la progressione salariale in carriera è sempre ancorata alla produttività scientifica e non così accentuata come in Italia: a fine carriera un ottimo professore guadagna tra 1.5 e 2 volte il suo salario iniziale.
Questa è esattamente la struttura salariale che ci si apetterebbe se il salario fosse usato come strumento per incentivare la produttività e per premiare gli anni di ricerca più produttivi, che tipicamente sono quelli da inizio fino a metà carriera.
1. Liberalizzare le retribuzioni del personale accademico.
2. Liberalizzare le assunzioni: ogni università assume chi vuole e come vuole; di conseguenza, è abolito l’attuale sistema concorsuale.
3. Liberalizzare i percorsi di carriera: ogni università promuove chi e come vuole.
4. Liberalizzare completamente la didattica: ogni università è libera di organizzare i corsi come vuole e di offrire i titoli che preferisce.
5. Liberalizzare le tasse universitarie: ogni università si appropria delle tasse pagate da i propri studenti.
6. In alternativa alla proposta precedente, mantenere il controllo pubblico sulle tasse universitarie aumentandole però considerevolmente.
7. Utilizzare i risparmi statali così ottenuti per istituire un sistema di vouchers, borse di studio e prestiti con restituzione graduata in base al reddito ottenuto dopo la laurea.
8. Allocare ogni eventuale altro finanziamento statale alle università in modo fortemente selettivo sulla base di indicatori di produttività scientifica condivisi dalla comunità internazionale.
9. Consentire l’accesso a finanziamenti privati senza limitazioni.
10. Abolire il valore legale del titolo di studio.
pubblicazioni / ricercatori tot | citazioni / ricercatori tot | Ricercatori accademici / ricercatori tot | pubblicazioni / ricercatori accademici | citazioni / ricercatori accademici | impact factor medio | impact factor standardizzato | |
1 | 2 | 3 | 4 | 5 | 6 | 7 | |
USA | 1.00 | 8.60 | 0.15 | 6.80 | 58.33 | 8.57 | 1.48 |
Germania | 1.25 | 8.64 | 0.26 | 4.77 | 32.98 | 6.91 | 1.33 |
Regno Unito | 2.17 | 15.86 | 0.31 | 6.99 | 51.00 | 7.30 | 1.39 |
Francia | 1.45 | 9.43 | 0.35 | 4.09 | 26.68 | 6.52 | 1.12 |
Italia | 2.26 | 14.81 | 0.38 | 5.88 | 38.57 | 6.56 | 1.12 |
Spagna | 1.68 | 9.09 | 0.55 | 3.06 | 16.54 | 5.41 | .97 |
Portogallo | 0.86 | 3.99 | 0.52 | 1.65 | 7.62 | 4.62 | .82 |
Danimarca | 1.96 | 15.57 | 0.30 | 6.50 | 51.56 | 7.93 | 1.48 |
Olanda | 2.29 | 18.79 | 0.31 | 7.41 | 59.58 | 8.20 | 1.39 |
Canada | 1.68 | 11.79 | 0.33 | 5.04 | 35.28 | 7.00 | 1.18 |
Da Gagliarducci, Ichino, Peri e Perotti (2005).
Definizioni: Colonna 6: impact factor: definito come numero totale di citazioni / numero totale di pubblicazioni, entrambe per il periodo 1997-2001;. Colonna 7: impact factor standardizzato, 2002; vedi testo per la definizione.
Fonti: Pubblicazioni e citazioni: King (2004), dati riferiti agli anni 1997-2001; Impact factor standardizzato: King (2004), dati riferiti al 2002; Numero di ricercatori: OECD, Main Science and Technology Indicators database, dati 1999 (1998 per Regno Unito). Il numero di ricercatori è espresso in unità full time equivalent.
Tabella 2. Distribuzione dei salari accademici in Italia
Anzianità di servizio in anni | Professore Ordinario a tempo pieno | Professore Associato a tempo pieno | Ricercatore a tempo pieno |
0 (non conf.) | 47631 | 36053 | 20225 |
3 | 50412 | 37999 | 29244 |
5 | 54207 | 40684 | 31150 |
7 | 56900 | 42596 | 32516 |
9 | 60696 | 45280 | 34422 |
11 | 63388 | 47192 | 35788 |
13 | 67184 | 49876 | 37694 |
15 | 70979 | 52560 | 39601 |
17 | 73968 | 54683 | 41117 |
19 | 76957 | 56806 | 42633 |
21 | 79946 | 58928 | 44149 |
23 | 82935 | 61051 | 45665 |
25 | 85924 | 63174 | 47181 |
27 | 88913 | 65296 | 48698 |
29 | 91902 | 67419 | 50214 |
31 | 94891 | 69542 | 51730 |
33 | 96735 | 70851 | 52665 |
35 | 98578 | 72160 | 53600 |
37 | 100421 | 73469 | 54535 |
39 | 102264 | 74778 | 55470 |
Media | 77242 | 57020 | 42415 |
Da Gagliarducci, Ichino, Peri e Perotti (2005).
Nota: Dati aggiornati all’anno 2004. La tabella riporta il salario annuo in euro al lordo delle tasse per le tre categorie di docenti italiani al variare della anzianità di servizio, secondo la tabella elaborata dal CNU di Bari e pubblicata sul sito http://xoomer.virgilio.it/alpagli/. Poiché non disponiamo della distribuzione dei docenti italiani per anzianità, le retribuzioni medie nell’ultima riga sono calcolate ipotizzando una distribuzione uniforme.
Tabella 3. Distribuzione dei salari accademici negli Stati Uniti
Università con corsi undergraduate e corsi di dottorato | Università con corsi undergraduate e corsi di master | College senza corsi graduate | |||||||
Percentile | Full | Associate | Assistant | Full | Associate | Assistant | Full | Associate | Assistant |
1 | 49,091 | 38,182 | 30,909 | 41,818 | 34,545 | 29,091 | 36,364 | 29,091 | 27,273 |
5 | 56,364 | 43,636 | 36,364 | 47,273 | 40,000 | 32,727 | 41,818 | 34,545 | 32,727 |
10 | 68,969 | 52,678 | 44,994 | 53,526 | 44,728 | 38,386 | 42,749 | 37,871 | 32,906 |
20 | 73,139 | 55,133 | 46,742 | 56,721 | 47,005 | 40,217 | 47,956 | 40,698 | 35,404 |
30 | 77,091 | 57,091 | 48,378 | 59,075 | 48,733 | 41,338 | 51,109 | 42,951 | 37,047 |
40 | 79,738 | 58,875 | 50,493 | 61,465 | 50,515 | 42,336 | 53,589 | 44,857 | 38,552 |
50 | 83,820 | 61,747 | 51,825 | 63,913 | 51,879 | 43,435 | 56,944 | 46,835 | 39,592 |
60 | 89,466 | 63,622 | 54,266 | 66,523 | 53,535 | 44,788 | 59,843 | 48,796 | 40,931 |
70 | 94,616 | 65,989 | 55,896 | 70,540 | 55,623 | 46,265 | 63,037 | 50,730 | 42,147 |
80 | 98,730 | 69,816 | 58,476 | 75,203 | 58,567 | 48,661 | 67,198 | 53,529 | 44,383 |
90 | 108,003 | 73,599 | 63,804 | 81,060 | 63,645 | 51,465 | 78,941 | 59,007 | 48,832 |
95 | 119,212 | 79,177 | 65,953 | 86,323 | 66,372 | 53,279 | 86,854 | 64,672 | 51,373 |
99 | 195,455 | 122,727 | 113,636 | 122,727 | 92,727 | 80,000 | 122,727 | 83,636 | 69,091 |
Media | 91,529 | 62,400 | 53,251 | 69,193 | 54,555 | 45,417 | 65,293 | 50,392 | 41,901 |
Da Gagliarducci, Ichino, Peri e Perotti (2005).
Nota: Dati riferiti all’anno accademico 2003-04. La tabella riporta i percentili in euro della distribuzione del salario annuo al lordo delle tasse per i Full Professor, gli Associate Professor e gli Assistant Professor in tre categorie di università degli Stati Uniti. La fonte è il rapporto della AAUP (2004), in particolare le Tabelle 4, 8 e 9a. I dati si riferiscono a 1446 università per un totale di 1775 campus. Per la conversione della valuta abbiamo utilizzato il tasso di cambio corretto per Purchasing Power Parity pari a 1.11 dollari per euro.
Bibliografia:
Checchi, D., 1999, Tenure. An Appraisal of a National Selection Process for Associate Professorship, Giornale degli Economisti ed Annali di Economia, 58 (2), 137-181.
Gagliarducci S., A. Ichino , G.Peri e R. Perotti (2005) “Lo Splendido Isolamento dell Universita Italiana” Working Paper, Fondazione Rodolfo De Benedetti, Milano,
www.igier.uni-bocconi.it/perotti.Kalaitzidakis P., Stengos T. e Mamuneas T.P., 2003,
Rankings of Academic Journals and Institutions in Economics, Journal of the European Economic Association, 1 (6), 1346-1366.Perotti, R., 2002, The Italian University System: Rules vs. Incentives, www.igier.uni-bocconi.it/perotti
Inserita in quella sorta di patchwork di bandierine elettorali, una per ciascuna componente politica della maggioranza, che è l’ultima riforma della Costituzione.
Sepolta da una ridda di numeri sui suoi costi, spesso presunti. Privata del meccanismo
automatico di perequazione nella distribuzione delle risorse fra le Regioni. Da quasi tutti voluta e da nessuno realizzata, la devolution continua a dibattersi negli stessi problemi di sempre. A partire dalla mancanza di chiarezza sui sistemi di
finanziamento e sugli spazi di autonomia da riconoscere agli enti decentrati. Anche perché il dualismo economico del paese rende necessario un sistema perequativo efficiente e l’assenza di un quadro di regole condivise tra centro e periferia espone al rischio di fenomeni dirresponsabilità finanziaria, come quelli che si sono prodotti nel
caso della sanità.
Recenti grandi crack finanziari di Parmalat, Cirio e Volare stanno mettendo in crisi il decollo dei nostri mercati finanziari. Proprio in un momento in cui per le imprese italiane è di cruciale importanza trovare fonti di finanziamento alternative al credito bancario. Tra stallo della riforma del fallimento, e paralisi di quella sulla tutela del risparmio, si susseguono soluzioni tampone applicate, a colpi di decreti, soltanto ai singoli casi concreti.
Quando un’impresa cessa di pagare i suoi creditori, lo Stato interviene per tutelarli. Dal 1942 a oggi La legge fallimentare è del 1942. È pensata per un sistema in cui le imprese sono piccole e quando diventano insolventi significa che non c’è nulla da salvare. Così com’è oggi strutturata, la nostra legislazione fallimentare scoraggia inoltre l’intervento di investitori specializzati nel recupero delle imprese in crisi. Si tengono infatti a debita distanza, visto che la legge è così severa con tutti coloro che hanno avuto a che fare con l’impresa poi fallita, anche quando la scommessa di salvarla sia stata tentata in buona fede. Interessi costituiti e vecchi retaggi Il diritto fallimentare era, fino a pochi anni fa, il diritto del funerale dell’impresa. Oggi non deve più essere così: se pensato in termini moderni, si tratta di un settore importante e vitale, che può dare grande forza all’economia. Una riforma bipartisan? La cosa curiosa è che, in più punti, il testo dell’opposizione è più liberale delle bozze del Governo., Una riforma bipartisan, da fare in pochi mesi, non sembra dunque fuori dal mondo. Qualche apertura e disponibilità a collaborare vi è stata. (1) Disegno di legge C. 4797, presentato il 14 dicembre 2000 (primo firmatario Walter Veltroni). (2) Schema di disegno di legge redatto dalla commissione nominata con decreto ministeriale 27 febbraio 2004 dal ministro della Giustizia di concerto con il ministro dell’Economia e delle finanze. (3) Disegno di legge C. 5171, presentato il 14 luglio 2004 (primo firmatario Piero Fassino). (4) Disegno di legge S. 1243, presentato il 14 marzo 2002 su iniziativa del Governo.
Le forme sono moltissime e graduali: si va da un controllo su cosa fanno i suoi amministratori fino alla loro sostituzione con un curatore (o commissario, nelle grandi imprese), che prende possesso dei beni e, a seconda dei casi, li liquida o li trasferisce ai creditori. Fra questi due estremi si trovano molte forme intermedie di intervento e di controllo sull’impresa.
Il mondo è tuttavia molto cambiato da allora: le imprese sono oggi fatte d’idee più che di beni (e le idee non si vendono), i creditori sono sempre di più e conoscono poco i loro debitori (si pensi agli obbligazionisti). Spesso, infine, conviene agli stessi creditori che l’impresa continui a produrre invece di chiudere.
Proprio per questo dal 1979 abbiamo in Italia una normativa speciale per le grandi imprese (modificata nel 1999), le quali possono continuare l’attività anche quando sono insolventi, in attesa che le loro aziende vengano cedute in un tempo ragionevole (uno-due anni). È ciò che sta accadendo con Cirio.
Il quadro degli strumenti a disposizione del debitore e dei creditori resta però paurosamente incompleto. Per almeno tre motivi:
1) solo le grandi imprese (con almeno duecento dipendenti) possono tentare di salvarsi, con strumenti comunque insoddisfacenti. Decine di migliaia di altre aziende sono destinate a scomparire qualora vadano in crisi, anche se possiedano ancora valori da salvare;
2) i creditori, nel loro stesso interesse, possono certo accordarsi fra loro per aiutare il debitore in difficoltà a evitare il fallimento. Ma non è facile che riescano a farlo quando sono decine o centinaia o addirittura migliaia, se l’impresa ha emesso bond;
3) fino a oggi, e fino al caso Parmalat (per cui è stata adottata una legge speciale), l’unica cosa da fare in caso di crisi era vendere i beni dell’azienda, realizzando prezzi spesso modesti. Oggi è invece possibile trasferire l’impresa ai suoi creditori, facendoli diventare azionisti e conservando per loro tutto il valore d’avviamento. Solo però se ha almeno mille dipendenti. Un caso (fortunatamente) raro, anche se il probabile successo del piano di salvataggio Parmalat lascia pensare che ci saranno repliche per altre gravi crisi come sembra stia già avvenendo proprio in questi giorni per “Volare“
Che ci sia bisogno di una riforma del diritto fallimentare, per questi motivi e molti altri più tecnici, ognun lo dice. Perché non la si faccia è un’altra questione.
A partire dal 2000, sono apparsi progetti di legge che miravano a rovesciare le prospettive della legge fallimentare e a consentire salvataggi di imprese in crisi, pur senza riduzione della tutela dei creditori o inammissibili aiuti di Stato. (1) Finita la legislatura, si è buttato tutto nel cestino e si è ricominciato da zero. Dopo due anni di lavoro di un’ampia commissione (la commissione Trevisanato) sono arrivati altri progetti che, pur migliorando la situazione attuale, di innovativo avevano ben poco. Nemmeno quelli sono tuttavia passati. Perché?
La verità è che è difficile gettare abiti indossati per tanto tempo e cambiare mentalità d’improvviso.Questo vale anche per molti magistrati, affezionati al ruolo di gestori delle imprese in crisi che l’attuale legge loro riserva e restii ad affidare al mercato questo settore.
Le discussioni nella commissione Trevisanato si sono poi concentrate per mesi su aspetti marginali, probabilmente incomprensibili per un osservatore internazionale, incentrati a determinare se e quanto le banche, in caso di fallimento del loro cliente, debbano riversare al curatore di ciò che è passato dal conto corrente. Una sciocchezza, se comparata con gli interessi in gioco, ma una sciocchezza che nell’attuale legge colpisce pesantemente le banche (che vengono regolarmente citate in giudizio per somme ingenti, anche se quelle effettivamente versate sono spesso inferiori a quanto chiesto dal curatore) e dà grande lavoro ad avvocati e commercialisti. Si può capire perché su questo punto si sia così aspramente combattuto. Sulle spalle del paese, e in attesa di Parmalat.
Dopo il crack del gruppo di Collecchio nulla è più come prima: la legge sulla crisi delle grandissime imprese è stata più volte cambiata a colpi di decreto, per mettere (con successo) una toppa su un disastro che poteva diventare peggiore di come è già. I tecnici del Governo hanno da allora cominciato a produrre testi più moderni. (2) L’opposizione, nel luglio del 2004, ha ripresentato un nuovo testo. (3)
Nel frattempo, un progetto governativo di restyling dell’attuale legge fallimentare, dimenticato in Parlamento dal 2002, è stato recuperato e rivitalizzato nel tentativo di farlo assomigliare di più a una vera riforma. (4) Anche se le dinamiche parlamentari sono imprevedibili, è difficile che un testo intriso di sfiducia verso le imprese in crisi e verso il mercato, come la legge del 1942, possa essere trasformato nella riforma integrale di cui il Paese ha disperatamente bisogno: i rospi divengono principi azzurri solo nelle favole.
La questione è solo politica: i tecnici delle due parti potrebbero lavorare in sostanziale sintonia.
Basta che il Governo non pensi di fare una riforma così importante a colpi di maggioranza. Gli interessi costituiti e i vecchi retaggi, per essere superati in nome di una riforma vera, richiedono intese più larghe.
Le conseguenze sul mondo del risparmio dovute ai fallimenti che si sono succeduti sul mercato dei corporate bond italiani negli ultimi due anni sono ben note. Più nebuloso, e probabilmente più complesso, è l’impatto che questi eventi hanno prodotto sulle politiche finanziarie delle imprese italiane. Il campione Proprio per indagare questi aspetti, il Crea dell’Università Bocconi ha svolto un’indagine fra le cento principali società industriali e commerciali italiane, quotate e non. (1) E i risultati Quali sono i punti principali che emergono dall’indagine? (1) L’analisi si inquadra in un progetto di ricerca condotto dal Crea Bocconi grazie al contributo di Ras, Unicredit e Telecom Italia. (2) “Dati cumulativi di 1945 società italiane”, agosto 2004. (3) Secondo i dati riportati su “Le principali società italiane – Industriali e di servizi” di Mediobanca, agosto 2004.
A centoquaranta imprese italiane industriali e commerciali è stato inviato un questionario, le risposte ottenute centodue. Le società quotate sono settantanove – quelle dello SP-Mib e quelle a maggiore capitalizzazione, mentre le società non quotate sono state scelte in base alla classifica per valore aggiunto nelle classificazioni di Mediobanca. (2)
La capitalizzazione delle aziende che hanno risposto al questionario è di oltre 267 miliardi di euro (a fine settembre), ovviamente con peso preponderante delle blue chips. In termini di valore aggiunto per l’esercizio 2003, il dato complessivo del campione è pari a 95,4 miliardi di euro.
In primo luogo, si nota una differente valutazione tra impatto dei fallimenti sulla propria azienda e impatto sul sistema delle imprese nel suo complesso. Per la propria azienda, gli effetti sono rilevanti solo nel 49 per cento del totale, ma diventa il 64 per cento per le small caps quotate. Quando invece i direttori finanziari intervistati devono giudicare il sistema nel suo complesso, gli effetti sono rilevanti per il 94 per cento, con il 100 per cento per le non quotate e il 96 per cento per le small caps. Le aziende maggiori hanno quindi la percezione di “soffrire” meno delle Pmi l’impatto dei default. Due terzi degli intervistati indicano la fine del 2005 come il tempo necessario per “rientrare” dagli effetti negativi dei fallimenti, mentre un terzo pensa che sarà necessario un periodo più lungo. E il 43 per cento delle small caps quotate ritiene che le conseguenze si assorbiranno solo nel medio-lungo termine. Solo il 10 per cento delle aziende interpellate dichiara, però, di aver rinviato operazioni di emissioni obbligazionarie (“public” o “private”) nel 2004, ma il dato sale al 20 per cento per le small caps. Quanto ai tempi di concessione dei prestiti (sindacati o bilaterali) da parte delle banche di riferimento, per le società non quotate e per le small caps quotate le procedure si sono allungate, in media di tre mesi, in un terzo dei casi. E per ben il 32 per cento degli intervistati il ritardo è superiore ai tre mesi. Le small caps quotate sono quindi quelle che hanno risentito maggiormente del clima di sfiducia creatosi dopo il “caso Parmalat”, secondo il campione.
Tre quarti delle aziende interpellate sostengono che la “inadeguatezza” delle leggi in materia di fallimento ha aggravato le conseguenze dei default: la non adeguata tutela dei diritti dei creditori si traduce quindi in un costo addizionale per le aziende che chiedono fondi.
Per i collocamenti futuri, nel 71 per cento dei casi è previsto un maggior peso degli investitori istituzionali rispetto al passato nel “mix” tra istituzionali e retail. Tra le imprese del campione c’è la percezione che siano aumentati i controlli da parte di Bankitalia (73 per cento) e Consob (82 per cento), ma solo la metà degli intervistati li giudica efficaci. Peraltro, il maggior controllo significa allungamento dei tempi di autorizzazione: per Bankitalia nel 71 per cento e per Consob nel 68 per cento dei casi. Per migliorare l’efficacia dei controlli specifici della Consob, le imprese indicano alcuni interventi: in ordine di importanza, dovrebbero esserle attribuiti più poteri d’indagine, più poteri sanzionatori, più risorse umane provenienti dal mercato e la concessione di un potere di controllo di efficienza a intermediari e investitori (cioè al “tax payer”).
Inoltre, l’82 per cento delle imprese giudica che una migliore governance delle imprese sia necessaria per ridurre il costo di finanziamento sul mercato. A maggior ragione perché secondo l’86 per cento degli intervistati il peso delle regole di corporate governance sarà sempre maggiore nella valutazione del merito di credito dell’emittente espresso dalle società di rating. E quindi l’89 per cento delle società afferma di aver adottato provvedimenti per migliorare trasparenza e governance dopo i default. Solo nel 33 per cento dei casi (il 40 per cento per le non quotate) questo si è tradotto in oneri aggiuntivi significativi.
Oltre ai corporate bond, gli strumenti che hanno “patito” maggiormente le conseguenze dei default sono, nell’ordine, gli US Private Placements, le emissioni convertibili e le passività subordinate, mentre le asset backed securities e le cartolarizzazioni non hanno sofferto particolarmente. Solo il 37 per cento considera possibile entro il 2005 la riapertura del segmento retail del mercato dei corporate bond (naturalmente con rating) mentre l’84 per cento ritiene possibile entro il 2005 l’accesso agli “US private placements”.Gli intervistati giudicano i corporate bonds non rated, seguiti dai prodotti strutturati, gli strumenti meno trasparenti sul mercato finanziario. Mentre quelli che verranno utilizzati maggiormente nel prossimo biennio sono, in ordine di rilevanza, private placements, prestiti sindacati, corporate bond, asset backed e, solo da ultimo, collocamenti azionari e di convertibili. Forse incide su questa valutazione il fatto che in un quarto dei casi i direttori finanziari delle società quotate addebitano agli ultimi scandali finanziari un impatto negativo sui propri multipli borsistici. Infine, il 69 per cento (l’86 per cento per le imprese non quotate) ritiene che potrebbe rivelarsi efficace una norma che preveda più chiare responsabilità e l’attestazione di veridicità sui documenti contabili e sulla situazione patrimoniale-finanziaria da parte del direttore finanziario della società.
Si è aperto a Milano il primo troncone dei processi ai responsabili, veri o presunti, del disastro Parmalat. Migliaia di risparmiatori inferociti si sono costituiti parte civile. Cosa possono attendersi da questo nuovo atto della vicenda del gruppo di Collecchio? Risparmiatori di serie A e di serie B
. I risparmiatori danneggiati dal dissesto di Parmalat si dividono in due categorie: quelli che avevano acquistato obbligazioni (bond) e quelli che avevano acquistato azioni. I primi hanno fatto un prestito a Parmalat e speravano di ricevere il capitale e gli interessi, i secondi hanno fatto un investimento più rischioso, perché sapevano (o dovevano sapere) che sarebbero stati compensati solo se Parmalat avesse prodotto utili sufficienti e avesse distribuito dividendi. Nel crollo del gruppo Parmalat tutti hanno perso, ma gli azionisti hanno perso di più, perché hanno rischiato di più. Il piano di riorganizzazione di Parmalat si occupa solo dei creditori, ed è giusto che sia così: gli azionisti non possono in teoria ricevere nulla finché l’ultimo dei creditori non ha ricevuto fino all’ultimo centesimo. Dato che questo non accadrà, i vecchi azionisti di Parmalat sono fuori, e non si capisce come il ministro Alemanno in agosto abbia tentato di imporre a Enrico Bondi di considerare anche i piccoli azionisti: dato che nulla si crea dal nulla, ogni euro dato agli azionisti, piccoli o grandi che siano, verrebbe tolto ai creditori.
ma tutti danneggiati dalle frodi di Parmalat Tutti i risparmiatori, compresi quelli di serie B, sono stati tuttavia danneggiati dai bilanci truccati, dai prospetti mendaci e dalle varie frodi commesse dai diversi responsabili. Anche gli azionisti, infatti, avevano comprato azioni confidando su informazioni che si sono rivelate false, e non l’avrebbero certamente fatto se avessero saputo la verità. È per questo che tutti, obbligazionisti e azionisti, si presenteranno regolarmente ai vari processi penali, chiedendo di salire sul treno dei risarcimenti, costituendosi parte civile contro le persone fisiche responsabili del crack e, se verrà provato che le persone fisiche agivano nell’interesse di altre società, anche contro queste ultime. Una strada poco costosa, ma comunque incerta Nemmeno la strada della costituzione di parte civile è tuttavia priva di ostacoli. In primo luogo, provare la responsabilità di Calisto Tanzi, di Fausto Tonna, dell’avvocato Gian Paolo Zini, di alcuni fra i revisori e così via, sarà facile: ma quanto dell’enorme danno cagionato da Parmalat potranno essi risarcire? La scommessa dei risparmiatori è dunque quella di tirare nel mucchio dei responsabili le banche e gli intermediari finanziari che in varie fasi hanno avuto a che fare con Parmalat. Di coinvolgere cioè soggetti dotati di un patrimonio capace di essere aggredito. Per ora le persone giuridiche chiamate a rispondere degli illeciti sono tre (le filiali italiane di Bank of America, Deloitte & Touche e Grant Thornton), ma non è chiaro di quanto e come potranno essere chiamate a rispondere le case-madri, come pure le varie banche del cui ruolo si parla. In secondo luogo, ogni euro versato dai responsabili dovrebbe andare a risarcire i creditori, prima che gli azionisti. È per questo che crediamo che il commissario straordinario di Parmalat veda con sentimenti contrastanti la ressa dei risparmiatori ai processi penali: da un lato lo aiutano a creare la giusta pressione ambientale sui responsabili e sulle società che potrebbero in futuro essere chiamate a rispondere, ma dall’altro lato egli potrebbe dover dividere con loro una torta che non sarà mai sufficientemente grande per tutti. È così che si spiega perché il Codacons chieda l’esclusione di Bondi dal processo penale, in quanto è stato amministratore di Parmalat (ma solo negli ultimi giorni prima del crollo). L’argomentazione, alquanto debole, nasconde il desiderio di eliminare un commensale affamato da un banchetto che non si preannunzia abbondante. Quali speranze possono allora nutrire i risparmiatori costituendosi parti civili? Non moltissime. Perché il danno ai risparmiatori Parmalat venga risarcito in sede di processo penale occorre infatti che i dipendenti delle persone giuridiche (banche, eccetera) vengano condannati per un reato e che il loro comportamento criminale sia giudicato riferibile alle persone giuridiche per cui essi lavoravano. Ciò è molto più di quello che occorre per ottenere la condanna in una normale azione civile, dato che in quella sede è sufficiente dimostrare la colpa di chi ha arrecato un danno: basta cioè dimostrare un comportamento negligente o imprudente, e non necessariamente disonesto. Il processo penale non è un’occasione in cui fini controversie patrimoniali possono essere risolte secondo gli alti principi del diritto: per i risparmiatori è l’occasione della vendetta e, soprattutto, della speranza di arraffare qualche briciola gettata per placare la loro giusta rabbia. Il costo della costituzione di parte civile è tuttavia minimo rispetto a quello di un’azione civile per danni, e dunque vale la pena che ci provino. Tre strade per il risparmio tradito In conclusione, fino a ieri i risparmiatori traditi da Parmalat avevano due strade: agire contro chi aveva loro venduto i titoli, cercando di dimostrare che non erano stati adeguatamente informati, e (ma solo per i risparmiatori “di serie A”, cioè gli obbligazionisti) partecipare al piano Bondi, diventando azionisti della nuova Parmalat che risorgerà dalle ceneri del gruppo (si veda
Le regole sulle imprese in crisi vivono una stagione strana: da un lato un faticoso processo di riforma generale, con tempi lunghi, commissioni che lavorano in silenzio e producono soluzioni poco innovative. Dall’altro, un reality show con le regole dettate per la crisi Parmalat, approvate, applicate e molto più coraggiose. Il piano Il piano Parmalat prevede che venga costituita una società per azioni che assume l’attivo di sedici società della galassia Parmalat e ne paga i creditori. (1) Alla nuova società verranno attribuiti anche gli attivi che potrebbero derivare dalle azioni revocatorie e di risarcimento danni contro amministratori, sindaci, revisori e alcune banche e intermediari finanziari ritenuti (a torto o a ragione) responsabili del dissesto. Si tratta di un attivo del tutto incerto, ma che potrebbe ridurre le perdite dei creditori in misura anche significativa. D’altra parte la nuova società si assume anche il rischio delle cause iniziate contro Parmalat negli Stati Uniti, il cui costo, anche per spese legali, potrebbe essere elevato. Restano fuori dal piano di ristrutturazione quattro società del gruppo Parmalat (fra cui Parma calcio) e alcune società sotto il controllo dei Tanzi, ma non di Parmalat (ad esempio, Parmatour). I loro creditori riceveranno, secondo il sistema tradizionale, ciò che si ricaverà dalla vendita dei beni delle società. Fuori dal piano sono anche le società poste al di fuori dell’Unione europea (Brasile e Stati Uniti principalmente), la cui crisi verrà risolta secondo le norme applicabili nei rispettivi paesi. E i vecchi azionisti? Sono ormai fuori: la nuova Parmalat sarà infatti (solo) dei creditori. Si era per la verità ipotizzato di dare agli azionisti un warrant per acquistare le azioni della nuova società a condizioni di favore, per rientrare in gioco se queste azioni acquistassero nel tempo così tanto valore da compensare i creditori-azionisti di tutta la perdita subita. La cosa è tuttavia tecnicamente difficile e, forse, anche iniqua: i vecchi azionisti sono stati alla finestra, protetti dalla responsabilità limitata, mentre Parmalat franava sulle spalle dei creditori. Agli azionisti (diversi dai Tanzi) resta quindi poco da fare, se non agire per il risarcimento del danno contro i responsabili del dissesto e, qualora abbiano ricevuto le azioni in violazione delle norme sui servizi finanziari, contro gli intermediari da cui le abbiano acquistate. Parmalat: un caso “facile” Pur nella sua incredibile complessità tecnica, è bene tenere a mente che, dal punto di vista della soluzione, Parmalat costituisce un caso politicamente facile. L’indebitamento che è emerso è enorme, ma l’impresa ha un margine operativo positivo e si autosostiene. Nessun licenziamento è stato necessario, e anche la finanza-ponte, prontamente concessa dalle banche, non è stata utilizzata. Lo Stato ha contribuito, consentendo ai creditori agricoli e agli autotrasportatori messi in difficoltà dal crac Parmalat di accedere a un credito particolarmente agevolato. Il piano Parmalat, dunque, si limita a staccare i rami secchi e a liberare dai vecchi debiti un’impresa che, pur fragile, può riprendere a camminare da sola. Non si è posta, in altre parole, quell’alternativa fra tutela dei lavoratori (e dei fornitori) e tutela dei creditori che costituisce uno dei più difficili nodi “politici” della crisi d’impresa, soprattutto della grande impresa. La politica ha fatto da (interessato) sparring partner, ma non ha imposto in nome di interessi “politici” (occupazione, interesse nazionale) scelte che – soprattutto per gli obbligazionisti – sarebbero state indigeribili, con danni sul piano dell’immagine internazionale dell’Italia ancor più gravi di quelli che il caso ha già prodotto. Le lezioni da trarre Quali le lezioni della crisi Parmalat? Sono principalmente due, e così ovvie che è strano che l’Italia le abbia definitivamente apprese solo con questa crisi (e solo per la grande impresa, che nel nostro paese dà lavoro a una parte minoritaria degli occupati). (1) Si vedano le linee-guida del piano, presentato ai creditori il 4 giugno 2004: http://www.parmalat.com/it/doc/Creditors%20Meeting%204%20June%20(ii).pdf (2) La governance della nuova Parmalat è descritta al punto 3 del comunicato-stampa 17 maggio 2004: http://www.parmalat.com/it/doc/2004.05.17%20Linee%20guida%20it.pdf
Se ne trova conferma nel piano di riassetto del gruppo Parmalat, appena presentato al Ministro Marzano. Come aveva auspicato lavoce.info all’indomani dell’approvazione del decreto d’emergenza alla vigilia di Natale (Dl 23-12-2003, n. 347), il piano può avvalersi di regole innovative che il Parlamento ha adottato convertendo il decreto in legge (L. 18-2-2004, n. 39). Tali regole consentono al commissario Parmalat di operare una vera ristrutturazione finanziaria e di trasferire l’impresa in crisi ai creditori.
Il fatto nuovo è che mentre la nuova società pagherà in denaro (e per intero) i creditori privilegiati (fisco, lavoratori, artigiani, eccetera), “pagherà” con le proprie azioni tutti gli altri: le riceveranno in proporzione ai diritti che rispettivamente vantavano verso una o più delle sedici società. La nuova Parmalat, dotata di una governance all’avanguardia, verrà quotata in Borsa. (2)
I creditori che vogliono avere denaro potranno cedere le azioni, gli altri potranno giovarsi degli incrementi di valore che nel tempo dovessero prodursi. La perdita di un creditore oggi stimata, ad esempio, nell’80 per cento potrebbe ridursi (ma anche aumentare) in conseguenza dell’andamento delle azioni in Borsa.
Il piano, dopo essere stato presentato ufficialmente, sarà sottoposto nei prossimi mesi al voto dei creditori i quali, a maggioranza, potranno approvarlo o rifiutarlo. Se lo approveranno, entro un anno la nuova società potrebbe essere già operativa.
Ben diverso sarebbe, ad esempio, se Alitalia divenisse insolvente: le regole applicabili sarebbero le stesse (anche Alitalia ha più di mille dipendenti), ma il contesto sarebbe completamente diverso. Mentre Parmalat ha bisogno (soprattutto) di una ristrutturazione finanziaria, Alitalia avrebbe bisogno di una ristrutturazione industriale, per tornare a creare valore mentre oggi lo distrugge. All’eventuale commissario straordinario si presenterebbero scelte difficili, da operare sotto le direttive di una politica alle prese con una coperta troppo corta (creditori, lavoratori, divieto di aiuti di Stato).
(1) È importante avere una procedura che consenta la gestione dell’attivo e la continuazione dell’attività mentre il debitore (o il curatore) e i creditori negoziano una soluzione flessibile. Sembra incredibile, ma in Italia non c’è. Anche il Regno Unito, buon ultimo, se ne è dotato lo scorso anno, così completando un quadro che già era molto efficiente.
(2) È importante avere una procedura che consenta, accanto alla ristrutturazione industriale, anche la ristrutturazione finanziaria e che al limite eviti di dover vendere all’asta i beni dell’impresa (con le note perdite di valore dovute alle imperfezioni dei mercati). Esattamente questo accadrà con Parmalat, che invece di essere venduta a terzi verrà “venduta” ai suoi stessi creditori.
Anche se il prezzo è stato altissimo, la lezione di Parmalat potrebbe portare frutti positivi. Senz’altro li sta portando per il diritto della crisi d’impresa italiano, che fino a pochi mesi fa si basava su concetti antiquati e che oggi si trova proiettato in avanti dalle spinte del più grave dissesto degli ultimi decenni.
Il possibile successo di Parmalat non è facilmente ripetibile. Tuttavia, da qui occorre muovere per la riscrittura delle regole sulla crisi di tutte le imprese, grandi e piccole.
Un regime di regolamentazione, composto necessariamente di una pluralità di regole, strumenti e obiettivi, abbisogna di una strategia che lo renda rispondente al sistema che s’intende “controllare”. Le sanzioni nel nuovo diritto societario La riforma del diritto societario nel nostro paese sarebbe dovuta essere il risultato di un attento studio delle necessità del nostro sistema produttivo. Per difendersi dalla frode La stabilità del capitalismo, da noi come negli Stati Uniti e in altri paesi europei, è stata messa in pericolo da tre cause: la frode, l’accumulazione involontaria di rischi e la concessione delle opzioni su azioni, con le connesse modalità di contabilizzazione e di esercizio. Se questo è vero, ed essendo la frode un reato contro la fede pubblica, allora non si può prescindere dall’azione delle autorità di supervisione, della Guardia di finanza, che ha compiti di polizia economica, e delle procure della Repubblica. Ma questo non basta: per evitare che il potere pubblico arrivi quando il danno è stato arrecato, è necessario che vi siano dei filtri efficaci al livello dell’organizzazione aziendale, con obblighi sanzionabili. E affinché questi filtri funzionino, è necessario aumentare la loro distanza da proprietari e amministratori attraverso la divaricazione degli interessi. Quali filtri sono previsti? Vediamone alcuni.In primo luogo, i revisori esterni, che hanno oggi l’obbligo di certificare la contabilità. Perché questi siano utili sentinelle dovrebbero essere privati di ogni capacità di consulenza; bisogna eliminare il potenziale conflitto d’interessi che potrebbe insorgere domani e/o in un altro ordinamento. Ma per ottenere questo è necessaria una forte e coordinata pressione internazionale. Abbiamo poi i sindaci, ma anch’essi sono espressione della maggioranza, mentre sarebbe opportuno che fossero scelti dalla minoranza o, almeno, dai fondi comuni d’investimento che hanno nel proprio portafoglio titoli della società e/o del gruppo. Quanto alle sanzioni abbiamo diverse possibilità, con efficacia differente. Tornano le grida manzoniane? Abbiamo quindi tre opzioni di intervento: la revisione del nuovo diritto societario, la divaricazione degl’interessi tra amministratori e proprietari e organi di controllo e infine l’inasprimento delle sanzioni.
Ad esempio, se in un sistema economico prevalgono la quotazione in Borsa e la proprietà diffusa, è efficiente spostare il baricentro delle regole e dei controlli verso il mercato e verso le offerte pubbliche di acquisto o di scambio.
Se, al contrario, sono diffusissime le medie e piccole imprese sostanzialmente avverse alla Borsa, il fulcro della regolamentazione deve rimanere in maggior grado in ambito pubblicistico. E l’Italia, nonostante i progressi degli ultimi quindici anni, continua a esprimere un capitalismo familiare. In qualche caso, come quello Parmalat, anche un familismo amorale.
Invece, quella che è entrata in vigore il 1° gennaio 2004 ha proceduto sulla base di principi teoricamente condivisibili, ma avulsi dalla realtà italiana.
Infatti, si è garantita la massima libertà statutaria alla Spa in grado di emettere un’ampia tipologia di azioni, di ricorrere senza limiti, se quotata, all’indebitamento obbligazionario anche atipico, di scegliere il regime di direzione tra diverse opzioni. Alla maggiore libertà non si è però accompagnata una sanzione proporzionalmente accresciuta nel caso di violazione di obblighi, come il falso in bilancio dimostra.
Poiché tale sistema mal si addice a un capitalismo familiare come il nostro, prima o poi dovrà porsi mano a una sua revisione.
Nella ricerca della miscela di strumenti e incentivi adatta a ogni economia, vanno anche individuati il tipo di pericolo da cui bisogna guardarsi e chi è preposto a vigilare sul medesimo. E in Italia, dopo il caso Parmalat, la frode sembra essere quella che suscita il maggiore allarme sociale.
I consiglieri d’amministrazione indipendenti, quando esistono in società dalla forte impronta familiare, non sono affatto indipendenti, poiché sono scelti dal capo effettivo dell’azienda, che spesso è il presidente del gruppo, e restano in carica sino a quando sono a lui graditi.
Per i capi uffici della contabilità e della finanza vanno previste specifiche responsabilità fortemente sanzionabili, poiché per essi non è immaginabile una diversificazione degli interessi da quelli degli amministratori e dei proprietari. Particolari incentivi per chiunque voglia fare il whistleblower sono chiaramente poco efficaci, poiché sarebbe oggetto di ritorsioni prima e di discriminazioni poi.
Quelle restrittive della libertà dovrebbero essere riservate ai comportamenti più gravi, mentre sono da preferire quelle sospensive o interdittive dalla professione o dalla carica.
In fondo, a un regime capitalistico interessa estromettere, temporaneamente o definitivamente, persone che si sono dimostrate incapaci di osservare le regole del gioco. Va da sé che questo tipo di misure deve essere pienamente appellabile.
Purtroppo, solo quest’ultimo è rapidamente attuabile, come del resto è avvenuto negli Stati Uniti.
Purché non si tenti di configurare un improbabile reato di “nocumento al risparmio” (da 3 a 12 anni di galera) per chi causa un danno superiore all’1 per mille del Pil, (come è noto, il Pil è frutto di stime soggette a molteplici revisioni), o colpisca un numero di risparmiatori superiore all’1 per mille della popolazione (la cui entità è accertata dal censimento ogni dieci anni). Le grida manzoniane sono ancora di moda?
La proposta di istituire una SuperConsob contiene almeno un rischio: che si creda veramente di trasformare una pesante e lenta burocrazia come la Consob in un temibile ufficio ispettivo. È evidente che una valutazione complessiva sull’attività della Consob su un arco trentennale richiederebbe ben più che un paio di paginette. Sarebbe una valutazione inevitabilmente complessa, con luci e ombre. Il controllo delegato a Consob riguarda diversi soggetti, in particolare le “emittenti” (le società quotate), i revisori, gli intermediari finanziari. Esistono due tipi di controlli, quelli ex-ante (al momento dell’ingresso sul mercato, in particolare la quotazione delle società) e quelli ex-post, tramite ispezioni sui soggetti che operano. Controlli ex-ante: la quotazione di società Quando un’impresa viene venduta a un investitore privato, chi compra paga gli avvocati per effettuare un’accurata ricognizione di tutti i documenti della società venditrice, e segnalare ogni possibile problema (si chiama “due diligence”, la dovuta diligenza nell’accertare la situazione dell’impresa che si vuole acquistare). Quando un’impresa viene venduta sul mercato azionario, invece, né la Borsa italiana (che fissa i requisiti per la quotazione) né la Consob fanno nulla di tutto questo. È l’impresa che si quota a pagare consulenti e avvocati per imbellettarsi, e convincere le autorità che tutto è a posto. (1) Gli avvocati presentano alla Consob il prospetto, che sarà pubblicato per gli investitori, e l’elenco dei documenti sui quali il prospetto si basa. Nell’impresa c’è qualcosa che non va? Basta dire che il prospetto è compilato su un certo elenco di documenti, ed escludere da tale elenco le carte che potrebbero rivelare “grane”. Gli avvocati sono a posto: se una cosa non dichiarano di saperla, dimostrare che non si siano comportati correttamente è arduo. Sarebbe interessante sapere quante volte la Consob si è spinta oltre commenti solo formali sul prospetto (è troppo lungo, o troppo corto; questo passaggio è poco chiaro; e cose del genere). E quali cambiamenti siano stati apportati (purtroppo le versioni preliminari del prospetto non sono pubbliche, e ci si deve accontentare di “voci”, non tutte rassicuranti). Cosa succede nel resto del mondo? Anche altrove le autorità di controllo si affidano molto alla Borsa locale, ma in un contesto un po’ diverso. Mi pare che in Italia un maggiore controllo di Consob sarebbe forse auspicabile, quanto meno per i seguenti motivi: – la Borsa italiana ha come prima esigenza far crescere il numero di società quotate: quali incentivi ha a effettuare una severa selezione delle imprese? – mentre altri mercati che devono analizzare molte richieste di quotazione all’anno, possono avere team di analisti specializzati per settore, la Borsa italiana non li ha, e quindi la sua valutazione sulle società quotande è fatalmente più difficoltosa; – in mercati più sviluppati, il collocamento avviene tramite investitori istituzionali, che svolgono un ruolo di controllo e una attività di due diligence che in Italia non sono effettuate da nessuno; – le possibilità di controllo (ex-post) in Italia sono state da sempre più limitate (al di là delle critiche alla Consob, i confini imposti dalla normativa sono purtroppo risaputi.Vedremo cosa salterà fuori dalla riforma). Quindi una maggiore attenzione ex-ante sarebbe necessaria. È forse il caso di ricordare che la sentenza della Cassazione civile n. 3132 del 3 marzo 2001 sancisce come la Consob sia responsabile della affidabilità delle informazioni diffuse sul mercato. Controlli ex-post: Parmalat e dintorni Il presidente della Consob, Lamberto Cardia, si è lamentato, sostenendo che se la Consob avesse avuto la centrale dei rischi (banca dati in possesso della Banca d’Italia) avrebbe potuto intervenire sulla Parmalat. Nell’affaire Parmalat si mescolano le responsabilità di tanti, da questa parte come dall’altra dell’oceano, all’interno dell’impresa e fuori. Vi sono stati falsi (di cui forse solo a posteriori ci si poteva accorgere), ma è vero che una serie di osservatori da tempo sapevano che Parmalat non era in buona salute e che da sempre non dava informazioni chiare ed esaurienti. Ma allora serve rafforzare la Consob? Certo, le servono più poteri e più risorse, non negli uffici amministrativi, ma in quelli operativi. Soprattutto serve cambiare mentalità. Magari, se a tempo debito, i dirigenti Consob avessero alzato la voce con quelli della Parmalat
Per saperne di più Per una valutazione dei primi venti anni di attività della Consob, si rinvia a G. Nardozzi e G. Vaciago (a cura di) “La riforma della Consob nella prospettiva del mercato mobiliare europeo”, Il Mulino, 1994. F. Vella, Gli assetti organizzativi del sistema dei controlli tra mercati globali e ordinamenti nazionali, in “Banca, impresa, società”, 2001, p. 351. G. Visentini e A. Bernardo (2001)
Ha ragione il ministero dell’Economia: in un paese normale l’allarme devono darlo le autorità di vigilanza. E poiché nello scandalo Parmalat le irregolarità sono di una società quotata (sorvegliata dalla Consob), non possiamo che rilevare come chi dovesse vigilare sulla Borsa e su chi sollecita il risparmio privato, non lo abbia fatto in modo sufficiente.
Qui mi limito a sottolineare come la Consob, che magari ha operato bene sullo sviluppo del mercato di Borsa, ha spesso scelto un profilo troppo basso nell’attività di vigilanza, una di quelle cui è delegata.
È la funzione più importante? Non so, ma non è marginale.
Su entrambi abbiamo problemi, in parte dovuti al funzionamento della Borsa, in parte alla normativa esistente, ma in parte anche a Consob. Facciamo alcuni esempi.
Il fatto stesso che il prezzo di quotazione venga determinato senza che il prospetto dichiari quali ipotesi si facciano sui futuri flussi di cassa è indicativo.
Per la verità, non sono sicuro che insistere sulla responsabilità civile della Consob rappresenti “la soluzione”, ma una maggiore attenzione sarebbe di gran lunga preferibile. Se non si vogliono dilatare i tempi della quotazione, forse sarebbe sufficiente verificare dopo la quotazione che le informazioni fornite all’atto dell’Ipo siano veritiere e complete.
Come ha messo in luce Giovanni Ferri su lavoce.info, questo nel caso Parmalat non è vero. Sia perché il grosso dei debiti Parmalat erano sull’estero, e quindi non sono in questa banca dati, sia perché la Consob, se avesse veramente voluto far qualcosa, doveva semplicemente chiedere quei dati alla Banca d’Italia. E la Banca (se anche avesse voluto) non avrebbe potuto negarli.
Ma la cosa curiosa è che la Consob non ha mai chiesto alla Banca d’Italia questi dati, né per Parmalat, né per altri casi. Perché? Forse sarebbero serviti a poco, ma resta piuttosto forte la sensazione che la Consob, come “vigilante”, abbia preferito un ruolo notarile. D’altronde, se il motto della Sec (l’equivalente americano) è “the investor’s advocate”, da noi è tuttora diffusa la dottrina secondo cui la Consob debba essere super partes (e non, invece, proteggere soprattutto gli investitori).
Come denunciò Marco Vitale sul Corriere della Sera, è dal 1989 che alcuni investitori si lamentano della scarsa chiarezza delle comunicazioni societarie della Parmalat. Nel 1994, un articolo di Malagutti su “Il Mondo” denunciava il gioco delle tre carte della società: le obbligazioni Parmalat erano oggetto di scambi poco chiari, alla fine dei quali i quattrini sembravano moltiplicarsi come i pani e i pesci di evangelica memoria.
I bilanci Parmalat erano così “puliti” da non giustificare proprio alcuna reazione? Il presidente Cardia ha puntualmente elencato al Parlamento ciò che la Consob ha fatto. Sono interventi effettuati quando proprio non se ne poteva fare a meno, e quando ormai era tardi. Forse intervenire prima non avrebbe risolto il problema, ma almeno ora si potrebbe dire che qualcuno stava provando a suonare un campanello d’allarme.
Non è poi escluso che se la Consob avesse condotto ispezioni presso i revisori, qualcosa sarebbe saltato fuori per tempo. Ma purtroppo la vigilanza sui revisori è occasionale, e avviene solo su segnalazione di presunte irregolarità. Ovvero, si rischia di intervenire quando i buoi sono scappati. A quanto pare, infatti, la Consob ha un piano di vigilanza sistematico solo per gli intermediari, non per revisori e società quotate. E infatti esiste un ispettorato per gli intermediari (ventotto persone su un totale di quattrocento dipendenti), non per gli altri soggetti.
(1) Si ripresenta qui lo stesso problema di conflitto di interessi evidenziato da Luigi Guiso per i revisori dei conti: chi controlla le carte non è il controllore, ma qualcuno scelto e pagato dal controllato
Il conflitto di interesse si verifica quando un soggetto a cui sono istituzionalmente assegnate alcune finalità da perseguire con il suo operato, può da questo trarre vantaggi personali, minando il raggiungimento delle finalità assegnate può costituire, se non riconosciuto e controllato, una seria minaccia per gli investitori, fino a ostacolare lo sviluppo finanziario. Perché ci interessa? Cirio e Parmalat sono vividi esempi in cui il conflitto di interesse di alcuni degli operatori coinvolti ha avuto un ruolo cruciale. Vediamo perché. Parmalat. Vi è il fondato sospetto che la società di revisione abbia mancato di rivelare tutta l’informazione in suo possesso certificando bilanci alterati e falsificati, consentendo alla truffa imbastita dal management della Parmalat di perpetuarsi, a danno degli investitori. Perché avrebbe operato in questo modo esponendosi al rischio di una perdita di reputazione in un mercato, come quello degli auditor, relativamente competitivo? Perché chiudere un occhio sulle azioni scorrette del management garantiva il ripetuto rinnovo del contratto come revisore e possibilmente l’aggiudicazione di qualche contratto di consulenza. L’auditor era in conflitto di interesse. Ma non era il solo. Il collegio sindacale, il principale organo interno di controllo, ma nominato dal management e retribuito dalla stessa società, era in una simile situazione. Perché esercitare un controllo contabile severo (come da compito istituzionale del collegio sindacale) se questo poteva urtare il management e compromettere la riconferma dei sindaci alla scadenza? Anche questi ultimi si trovavano in conflitto di interesse. Cirio. In questo caso pure è stato avanzato il sospetto che alcune banche esposte verso la Cirio abbiano trasferito il rischio ai loro depositanti, “collocando” nei loro portafogli obbligazioni Cirio, della cui rischiosità erano, a differenza dei clienti, consapevoli. Il conflitto di interesse origina in questo caso dal fatto che la banca è allo stesso tempo prestatrice di fondi alle imprese e consulente finanziario e gestore dei portafogli dei propri clienti. Evidentemente l’etica non era sufficientemente robusta da resistere agli incentivi derivanti dallo sfruttamento del conflitto di interesse. In Italia, le avverse conseguenze del potenziale conflitto di interesse nel nuovo modello di banca universale dopo il 1993 sono state largamente sottovalutate. Il caso Cirio le ha fatte emergere, ma la loro portata è verosimilmente molto più vasta. Che fare? I casi Cirio e Parmalat hanno portato il Governo, su iniziativa del ministro del Tesoro, a varare un disegno di legge che nelle intenzioni dovrebbe contenere norme sufficienti a proteggere i risparmiatori da simili casi nel futuro.
Mercati finanziari poco sviluppati sono, a loro volta, un impedimento alla nascita delle imprese, alla loro crescita dimensionale, alla produzione e adozione di nuove tecnologie. In altre parole, un limite allo sviluppo economico.
Il rapporto del Cepr e del Icmb, “Conflicts of interests in the financial services industry: what should we do about them?“, che verrà discusso in un incontro ad hoc e di cui www.lavoce.info pubblica oggi un riassunto, mette a fuoco le origini del conflitto di interesse nei mercati finanziari, ne esamina le conseguenze e analizza i pro e i contro delle misure per fronteggiarlo.
In conflitto di interesse era pure il consiglio di amministrazione formato esclusivamente da persone nominate dal manager e scelte spesso tra gli dirigenti del gruppo. Che incentivo potevano avere, qualora a conoscenza delle malversazioni contabili che si compivano, ad andare contro il manager se da questo dipendeva la loro riconferma come consiglieri e, per alcuni, la carriera futura?
Emerge con la banca universale, modello che l’Italia ha adottato con il nuovo ordinamento bancario del 1993. Il rischio di conflitto di interesse nella banca universale era noto già dall’intenso dibattito svoltosi negli Stati Uniti nel 1933 in preparazione del Glass-Steagall Act. Ferdinand Pecora, consulente del Banking and Currency Commitee, evidenziava: “Si presume che una banca intrattenga un rapporto fiduciario e protettivo con i propri clienti e non di un venditore (
). L’introduzione e la diffusione dei nuovi compiti ha corrotto le fondamenta di questa tradizionale etica della banca”.
Manca qui lo spazio per entrare in dettaglio nel merito del provvedimento.
Ma un fatto emerge con chiarezza: nel disegno di legge non vi è traccia di norme mirate a regolare il conflitto di interesse di amministratori e sindaci. Quelle indirizzate a regolare il conflitto di interesse delle società di auditing sono, come è stato rilevato, insufficienti.
Non vi sono norme che richiamino i conflitti di interesse delle banche e individuino misure per fronteggiarli. Eppure, sono i conflitti di interesse alla base della scarsa protezione dei risparmiatori.
Più in generale, delle varie misure che il rapporto del Cepr suggerisce per limitare lo sfruttamento dei conflitti di interesse e che sono elencate nel riassunto pubblicato, nessuna trova spazio nel decreto governativo.
Al Parlamento, il compito di rivedere il testo, contribuendo a riassorbire il pericoloso sentimento antifinanziario che si è sviluppato tra i risparmiatori del nostro paese.
Nel dibattito sollevato dalla sconcertante vicenda Parmalat, Luigi Zingales ha prospettato l’introduzione di uno strumento, utilizzato negli Stati Uniti per facilitare l’individuazione di condotte criminose all’interno delle organizzazioni. Consiste nella possibilità di premiare quanti, dall’interno delle organizzazioni stesse, rivelino informazioni cruciali per lo svolgimento delle indagini: i cosiddetti whistle-blowers. È forse utile per inquadrare potenzialità e limiti di questa proposta analizzarla alla luce del problema di law enforcement che le autorità debbono affrontare nel perseguire i crimini attuati da organizzazioni, e nello specifico i cosiddetti corporate crimes. Inoltre, risulterà utile considerare questa proposta alla luce dell’esperienza di strumenti analoghi già utilizzati negli Stati Uniti e in Europa. Un crimine in collaborazione La principale caratteristica dei crimini commessi da organizzazioni, rispetto ai crimini individuali, risiede nella struttura più complessa e articolata del soggetto che promuove l’azione illegale, che richiede il coinvolgimento e la collaborazione di molti individui. Il disegno di una politica repressiva intelligente deve tenere conto di questi fattori messi in campo dalle organizzazioni per garantire la propria coesione e omertà, e prevedere incentivi adeguati a neutralizzarli. I Leniency Programs La politica di protezione nei confronti dei collaboratori di giustizia nelle indagini contro il crimine organizzato risponde sostanzialmente a questa logica. Queste indicazioni sono anche alla base della politica sanzionatoria adottata dalle autorità antitrust americana ed europea. Introdotti nel 1978, i Leniency Programs prevedevano inizialmente uno sconto nella sanzione solamente nel caso in cui i manager delle aziende coinvolti rivelassero informazioni prima che una indagine venisse avviata. In questa formulazione si rivelarono scarsamente efficaci, con uno o due casi ogni anno avviati sulla base di queste rivelazioni. Nel 1993 i criteri vennero riformati, prevedendo la possibilità di riduzioni, anche complete, nelle sanzioni penali qualora la collaborazione alle indagini fosse sostanziale e avvenisse anche dopo l’avvio delle indagini stesse. Con queste nuove regole l’efficacia dei Leniency Programs americani si è fortemente potenziata, con una media di venticinque casi all’anno conclusi con successo. La Commissione europea a partire dal 1996 ha introdotto strumenti analoghi, ulteriormente affinati nel 2002. Gli sconti nelle sanzioni, d’altra parte, consentono più rapidità nel concludere le indagini e un accertamento più pieno dei fatti (e delle risorse distratte). Gli sconti, inoltre, alzando il prezzo della fedeltà dei dipendenti coinvolti in condotte delittuose, riducono il profitto delle imprese derivante da tali condotte. Possono quindi operare indirettamente da deterrente rispetto a questi comportamenti. Per saperne di più M.Polo, Internal Cohesion and Competition among Criminal Organizations, in S. Pelzman e G. Fiorentini (eds.), The Economics of Organized Crime, Cambridge U.P. pp. 87-108, 1995.
All’interno di una organizzazione, inoltre, i benefici delle azioni illegali non sono ripartiti in egual modo tra tutti i soggetti che, con ruolo direttivo o esecutivo, partecipano alla loro realizzazione. Infine, le sanzioni, pecuniarie e penali, possono colpire molti soggetti all’interno dell’organizzazione, con ruoli e responsabilità diverse.
Nella vicenda Parmalat, ad esempio, ogni giorno apprendiamo nuove informazioni sulle tecniche di manipolazione contabile e di equilibrismo finanziario che hanno permesso l’accumularsi degli ingenti ammanchi, e di come numerosi uffici e funzionari partecipassero a queste operazioni.
I corporate crimes, pertanto, pur potendo determinare conseguenze ben più devastanti di quelle innescate dalla condotta delittuosa di un singolo soggetto, hanno in sé un elemento di debolezza che può essere sfruttata nel disegno delle politiche repressive e di indagine: la collusione (omertà) tra i soggetti promotori dell’azione delittuosa può saltare, con una conseguente diffusione di notizie preziose per le indagini.
Contro questa fragilità sono naturalmente molti gli strumenti che una organizzazione può mettere in campo, dai benefici monetari allargati ai membri attivi della malversazione (come non pensare al signor Fausto Tonna) alle sanzioni “sociali” che possono creare terra bruciata attorno a quanti rivelano informazioni preziose per le indagini.
L’analisi economica dell’applicazione della legge da questo punto di vista offre importanti spunti e riferimenti, che possiamo sintetizzare in questo modo:
1. L’incentivo dei singoli soggetti di una organizzazione a rivelare informazioni utili è relativamente basso quando le indagini non hanno ancora puntato l’attenzione sulla vicenda che li coinvolge: in questa fase, infatti, a fronte dei benefici che i soggetti ricevono dal partecipare all’azione delittuosa, il pericolo di subire l’azione della legge appare remoto.
2. Gli incentivi alla collaborazione, invece, risultano molto più elevati, inducendo a collaborare alle indagini, una volta che una inchiesta sia aperta, o almeno i rumors su eventuali malversazioni inizino a circolare. È in questa fase che tipicamente si osserva il moltiplicarsi delle collaborazioni (si pensi anche al periodo delle inchieste di Mani Pulite).
3. Maggiori sono i benefici offerti a quanti collaborano, più efficace risulta lo strumento. Se ad esempio viene previsto non solo l’annullamento della sanzione (monetaria o penale), ma addirittura un premio a quanti collaborino, come proposto da Zingales, l’incentivo a rompere l’omertà potrebbe essere sufficiente a far emergere rivelazioni anche in assenza di indagini già avviate.
4. La capacità delle imprese di “comprare” l’omertà dei propri dipendenti e funzionari è minore quando questi ultimi rischiano sanzioni penali, mentre è facilitata da un clima sociale omertoso che condanna la collaborazione.
Il dipartimento di Giustizia americano è stato l’apripista nell’utilizzo dei cosiddetti “Leniency Programs”, programmi di riduzione o annullamento delle sanzioni monetarie e penali nei confronti dei soggetti coinvolti in pratiche di cartello che collaborino alle indagini.
Sono stati creati partendo dalla constatazione che i corporate crimes non erano adeguatamente scoraggiati da sanzioni anche pesanti, senza una sufficiente capacità (probabilità) di arrivare alla condanna.
La lezione che ci viene dall’esperienza sanzionatoria in materia antitrust ci permette di imparare qualcosa di utile anche in materia di crimini finanziari.
Gli sconti nelle sanzioni (o addirittura i premi) non sono un sostituto per gli sforzi di indagine indipendente da parte delle autorità di vigilanza, dal momento che risultano più efficaci proprio quando le indagini iniziano a stringere il cerchio attorno alle condotte criminali. Così come la capacità di indagine e verifica sulle rivelazioni appare cruciale per evitare di essere catturati da collaboratori “infedeli”.
Infine, una cultura della legalità è background necessario per affiancare alla sanzione della legge quella sociale, e al premio al collaboratore il suo apprezzamento da parte della collettività.
M.Polo, Cosa Nostra: ritratto di un interno. Coesione e strutture, in Secondo Rapporto sulle priorità nazionali, Fondazione Rosselli, Milano, Mondadori (1995).
F.Ghezzi, M.Polo, Osservazioni sulla politica sanzionatoria della Commissione in materia antitrust: la Comunicazione sulla non imposizione di ammende, Rivista delle Società , v. XLIII, n.2-3, pp.682-731, 1998.
M.Motta, M.Polo, Leniency Programs and Cartel Prosecution, International Journal of Industrial Organization, 21 (3), 347-380, 2003
La storia di Parmalat sembra essere la conferma definitiva del noto proverbio: chi trova un amico trova un tesoro. Almeno fino a quando non arriva la Guardia di finanza. A Parma gli amici venivano tutti dallo stesso istituto di ragioneria, si conoscevano da anni, cambiavano società di revisione, ma mantenevano lo stesso cliente. Al centro di tutto vi era il nocciolo duro della famiglia: figli, zii, forse nipoti. Dal capitale sociale
Le relazioni economiche sono immerse in una rete di relazioni sociali. Legami di sangue, di amicizia, di fiducia e lealtà, di clan e dialetto, di comunanza culturale, religiosa o ideologica, aiutano a scegliere le parti con le quali preferibilmente scambiare, ci spingono a rischiare di più in queste relazioni economiche e ci consentono di farle durare nel tempo. Il capitale sociale sostiene la produzione e la riproduzione del capitale economico: lo sapeva bene Georges Duroy l’arrivista assoluto detto “Bel-Amì” e con lui tutti i frequentatori di salotti e terrazze importanti. Lo sanno quanti operano in un distretto industriale e si occupano di alleanze tra imprese, o coloro che affidano alla società di consulenza dove hanno iniziato una brillante carriera la ricca commessa che ora possono firmare come amministratore delegato di un’impresa.
Al familismo amorale Del capitale sociale si parla quindi bene. Forse troppo. Nella vicenda Parmalat, relazioni personali di parentela e di amicizia, reti chiuse e cementate dalla fiducia e dalla conoscenza personale hanno svolto un ruolo tale da consentire il protrarsi di una truffa di quelle dimensioni per ben quindici anni. Un sostituto del capitale finanziario Verrebbe da pensare che in quella fondamentale componente del capitalismo italiano rappresentata dalle aziende a proprietà familiare, il capitale sociale sia stato usato al posto di quello finanziario per sostenere la crescita senza perdere il controllo. Whistle-blower e spie Negli Stati Uniti nel gennaio del 2002 è stata varata una nuova legge, nota come “Sarbanes-Oxley Act”, che ha come finalità dichiarata quella di proteggere gli investitori migliorando l’accuratezza e l’affidabilità delle informazioni offerte dalle aziende e più in generale della loro gestione contabile e finanziaria. Nata come reazione decisa ai noti scandali, resta da vedere quanto sarà efficace. La mano pubblica può intervenire per rendere più conveniente questo calcolo e incentivare quindi le denunce dall’interno. Il Sarbanes-Oxley Act prevede espressamente per il whistle-blower la totale compensazione di qualsiasi danno dovesse subire a causa delle ritorsioni aziendali. Questo anche se la solitudine del politico che intasca la mazzetta richiede spesso una organizzazione criminale meno articolata e sofisticata di quella che l’azienda che gliela vuole dare deve mettere in piedi. E per tenere in vita una truffa enorme per quindici anni su scala globale occorre probabilmente coinvolgere un numero cospicuo di persone. Tutte pronte a parlare. Dopo. E tutte pronte a dire la stessa cosa: che eseguivano ordini irrifiutabili provenienti dall’alto.
Queste relazioni hanno un tale valore per l’azione economica che negli studi organizzativi da qualche tempo si è cominciato a parlare di capitale sociale per intendere proprio le maggiori possibilità di azione e di successo economico di cui gode l’attore che ha una dotazione elevata di relazioni sociali positive e con attori potenti, competenti, ricchi e affidabili, quanto e più di lui. Si è scoperto che quanto più elevato è il capitale sociale di un individuo, tanto più facile sarà per lui trovare un nuovo lavoro, o un’azienda partner per un accordo di joint-venture, o un banchiere disposto a prestargli soldi.
Il capitale sociale è una forza che riduce anche la complessità delle forme organizzative di governo degli scambi: se possiamo fidarci delle persone che abbiamo nella nostra rete di relazione, avremo meno bisogno di strumenti di controllo organizzativo costosi, come le regole formali o la gerarchia.
Esaminata da questa prospettiva la storia dell’azienda, del suo fondatore e della rete di relazioni che ha saputo sviluppare nel tempo ci ricorda che il capitale sociale è neutro rispetto alle finalità dell’azione che sostiene: può aiutare a raggiungere i propri scopi Gino Strada come Totò Riina.
E può produrre esiti negativi di entità preoccupante.
Può fare assomigliare Parma a Montegrano, il nome fittizio scelto negli anni Cinquanta dal sociologo statunitense Edward C. Banfield per il paese della Basilicata emblema del nostro “familismo amorale”. Ovvero la tendenza a restringere la validità e l’obbligo di rispetto delle norme morali alla sola ristretta cerchia delle proprie relazioni familiari, sviluppando una contrapposizione netta tra famiglia (e famigli), per il bene dei quali tutto si giustifica, e società in generale.
Può trasformare la rete di relazioni amicali e di fiducia in una trappola nella quale si fa forza sui “debiti” e “crediti” sociali per ottenere acquiescenza, se non proprio connivenza, rispetto a comportamenti scorretti. O più semplicemente può stendere un velo opaco di benevola presunzione pro-reo che riduce l’incisività dei controlli, ritarda i dubbi e le verifiche, lascia prosperare il male.
Rivolgersi all’amico banchiere o farsi consigliare fantasiose e ardite operazioni societarie da qualche esperto, non meno vicino e disponibile, forse costa e preoccupa meno di aprirsi al mercato dei capitali, di fortificare le proprie strutture organizzative con immissione di manager capaci e relativamente indipendenti e di distinguere in modo più netto e trasparente il patrimonio aziendale da quello familiare.
L’era moderna comincia quando le relazioni tra estranei sono rese possibili e vantaggiose da un sistema di regole definito e fatto rispettare da una autorità legittimata, da diritti e doveri, individuali e collettivi, impersonali e universali, dall’autodisciplina determinata dalla necessità di competere in modo ordinato nel processo di allocazione di risorse scarse. Senza questi ingredienti essenziali il capitale sociale, da solo, rischia di essere il pericoloso pretesto per un salto all’indietro in un mondo nel quale la fedeltà conta più della fiducia.
Dobbiamo allora imparare a osservare meglio anche il lato oscuro del capitale sociale. E darci gli strumenti che possano servire a spezzare questa utile, ma a volte pericolosa rete di legami.
Questa legge, oltre a prevedere fino a venticinque anni di galera per chi si rendesse colpevole di frodi al mercato azionario, parla della protezione del “whistle-blower”, letteralmente del soffiatore di fischietto. La spia, diremmo forse malignamente noi, visto che il colpo di fischietto serve per richiamare l’attenzione di chi sta fuori dall’azienda su cose non troppo pulite che vengono fatte e occultate all’interno.
La copiosa letteratura organizzativa che esiste sul fenomeno del whistle-blower, lo definisce infatti come colui o colei che fornisce informazioni a terzi relativamente ad azioni compiute dalla propria azienda, che potrebbero danneggiare altri o l’interesse pubblico, perché illegali o socialmente dannose. Corruzione, falso in bilancio, inquinamento, reati contro il diritto del lavoro, tanto per fare qualche esempio tra i casi più studiati.
Ci si è chiesti cosa motiva questo delatore a fin di bene. Valori morali a parte, la risposta sta nel calcolo dei benefici che si possono ottenere impedendo all’azienda di continuare nel proprio comportamento criminale in rapporto ai costi della denuncia. Costi in primo luogo determinati dalle ritorsioni che è lecito aspettarsi da parte dei manager responsabili dei comportamenti illeciti.
Ma si potrebbe essere ancora più proattivi, come proposto da Luigi Zingales proprio su lavoce.info, prevedendo premi proporzionali al danno evitato alla collettività o agli investitori con la denuncia.
Molti scandali italiani, a cominciare da tangentopoli, sono caratterizzati da una compatta omertà aziendale che curiosamente non ha attratto finora l’attenzione che forse meriterebbe.
Se l’onestà non paga, bisogna cambiare gli incentivi che la rendono la scelta migliore.
E magari cominciare a insegnare ai nostri figli una tiritera diversa da “chi fa la spia non è figlio di Maria
”
Il recente fallimento di Parmalat ha chiamato in causa la capacità di analisi e di controllo della comunità finanziaria. Tutti si chiedono come sia stato possibile che per anni nessuno tra banche, società di rating e di revisione in Italia e all’estero si sia accorto della reale situazione del gruppo. Un rischio prevedibile Immaginare che il “buco” di miliardi di euro sia solo il frutto di una appropriazione illecita di fondi è infatti difficile. Fino a dicembre, l’azienda godeva di un rating ufficiale di Standard&Poor’s pari a BBB- . Secondo S&P corrisponde a una probabilità di default pari a 0,43 per cento entro un anno e a 1,36 per cento a due anni. Anche gli spread di mercato sui bonds Parmalat sono aumentati solo nel mese di novembre, quando sono sorti i primi dubbi sul fondo Epicurum. Questi dati consentono di mettere in evidenza alcune anomalie. 1. Nell’ultimo consuntivo del 2002 Parmalat aveva debiti finanziari per quasi 6 miliardi di euro, ovvero un valore superiore al suo valore complessivo di mercato. 2. Il valore della capitalizzazione di mercato della società risultava inferiore a quello della presunta liquidità dichiarata, che era di oltre 3 miliardi di euro. Troppa liquidità Queste evidenze rappresentano una prima grossa stranezza e incoerenza che avrebbe dovuto far riflettere: una buona parte del valore di Parmalat era costituito da disponibilità liquide. Uno scenario improbabile È agevole verificare l’assoluta incoerenza di un simile scenario. Se la liquidità era veramente disponibile non vi erano ragioni perché si continuasse a finanziare una società che aveva risorse finanziarie in abbondanza. Se questa non era invece “disponibile”, era logico presumere che fosse “necessaria”, importa poco per quali fini, alla gestione dell’azienda. E allora in questo caso non si capisce perché si sia continuato a dare credito a una società il cui valore complessivo non copriva ormai più da tempo il valore del debito. (1) Su come sono ottenuti questi valori si faccia riferimento all’articolo di approfondimento.
Ormai è certo che da lungo tempo i dati contabili dell’azienda venivano alterati in modo da fornire una visione ufficiale distorta delle effettive condizioni finanziarie. Tuttavia, ci sembra che oggi l’attenzione sia concentrata prevalentemente sulle frodi contabili operate dal management, e sulle presunte distrazioni di fondi da parte del maggiore azionista. Elementi estremamente importanti, che però rischiano di far passare in secondo piano gli aspetti economici della vicenda.
È invece molto più probabile che buona parte del “buco” sia il risultato di una gestione non redditizia del business, conseguenza di una politica di acquisizioni insensata e investimenti sbagliati.
È infatti possibile dimostrare (e si rinvia all’articolo di approfondimento per i dettagli dell’analisi) che anche prescindendo dai falsi in bilancio, era comunque possibile stimare per tempo l’effettivo rischio finanziario del gruppo Parmalat utilizzando correttamente le tecniche di analisi finanziaria. E intuire che i conti ufficiali dovevano necessariamente nascondere qualcosa.
Si deve comunque sottolineare che fino alla fine del 2003 la comunità finanziaria non scontava un grave rischio di crisi finanziaria imminente per Parmalat.
I target price sul titolo azionario Parmalat delle maggiori banche di investimento erano in linea con le quotazioni di mercato, che negli ultimi anni, si sono di solito collocate tra i 2 e i 3 euro. Pertanto la capitalizzazione di mercato del capitale azionario presentava valori compresi tra 1.6 e 2.4 miliardi di euro, e un valore complessivo delle attività operative dell’azienda (Enterprise Value) compreso tra i 5 e i 5.8 miliardi di euro. (1)
Inoltre, il capitale azionario aveva un valore solo in quanto vi erano disponibilità liquide, il cui valore dichiarato risultava maggiore rispetto alla capitalizzazione di mercato della società: un paradosso. Tanto che, se questi dati fossero stati veri, agli azionisti sarebbe convenuto distribuire tutta la liquidità esistente come dividendo ricavandone così un valore della partecipazione superiore a quello dato dalla vendita delle azioni sul mercato.
Se ne può quindi dedurre che evidentemente la gestione operativa di Parmalat non era tanto redditizia, quanto meno non abbastanza da supportare quel livello di indebitamento.
È bene soffermarsi su questo aspetto. E sottolineare come, da un punto di vista economico, non esistono debiti alti o bassi, ma esistono debiti sostenibili o insostenibili: i dati dicevano che l’indebitamento di Parmalat non era più sostenibile dal business aziendale.
La solvibilità del gruppo e le aspettative sulla capacità di rimborso del debito quindi dovevano risiedere in gran parte nella liquidità accumulata e non nelle capacità prospettiche di generare flussi di cassa.
Questa considerazione avrebbe dovuto far riflettere su una seconda stranezza: perché mai una società con consistenti disponibilità liquide, ben superiori alle esigenze fisiologiche di flessibilità finanziaria di una multinazionale come Parmalat, continuava negli anni a mantenere livelli di debito così elevati da risultare non più sostenibili dal business aziendale? Risposte convincenti al riguardo non sono mai state date dalla società, né tanto meno era possibile desumerle dalla normale logica economico-finanziaria.
È forse vero che sulla base delle informazioni disponibili non era possibile immaginare una situazione deficitaria delle dimensioni che sembrano emergere. Tuttavia, alcuni segnali inequivocabili sullo stato di salute dell’azienda c’erano da molto tempo. Purtroppo sono stati ignorati o non correttamente valutati da parte dell’intera comunità finanziaria internazionale. Ciò suggerisce che probabilmente occorrerebbe rivedere alcuni aspetti alla base dei processi di analisi e controllo del rischio finanziario, e riflettere maggiormente sui pericoli di alcuni meccanismi di funzionamento dei mercati finanziari che tendono spesso a essere autoreferenziali e ad adottare comportamenti emulativi.
E’ ormai avviata per le principali società del gruppo Parmalat (Parmalat Spa e Parmalat Finanziaria Spa) la procedura accelerata di amministrazione straordinaria (da non confondere con l’amministrazione controllata) (1) disegnata dal Governo con il decreto-legge approvato subito prima di Natale proprio per rispondere alla crisi della società di Collecchio. In cosa consiste questa procedura? Dalla “legge Prodi” alla “Prodi-bis” Approvata d’urgenza nel 1979, la cosiddetta legge Prodi sull’amministrazione straordinaria delle grandi imprese in crisi (legge 95) prevedeva la pura continuazione dell’attività delle imprese insolventi in vista di un miracolo da attendere per anni a spese dei creditori. È stata abrogata nel 1999 dopo un lungo contenzioso con le istituzioni europee, che a più riprese avevano condannato l’Italia per la violazione delle regole sugli aiuti di Stato alle imprese, e sostituita con una normativa più flessibile, comunemente definita “Prodi-bis” (decreto legislativo 270). La normativa del 1999 si applica alle imprese con almeno duecento dipendenti e prevede alternativamente: Quali sono le deroghe Le deroghe introdotte dal decreto Parmalat alla Prodi-bis del 1999 si applicano alle aziende con almeno mille dipendenti (e debiti per almeno un miliardo di euro). Tali deroghe, che mirano ad una accelerazione della procedura, sono essenzialmente le seguenti, concentrate soprattutto nella fase di avvio: (a) la decisione sull’indirizzo da scegliere (la ristrutturazione) è immediata, senza la fase di analisi, ed è lasciata all’impresa e al ministro (e non al tribunale); (b) il ministro (e non il tribunale) sceglie il commissario straordinario. Nel caso Parmalat il Ministro ha nominato Bondi, persona indipendente dagli azionisti di controllo, che era già presidente delle società insolventi e che ha pertanto assunto anche le nuove funzioni; (c) il commissario può fare dismissioni immediatamente, anche prima dell’approvazione del programma, purché con l’approvazione del ministro (l’1,5% di Mediocredito Centrale ceduto ieri a Capitalia è la prima Secondo le stesse regole della Prodi-bis, Parmalat dovrà completare la ristrutturazione economica e finanziaria entro due anni. Se non lo farà, e salvo normative di salvataggio, si procederà alla liquidazione dei suoi beni. Perché una legge “ad hoc”? C’era bisogno di una legge speciale? No, se si fosse fatta la riforma delle procedure ordinarie, che quando sono sufficientemente rapide e flessibili (come in alcuni progetti di legge già presentati) rispondono perfettamente anche a crisi di grandissime imprese come la Parmalat. Con l’attuale normativa, invece, la rapidità della crisi di Parmalat e l’esigenza di garantire continuità alla sua attività hanno creato lo spazio per un intervento d’emergenza. Rapidità e flessibilità dovrebbero tuttavia caratterizzare tutte le procedure, per grandi e piccole imprese, ed il decreto Parmalat è la conseguenza dell’incapacità politica di giungere ad una riforma generale della legge fallimentare. Non si comprende, però, perché l’accelerazione dell’avvio della procedura abbia portato al rafforzamento dei poteri del ministro: lo stesso risultato poteva essere raggiunto anche lasciando i poteri al tribunale. Sembra quindi che la gravità della crisi sia stata la scusa per preparare la strada a decisioni meno trasparenti ma questo, per ora, è solo un processo alle intenzioni. Un salvataggio statale? Sembra invece fuori luogo gridare al salvataggio statale, almeno nella sua versione attuale. E’ importante ricordare cosa fosse già presente nella Prodi-bis del 1999: il decreto Parmalat altro non è se non una procedura di amministrazione straordinaria accelerata, che evita ad esempio l’inutile periodo di “analisi” che si è avuto per la Cirio e le incertezze connesse a tale ritardo. Strumenti per la ristrutturazione finanziaria Il decreto Parmalat rappresenta tuttavia un’occasione perduta per ampliare la gamma degli strumenti di soluzione delle crisi d’impresa, che nel nostro paese è veramente molto ristretta e che tale è rimasta. Si deve dunque ritenere che il compito di Enrico Bondi sia destinato a fallire? Forse no, soprattutto se il Parlamento e il Governo, sollecito ma non molto fantasioso, gli daranno più armi al momento in cui il “decreto Parmalat” dovrà essere convertito in legge. (1) L’amministrazione controllata produce infatti una mera sospensione delle azioni dei creditori in vista di un risanamento più o meno spontaneo, ed è quindi poco adatta a situazioni di crisi che richiedono interventi energici e incisivi. È scarsamente utilizzata nella pratica. (2) Corte di Giustizia delle Comunità Europee, caso PreussenElektra AG del 2001 (caso C-379/98). (3) Quando il passivo supera l’attivo, i soci hanno interesse a consentire l’ingresso dei creditori nel capitale solo se viene loro riservato qualche vantaggio, quale ad esempio il mantenimento di una quota di minoranza che a loro non spetterebbe sulla base dei dati patrimoniali della società
(a) la cessione dei complessi aziendali dell’impresa insolvente: in attesa di trovare un acquirente vengono mantenuti in attività per un periodo massimo di un anno;
(b) la ristrutturazione economica e finanziaria dell’impresa insolvente, da completare entro un periodo massimo di due anni.
Quale obiettivo debba essere perseguito viene deciso al termine di una fase di analisi che dura da due a cinque mesi. Se nessuno dei due obiettivi sembra ragionevolmente raggiungibile (quando ad esempio l’attività distrugge irrimediabilmente ricchezza, sì che non è ragionevole sperare di trovare acquirenti), l’impresa viene dichiarata fallita.
dismissione e il Parma calcio potrebbe seguire a breve);
(d) il commissario può proporre le azioni revocatorie (cioè di impugnativa degli atti posti in essere dalla società e di restituzione dei pagamenti da essa effettuati), che di regola possono essere proposte solo in fase di liquidazione del patrimonio (Parmalat è invece in corso di ristrutturazione).
E’ infatti evidente che l’attività di Parmalat doveva innanzitutto essere continuata, soprattutto nell’interesse dei creditori, e sarebbe stata continuata anche con la Prodi-bis. Può darsi (ed è anzi probabile) che Parmalat abbia distrutto ricchezza, ma ciò non è una buona ragione per distruggere anche quella (poca o tanta) che resta. Invocare il fallimento come sanzione per gli errori o i per i falsi compiuti dai manager e dai controllori è operazione antistorica, che trascura che i primi ad essere puniti sarebbero in questo caso i creditori: la punizione per gli azionisti resta comunque. Si valuti dunque con calma quali attività di Parmalat debbono essere cessate o ristrutturate, ma nel frattempo occorre tenerle in vita. E’ semplice fare di un acquario un fritto misto, mentre l’operazione contraria è più difficile.
Nessun aiuto di Stato, inoltre, è previsto dal decreto Parmalat. Certo, non si può escludere che in futuro vengano erogati aiuti di Stato a Parmalat o ai soggetti colpiti dal suo dissesto: saranno tuttavia quelli a dover essere valutati alla luce dei principi comunitari ed eventualmente a dover essere criticati. Anche la deroga per le azioni revocatorie (vedi sopra) è un regime di favore e può configurare una anomala forma di finanziamento di Parmalat, ma non è di per sé un aiuto di Stato. (2) Essa è quindi discutibile proprio in quanto deroga, ma è inutile invocare Bruxelles: per criticarla basta il principio di eguaglianza previsto dalla Costituzione italiana.
Per Parmalat il Governo ha scelto la seconda delle due alternative possibili secondo la Prodi-bis del 1999. Quella che mira a effettuare, assieme a una ristrutturazione industriale, anche una ristrutturazione finanziaria. Tuttavia, mentre il commissario straordinario ha sostanzialmente pieni poteri sul lato industriale, non ha alcun potere di incidere sul lato dell’indebitamento: per ristrutturare il passivo deve ottenere il consenso di ciascuno dei creditori, ai quali può offrire quote di capitale (azioni o obbligazioni convertibili in azioni) solo se l’assemblea dei soci lo consente. (3)
Anche nella “variante Parmalat” dell’amministrazione straordinaria, l’unica possibilità di “ristrutturare” il passivo è dunque quella di un concordato (articolo 78 decreto legislativo 270/1999), che consente di modificare le condizioni del debito con l’autorizzazione del tribunale.
Il concordato è però strumento alquanto rigido, perché include tutti i creditori non garantiti in un unico grande gruppo e richiede, come nel caso Parmalat, che migliaia di creditori (banche, obbligazionisti, etc.) siano trattati esattamente allo stesso modo, salvo un loro consenso individuale a un trattamento peggiore.
Questa carenza della legislazione italiana e di molti paesi europei (esclusa la procedura tedesca che divide i creditori in classi, e quella americana di Chapter 11 che addirittura consente di attribuire ai creditori anche azioni della società ristrutturata), non è minimamente sanata dal decreto Parmalat, che si limita ad accelerare la procedura di amministrazione straordinaria così com’è.