Il rischio di bocciatura dell’Irap da parte della Corte di Giustizia Europea, per quanto immotivato dal punto di vista giuridico ed economico, ha riportato alla ribalta il dibattito su come sostituire la terza imposta del nostro ordinamento.
Fra le opzioni che sono discusse negli articoli che seguono, alcune puntano a preservare le caratteristiche dell’Irap (ipotesi dello “spacchettamento”), altre considerano imposte alternative, sui redditi o sui consumi. Fra queste, assumono particolare interesse quelle che garantiscano autonomia impositiva alle regioni, e sono meno sperequate sul territorio. Su un tema così delicato è comunque fondamentale evitare l’improvvisazione.

L’IRAP FUNESTA
Massimo Bordignon

Si moltiplicano le aspettative di un intervento governativo sull’Irap. Una volta tanto, si tratta di aspettative fondate. C’è una necessità tecnica, indotta dalla probabile decisione negativa della Corte di giustizia europea sulla compatibilità del tributo con la disciplina comunitaria sull’Iva. Ma soprattutto, c’è una necessità politica. Il neonato Governo si sente obbligato a spostare sul fronte delle imprese le facilitazioni tributarie originariamente previste per le famiglie, vista la crisi economica e la recente sconfitta elettorale. Ma come farlo?
Qui il dibattito è aperto, e la materia si configura assai complessa. Ogni riforma prefigurabile deve infatti soddisfare simultaneamente un insieme di requisiti giuridici e tecnici, ma deve anche tener conto degli effetti sul gettito, di quelli distributivi, di quelli sugli incentivi e così via. Come se non bastasse, c’è un ulteriore elemento da considerare: l’impatto sull’autonomia regionale.

Regionale, ma sperequata

In effetti, l’Irap è la principale imposta delle Regioni. Ne finanzia da sola quasi la metà delle spese e su di essa le singole Regioni godono di un’ampia autonomia, sia in termini di aliquote che di riparto dell’onere tra i contribuenti. Inoltre, l’evidenza disponibile dimostra che finché hanno potuto, le Regioni hanno effettivamente cercato di “gestire” il tributo come uno strumento distributivo e di sviluppo del territorio.
Ma l’Irap è davvero una buona imposta per degli enti territoriali? Su questo fronte, le critiche sono state tanto feroci quanto poco convincenti. (1) Il vero problema del tributo come imposta regionale è la sua fortissima sperequazione sul territorio, non sorprendente visto che la base imponibile è (una definizione del) il valore aggiunto. Per la componente “privata”, l’unica su cui le Regioni hanno spazi di manovra, la differenza tra la Regione più ricca e quella più povera in termini pro-capite raggiunge il 700 per cento. Queste differenze possono certo essere colmate dal sistema perequativo. Che però è tanto più complesso tecnicamente, e tanto più difficile da gestire politicamente, quanto maggiori sono le differenze ex ante che deve compensare. L’esperienza del decreto 56/2000 e l’incapacità della politica di proporre un sistema di federalismo fiscale convincente a quattro anni dall’approvazione del Titolo V, sono la prova provata di queste difficoltà. Dunque, qualunque intervento di riforma radicale sull’Irap deve anche farsi carico di sostituirla con un tributo che offra altrettanti margini di manovra alle Regioni e che sia nel contempo anche meno sperequato. Su questo c’è un’ampia discussione, di cui diamo conto nell’articolo a fianco.

Le alternative concrete

In realtà, le proposte di riforma “concrete” dell’Irap di cui si parla, non comportano né una riduzione corrispondente delle spese né tanto meno una riforma radicale del tributo, ma piuttosto una sua riformulazione. Questo rende da un lato il problema più semplice, perché modifiche limitate hanno anche effetti ridotti sia sul gettito che sugli effetti distributivi della riforma. Dall’altro, lo rende anche più complesso perché richiede che comunque l’eventuale gettito perduto venga recuperato da qualche parte. Vediamo le proposte in dettaglio, seguendo lo schema di Giannini e Guerra.
L’ipotesi dello “spacchettamento” non richiede commenti particolari. Nella sua versione estrema, si tratterebbe di mantenere l’imposta cambiandone il nome. Con qualche maggiore difficoltà sul piano dei rapporti tra governi nel caso di alcune modifiche possibili (per esempio, la deducibilità dei re-introdotti contributi sul costo del lavoro) su cui non vale la pena di insistere qui, l’autonomia regionale sui nuovi tributi potrebbe essere mantenuta inalterata, così come inalterate rimarrebbero naturalmente le attuali difficoltà indotte dalla sperequazione della base imponibile. L’ipotesi di un’abolizione totale del costo del lavoro dalla base imponibile dell’Irap avrebbe invece effetti rilevanti sia sul gettito che sull’incidenza effettiva del tributo. Difficile dire per esempio in quale misura la riforma si tramuterebbe in un incremento dei profitti, dei salari o in una riduzione dei prezzi. Il problema è che, a seconda di queste diverse ipotesi di traslazione, la logica vorrebbe che la compensazione del gettito venisse ricercata su cespiti di imposta alternativi, Ires e Irpef nel primo caso, Iva nel terzo. Gli effetti redistributivi sarebbero comunque pesanti, non solo tra i percettori dei vari redditi, ma anche in termini di cadute differenziate di gettito tra le varie Regioni. In termini relativi, ne soffrirebbero di più le Regioni più ricche, non necessariamente un aspetto negativo, vista la necessità di riequilibrarne la dotazione finanziaria.
Sul piano regionale, per mantenere spazi di autonomia, la compensazione andrebbe ricercata prevalentemente sull’addizionale sull’Irpef, con tutti i caveat discussi nell’altro mio articolo. Ma sarebbe opportuno anche un incremento della compartecipazione regionale all’Iva, per avere più spazi a disposizione nel fondo perequativo per compensare gli effetti della riforma sulle Regioni.
Nel terzo caso, l’abolizione solo degli oneri contributivi dalla base imponibile dell’Irap (o del tributo che la sostituirebbe sui redditi da lavoro dipendente), il problema si presenta più agevole e una possibile soluzione, anche per quanto riguarda le Regioni, è già adombrata da Giannini e Guerra. Su questo c’è solo da notare che, mentre un innalzamento delle imposte sulle rendite finanziarie appare auspicabile in generale sia per motivi di equità che di efficienza, esso non interessa che marginalmente il problema della finanza regionale e soluzioni alternative potrebbero essere trovate. È probabile che per ragioni di gettito e di opportunità politica, le proposte di revisione dell’Irap si risolvano in una riforma limitata e che dunque limitati saranno anche gli effetti sulla finanze regionali. In un certo senso è un peccato, perché sarebbe stato opportuno che, mentre si discute di riforma dell’Irap, si cercassero anche soluzioni più soddisfacenti al problema dell’individuazione di un sistema tributario appropriato per le Regioni italiane.

(1) Le critiche principali rivolte in passato all’Irap su questo fronte, di nuovo riprese nel dibattito di questi giorni, sono essenzialmente due: 1) l’Irap non rispetta il principio del beneficio: si tassano le imprese per finanziare un servizio alle famiglie, la sanità; 2) un’imposta territoriale sulle imprese è soggetta a fenomeni di competizione fiscale, data la mobilità delle imprese tra Regioni. Ma queste critiche non sono molto convincenti: 1) non è chiaro se l’Irap sia davvero un’imposta sulle imprese, e comunque nella sua base imponibile ci sono i redditi che vanno alle famiglie; 2) l’ampliarsi delle funzioni attribuite alle Regioni con il Titolo V e l’abolizione del vincolo di destinazione alla sanità del gettito Irap depotenzia la critica 3) la competizione fiscale nel caso dell’Irap è certamente limitata, dato che il riparto tra Regioni della base imponibile è basato su un principio di “fonte” (la distribuzione della forza lavoro sul territorio nazionale) e non di residenza. Piuttosto, da un punto di vista della validità dell’imposta come tributo regionale, più preoccupante è il problema dell’”esportazione dell’imposta”, cioè la possibilità che attraverso la traslazione dell’imposta sui prezzi, l’Irap sia esportata sui residenti di altre Regioni. Ma questa è un’altra storia.



L’IRAP E’ MORTA. VIVA L’IRAP
Silvia Giannini e Maria Cecilia Guerra

A più di un mese dalle conclusioni dell’avvocato generale della Corte di giustizia europea sull’incompatibilità dell’Irap con le norme comunitarie, non sembra che siano stati fatti passi avanti significativi per trovare possibili vie d’uscita al pasticcio in cui il Governo si trova, anche per non aver voluto adeguatamente difendere un’imposta contrastata da sempre.

Una sostituzione difficile

La sostituzione dell’Irap pone problemi di gettito, distributivi e allocativi di estrema importanza e di non facile soluzione, che andrebbero attentamente studiati. Il rischio è l’improvvisazione normativa, dettata dall’urgenza di evitare un crollo dei prossimi versamenti o una sentenza di condanna della Corte. Il dibattito che si è sviluppato non sembra infatti avere tenuto sufficientemente conto di tre elementi che sono invece fondamentali e fortemente interrelati:
1. Il vincolo di gettito. L’eventuale superamento, integrale o parziale, dell’Irap deve accompagnarsi all’individuazione di entrate sostitutive. Molti degli interventi sul tema sembrano invece dare per scontato che esistano 12 miliardi di sgravio che possono a piacimento essere giocati nella riduzione delle imposte sulle famiglie (Irpef) o sulle imprese (Irap).
2. La coerenza del sistema tributario. L’Irap, con più di 33 miliardi di gettito, è la terza imposta del nostro sistema tributario, dopo Irpef e Iva e porta da sola più del 9 per cento delle entrate tributarie complessive delle amministrazioni pubbliche. La sua sostituzione con altre forme di prelievo pone delicati problemi di ripartizione del carico tributario che non riguardano solo la distribuzione personale e familiare, ma anche quella fra diverse categorie di contribuenti (pensionati, lavoratori dipendenti, lavoratori autonomi, ditte individuali, società di persone, società di capitali) e fra diverse tipologie di reddito (di lavoro dipendente e di lavoro autonomo, di impresa e di capitale). Va inoltre valutata in relazione agli effetti economici che si intende perseguire.
3. Le modalità di finanziamento delle Regioni. L’Irap, per quanto imperfetta, ha dotato le Regioni di un’importante forma autonoma di imposizione locale, con caratteristiche che andrebbero preservate.
Con questi tre criteri in mente, si possono valutare le più importanti ipotesi sino ad ora avanzate. È importante ricordare che la base imponibile dell’Irap – il valore aggiunto tipo reddito netto – può essere scomposta, con alcune approssimazioni, nelle seguenti componenti.

Utili (derivanti dall’attività produttiva del soggetto, esclusi quindi proventi finanziari e partite straordinarie) + interessi passivi + costo del lavoro (comprensivo degli oneri contributivi, deducibili dall’imposta sul reddito, ma non dall’Irap).

L’ipotesi dello” spacchettamento”

Una prima ipotesi consiste nel cercare di salvaguardare le caratteristiche dell’Irap, apportando alcuni aggiustamenti che permettano di aggirare i rilievi che potrebbero essere sollevati dalla Corte di giustizia europea. A tal fine, l’Irap potrebbe essere “spacchettata” e cioè divisa in due o più imposte, ciascuna delle quali riferita a una o più componenti della sua base imponibile, preservando gli effetti complessivi dell’attuale tributo. (1)
In particolare, effetti pressoché equivalenti all’attuale Irap potrebbero essere ottenuti attraverso due tributi separati:
a) una business tax regionale, che abbia come soggetti passivi le imprese e i lavoratori autonomi, con una base imponibile data dal reddito di impresa o di lavoro autonomo, calcolato senza ammettere la deducibilità degli interessi passivi, e con un’aliquota di base del 4,25 per cento. L’indeducibilità (totale o parziale) degli interessi passivi è una caratteristica condivisa da molte importanti imposte prelevate, a livello locale, sulle attività produttive: si pensi ad esempio alla Gewerbesteuer in Germania, alla single business tax del Michigan (Usa) e alla business tax delle municipalità ungheresi. Al contrario di ciò che viene molto spesso sostenuto, l’indeducibilità non si traduce in una discriminazione ai danni delle imprese che si indebitano, ma ha la funzione di ridurre il vantaggio fiscale loro riconosciuto rispetto a quelle che si finanziano con capitale proprio.
b) un contributo sul costo del lavoro (retribuzioni più oneri sociali) – una sorta di “contributo sanitario” – indeducibile dalle imposte sui redditi, anch’esso al 4,25 per cento. (In alternativa, il contributo potrebbe essere deducibile e l’aliquota corrispondentemente aumentata).
Lo “spacchettamento” potrebbe essere ottenuto anche attraverso altre rimodulazioni delle diverse componenti della base imponibile, che rischiano però di introdurre maggiore complessità nel prelievo e sono meno adatte a mantenerne il carattere locale.

Irap e costo del lavoro

Una seconda ipotesi si concentra sulla detassazione dell’intero costo del lavoro o degli oneri sociali. Entrambe le misure potrebbero prevenire i rilievi della Corte, mantenendo un tributo locale analogo alla business tax. Nel primo caso, alla business tax non verrebbe affiancato nessun contributo sul costo del lavoro, mentre nel secondo si aggiungerebbe un contributo commisurato alle sole retribuzioni (al netto cioè degli oneri sociali). Le due misure comportano perdite di gettito molto diverse.
Detassare completamente il costo del lavoro costerebbe circa 12 miliardi di gettito. Avrebbe la finalità dichiarata di ridurre il costo del lavoro e favorire per questa via l’occupazione e la competitività delle imprese.
ipotesi implicita è che la riduzione dell’Irap non vada a favore dei lavoratori e che la riduzione del costo del lavoro si traduca in un contenimento dei prezzi, invece che in un aumento dei profitti. Fra le ipotesi di finanziamento di tale operazione si parla di un aumento dell’addizionale Irpef e/o dell’aliquota dell’Iva. Nel primo caso si tratterebbe di uno spostamento (parziale, in quanto l’addizionale è pagata anche dai lavoratori autonomi e dai proprietari delle piccole imprese) di onere dalle imprese ai lavoratori dipendenti e ai pensionati (i cui redditi rappresentano più di tre quarti della base imponibile dell’addizionale in questione). Nel caso di sostituzione con l’Iva, il plausibile aumento dei prezzi che ne conseguirebbe comporterebbe una redistribuzione dell’onere sui consumatori, con effetti tendenzialmente regressivi.
L’esclusione da imposta della componente del costo del lavoro costituita dagli oneri sociali avrebbe invece la finalità di eliminare un aspetto discusso dell’attuale Irap che, ammettendo la deducibilità degli ammortamenti e non quella dei contributi, discrimina l’impiego del fattore lavoro rispetto a quello del fattore capitale. Si tratterebbe di un intervento da tempo e da più parti suggerito, con un impatto molto più limitato , e di costo più contenuto, 4-5 miliardi, che almeno in parte potrebbero essere recuperati attuando un altro importante intervento di razionalizzazione del prelievo: l’unificazione delle aliquote della tassazione sulle rendite finanziarie a un livello intermedio rispetto ai due attualmente previsti (12 e 27 per cento), e vicino a quello della prima aliquota dell’Irpef. L’imposta sostitutiva sui redditi finanziari potrebbe poi essere fatta oggetto di compartecipazione da parte delle Regioni. In questo modo, si potrebbe sostenere, anche i percettori di rendite finanziarie sarebbero chiamati a concorrere al finanziamento della spesa sanitaria.

La scelta fra queste ed altre ipotesi sul tappeto discende crucialmente dalla risposta che si vuole dare alla domanda: perché sostituire l’Irap? Se lo si fa solo per l’urgenza di evitarne la bocciatura da parte della Corte di Giustizia, la soluzione dello spacchettamento o altre soluzioni che prevedano operazioni di maquillage, modificando il meno possibile la natura, gli effetti distributivi ed economici del prelievo, sono preferibili (ma allora sarebbe stato meglio difendere l’Irap sin dall’inizio!). In caso contrario, i detrattori dell’Irap dovrebbero avere la consapevolezza che si va attorno ad un tributo molto rilevante per il nostro ordinamento, che è stato introdotto dopo anni di studio e di dibattito e che non può essere sostituito con soluzioni improvvisate e pasticciate i cui effetti non siano stati adeguatamente ponderati.

(1) Un’ipotesi di questo tipo è stata avanzata già diversi anni fa da Salvatore Biasco, presidente della Commissione bicamerale per l’attuazione della riforma fiscale del precedente governo (Commissione dei trenta). 



LE MOLTE IPOTESI SUI TRIBUTI REGIONALI
Massimo Bordignon

Come potrebbe essere sostituita l’Irap? È opportuno qui tenere separati i due aspetti del problema: come reperire le risorse per il bilancio pubblico statale in caso che la riforma conduca a una eliminazione o riduzione del gettito del tributo, e come sostituire l’Irap in quanto tributo regionale. In linea di principio, l’Irap potrebbe non essere compensata con altri tributi se si riducessero le spese statali in misura corrispondente. (1) Ma il problema di quali strumenti tributari usare per finanziare la spesa regionale resterebbe ancora, essendo oltretutto i trasferimenti erariali di dubbia costituzionalità alla luce del nuovo Titolo V.

L’alternativa dell’Irpef

Si consideri dunque qui il caso, ovviamente irrealistico, che la riforma Irap non comporti effetti di gettito perché, pur abolendo il tributo, si riducono le spese di uguale ammontare. Quale tributo regionale potrebbe allora sostituire l’Irap? Le alternative sono diverse, nessuna delle quali è pienamente soddisfacente.
Una possibilità è quella di cercare spazi ulteriori di manovra sull’Irpef (o Ire): lo Stato potrebbe ridurre la propria quota sul gettito di questa imposta in una misura corrispondente a quello abolito dell’Irap, ampliando contemporaneamente lo spazio per l’addizionale regionale già esistente sull’Irpef.  Questa soluzione avrebbe vantaggi e svantaggi. Per i primi, l’addizionale mantiene margini di manovra autonoma per le Regioni, con effetti limitati sulla mobilità dei fattori finché l’autonomia regionale non è eccessiva. In più, l’Irpef soddisfa in qualche misura il principio del beneficio (c’è qualche corrispondenza tra chi paga l’imposta e chi riceve i servizi offerti), ed è altamente visibile per il contribuente, e ciò potrebbe aumentare il controllo sui politici locali.
Ci sono tuttavia anche degli svantaggi. Di fatto, nella base imponibile dell’Irpef entrano solo taluni redditi, quelli da lavoro, e anche questi sono in larga misura evasi, erosi e elusi, tant’è che la base imponibile del tributo è in larga parte costituita da redditi da lavoro dipendente. Da questo punto di vista, l’Irap era certamente migliore, in quanto faceva riferimento a un base imponibile più ampia e si prestava a minori forme di evasione ed elusione. Per ristabilire un minimo di equilibrio, si dovrebbe almeno immaginare di accompagnare l’accresciuta addizionale Irpef a una compartecipazione regionale al gettito sulle rendite finanziarie, come suggerito da Giannini e Guerra. Inoltre, anche l’Irpef è fortemente sperequata sul territorio, e riprodurrebbe pertanto, sebbene in misura minore, gli stessi problemi menzionati per l’Irap. Una possibile alternativa potrebbe essere quella di adottare una soluzione “nordica”, modificando l’attuale addizionale in modo da attribuire alle Regioni solo il gettito corrispondente ai primi scaglioni di reddito, mantenendo qualche autonomia regionale sulle aliquote corrispondenti a questi redditi. Ciò avrebbe il vantaggio di avvicinare la dotazione finanziaria delle Regioni, ma avrebbe lo svantaggio di rendere (più che con l’attuale addizionale, o piuttosto con l’addizionale come avrebbe dovuto essere adottata e non come è stata adottata nei fatti, cioè consentendo aliquote differenziate per scaglioni) la progressività del tributo dipendente dalle scelte delle Regioni. (2)
Inoltre, richiederebbe una maggiore integrazione tra addizionale regionale e imposta erariale sull’Irpef.

E l’ipotesi Vivat

L’altra alternativa è invece quella di ampliare gli spazi di manovra delle Regioni sui consumi.
Il vantaggio principale di quest’ipotesi sta nel fatto che i consumi sono di gran lunga più perequati sul territorio sia del reddito sia del valore aggiunto. Lo svantaggio è che è difficile immaginare l’attribuzione di spazi effettivi di autonomia delle Regioni su questi cespiti. Ciò che potrebbe essere dato in più alle Regioni rispetto a quello che già hanno (per esempio, lotto, tabacchi, alcol) mal si presta all’esercizio di un’autonoma capacità decisionale. Si potrebbe certo immaginare di aumentare la compartecipazione regionale sull’Iva, ma appunto si tratterebbe di una compartecipazione, non di un tributo. Qui, l’unica soluzione possibile sarebbe una riforma strutturale dell’Iva, adottando per esempio un sistema tipo Vivat, proposto da Michael Keen, che consente l’esercizio di un’autonomia a livello territoriale sulle aliquote per i consumatori finali. Ma questa modifica potrebbe essere solo contrattata in sede europea. Inoltre, aliquote differenziate sui consumi sarebbero comunque soggette a problemi di cross-border shopping, probabilmente seri per le dimensioni assai limitate di alcune Regioni italiane.

(1) Naturalmente, anche l’ipotesi di un finanziamento della riforma Irap con riduzioni di spese, al di là della sua scarsa plausibilità politica, introdurrebbe effetti distributivi che andrebbero attentamente valutati, perché è improbabile che le riduzioni di spese riguardino esattamente gli stessi soggetti beneficiati dalla riduzione del tributo. Per esempio, la proposta a suo tempo avanzata da Confindustria, con lo slogan “una lira di Irap in meno in cambio di una lira in meno di trasferimenti” aveva il difetto di non considerare il fatto che l’Irap è pagata prevalentemente al Nord e i trasferimenti alle imprese al Sud. Questi effetti distributivi hanno azzoppato la proposta sul piano politico.

(2) Ci sarebbero anche dei vantaggi però. Mentre un incremento dell’addizionale Irpef ha l’effetto di modificare l’intera struttura delle aliquote marginali, introducendo effetti distorsivi su tutti i livelli di reddito, interventi sui livelli più bassi modificherebbero solo le aliquote marginali corrispondenti a questi redditi, determinando così solo un effetto di reddito (non distorsivo) sui redditi maggiori di quei livelli.



I TAGLI SE NE VANNO IN FISCAL DRAG
Massimo Baldini e Paolo Bosi

Gli effetti reali dei primi due moduli degli sconti Irpef, l’ultimo dei quali è da pochi mesi entrato in vigore, sono stati assai deludenti, sotto molti punti di vista. La riduzione dell’Irpef non sembra aver provocato una spinta ai consumi e al rilancio dell’economia, e gli stessi lavoratori hanno addirittura faticato a rintracciare lo sgravio nella loro busta paga. L’effetto elettorale, come si è visto, è stato molto probabilmente nullo.

La rilevanza del fiscal drag

Ma perché i tagli all’Irpef già introdotti, che nel complesso ammontano alla non trascurabile cifra di circa 13 miliardi di euro, hanno avuto così scarsi effetti?
Una prima ragione sta nel fatto che parte della riduzione fiscale è stata finanziata, come già messo in evidenza da Giannini e Guerra  su questo sito, da aumenti di imposte indirette. Inoltre, tagli fiscali finanziati non con minore spesa pubblica, ma con un allargamento del deficit, lasciano temere che nel prossimo futuro le tasse aumenteranno per compensare il buco nel bilancio, e ciò non predispone al consumo. Un altro motivo molto importante sta nel cattivo andamento generale dell’economia, che si riflette in una scarsa crescita dei redditi, e spesso anche in una maggiore insicurezza sul proprio posto di lavoro. In queste condizioni, è naturale un atteggiamento prudente da parte dei consumatori. Ma c’è un’altra ragione dietro ai così scarsi effetti reali degli sgravi fiscali, ed è costituita dal fiscal drag: ogniqualvolta si verifica un aumento del reddito, sia esso attribuibile a fattori reali o semplicemente al recupero del potere di acquisto ridotto dall’inflazione, la somma da pagare per una imposta progressiva come l’Irpef cresce più che proporzionalmente rispetto al reddito, determinando quindi sempre un aumento reale del peso dell’imposta.
Facciamo un semplice esempio. Nel 2002, prima della riforma fiscale del Governo, un lavoratore dipendente con un figlio a carico e con un reddito lordo di 25mila euro, pagava 5.185 di Irpef (aliquota media del 20,7 per cento). Applicando invece la legislazione 2005 ai 25mila euro, l’imposta è pari a 4.708 euro (il 18,8 per cento del reddito), con una riduzione di quasi 500 euro. Sembra quindi che i due moduli abbiano diminuito significativamente l’imposta. Bisogna però considerare che, se nel 2002 avevo 25mila euro, oggi il reddito è assai probabilmente più alto, anche per il solo effetto dell’agganciamento al costo della vita. Supponiamo che sia aumentato del 2,5 per cento all’anno negli ultimi tre anni, più o meno come i prezzi. Oggi avrei un imponibile di 26.922 euro, e ne pagherei 5.294, cioè il 19,7 per cento. Sembra quindi che per chi aveva 25mila euro nel 2002, i due moduli abbiano garantito un risparmio del 2 per cento dell’imponibile, mentre in realtà la vera riduzione è l’1 per cento del reddito.
L’intensità del fiscal drag non è uguale per tutti i contribuenti. Dipende dall’andamento dell’aliquota media della struttura dell’imposta. Nel caso italiano è possibile verificare che la variazione dell’aliquota media, per un dato incremento percentuale del reddito imponibile, decresce al crescere del reddito (a esclusione di una fascia di reddito imponibile tra 26 e 29mila euro e fino a 100mila euro). Il fiscal drag attribuibile all’inflazione danneggia di più i redditieri più poveri.

L’impatto sulle famiglie

Un calcolo della rilevanza del fiscal drag si può effettuare sia a livello di singoli contribuenti, che di famiglie. Di seguito presentiamo una figura che sintetizza l’impatto del fiscal drag sulle recenti riforme dell’Irpef per tutte le famiglie italiane. Questa figura, costruita usando un modello di microsimulazione basato su un campione rappresentativo di famiglie, rappresenta, per decili di redditi familiare equivalente, le variazioni dell’aliquota media prodotte dai due moduli di riforma dell’Irpef. (1)
La linea tratteggiata più in basso rappresenta la variazione dell’aliquota media nell’ipotesi che i redditi nominali tra il 2002 e il 2005 non si siano modificati (variazione normativa). È appunto lo sgravio medio di circa 2 punti percentuali di cui normalmente si parla. Tale sgravio è assai contenuto per il 10 per cento più povero, le famiglie incapienti, cresce fino al quarto decile, e poi si riduce all’aumentare del reddito familiare. Le due linee nel versante positivo rappresentano invece l’effetto del fiscal drag attribuibile alla variazione reale del reddito (fiscal drag reale) e la parte attribuibile all’aumento del reddito pari al tasso di inflazione (fiscal drag nominale). L’aumento dell’aliquota media prodotto dal fiscal drag attribuibile all’inflazione è abbastanza significativo, pari in media all’1 per cento, ed è più forte sui redditi bassi, dal momento che risulta decrescente a partire dal terzo decile.
La curva negativa nera continua (variazione effettiva) è la somma algebrica della variazione normativa e del fiscal drag nominale e rappresenta lo sgravio effettivo goduto dalle famiglie italiane, assai inferiore a quello mostrato dalla curva tratteggiata.
In conclusione, il fiscal drag si è mangiato circa metà dello sgravio Irpef concesso in questi ultimi tre anni. Dopo i due moduli, il reddito reale delle famiglie italiane è aumentato la metà di quanto si potrebbe concludere osservando solo la struttura formale dell’imposta a redditi nominali invariati. Si potrebbe mostrare che, rispetto alla struttura di aliquota media in vigore nel 2002, quella introdotta con la riforma comporta una lieve intensificazione dell’effetto del fiscal drag attribuibile all’inflazione. Ciò è dovuto al fatto che la progressività dell’imposta è nel complesso aumentata, ma in misura relativamente più forte per i redditi medio-bassi.

(1) Nei nostri precedenti interventi su questo sito a proposito della riforma Irpef abbiamo mostrato come varia il reddito disponibile delle famiglie, qui ci concentriamo invece sull’aliquota media dell’imposta.

Come è cambiata l’aliquota media dell’Irpef dopo i due moduli della riforma


IL DOPO-IRAP
Ruggero Paladini

 La vicenda dell’Irap si presta ad alcune considerazioni sul rapporto tra economisti e giuristi. Rapporto difficile, date le diversità di approccio metodologico e di oggetto delle ricerche, ma assolutamente necessario.

I giuristi e l’imposta “irrazionale”

Gli argomenti che l’avvocato generale della Corte di giustizia europea, Francis Jacobs, pone alla base della sua tesi (Irap equivalente all’Iva) mi sembrano in sostanza due: i) l’Irap è un’imposta plurifase su tutti i produttori di beni e servizi, e ii) la base imponibile è il valore aggiunto. Questi elementi di somiglianza prevalgono sugli elementi di differenza: tra i tanti, il diverso modo di applicazione delle imposte, il fatto che nell’Iva la base imponibile sia il consumo (valore aggiunto meno investimenti) mentre nell’Irap è il reddito netto (valore aggiunto meno ammortamenti). Questa somiglianza tra le due imposte basta quindi a far scattare il comandamento comunitario: “tu non avrai altra imposta generale indiretta oltre l’Iva”. Jacobs non si è posto la domanda sulle ragioni di esistenza di questo principio, che sono poi le stesse che hanno dato origine all’Iva come imposta comunitaria: in sostanza, l’obiettivo è evitare distorsioni nella concorrenza tra i produttori dei vari paesi membri. Non si è quindi neppure posto l’ulteriore problema di verificare se, nel caso specifico, l’Irap potesse provocare qualche effetto distorsivo. Gli è parso sufficiente che gli elementi di somiglianza prevalessero su quelli di diversità.
La posizione di Jacobs non risulta convincente anche per molti giuristi, tra i quali si può citare Enrico De Mita. (1)
Il quale tuttavia ritiene che l’Irap sia un’imposta irrazionale “nata a tavolino”, che non sarebbe dovuta esistere e che il Governo avrebbe fatto bene ad eliminare, come del resto sembrava proporsi con la legge delega in materia fiscale. Le valutazioni di De Mita sono tutt’altro che isolate, anzi rappresentano il parere della maggioranza dei giuristi. Invece, gli economisti hanno un atteggiamento (in maggioranza) favorevole, e all’estero esperti di fama internazionale propongono l’Irap come una buona imposta. Se dovessi riassumere in due righe il perché dell’ostilità dei giuristi, ricorderei due punti : i) l’impresa (o studio professionale) paga l’imposta su una base imponibile costituita, in maggior parte, da redditi non suoi; ii) l’imposta non è detraibile, pertanto l’Irap può azzerare o cambiare di segno un profitto altrimenti positivo. Su questo punto un dialogo tra economisti e giuristi sarebbe utile. Nei corsi di economia spesso si comincia col descrivere il “circuito economico”: dalla produzione alla distribuzione (del reddito) alla spesa. Ora le imposte sono applicate alla fase della distribuzione (quelle dirette sul reddito) o a quella della spesa (quelle sul consumo tipo l’Iva, appunto), ma sono perfettamente concepibili imposte sulla prima fase (la produzione), che un tempo anzi erano prevalenti, anche se applicate su indici fisici piuttosto che sul valore. Ovviamente, tali imposte vanno poste su chi ha la titolarità del prodotto.
Non so se Jacobs abbia letto il rapporto Meade o se gli studiosi di diritto tributario conoscano il libro di Antonio de Viti de Marco. (2) In questi testi si mostrava come un’imposta sul valore della produzione fosse equivalente a una sui redditi. Trovo senza dubbio giusto che, quando si cimentano in proposte che comportano mutamenti legislativi, gli economisti si sappiano orientare sui principi giuridici; ma anche i giuristi dovrebbero tenersi informati in tema di analisi economica del diritto o economia delle istituzioni.

Come sostituirla

Se la Corte di giustizia europea dovesse seguire le indicazioni del suo avvocato generale, in una prima ipotesi il gettito oggi generato dall’Irap potrebbe essere ottenuto ripristinando tutte le imposte e i contributi eliminati con la sua introduzione. Per rinfrescare la memoria, sono i contributi sanitari e tassa sulla salute, Ilor, imposta sul patrimonio delle società, Iciap, tassa sulla partita Iva. Non occorrono molte considerazioni per capire che si tratta di un’ipotesi del tutto fantascientifica: il grido di dolore che si leverebbe dal mondo delle imprese sarebbe assordante. Se seguiamo invece il ragionamento di Jacobs, la sostituzione dell’Irap dovrebbe avvenire proprio con un aumento dell’Iva, diciamo da 20 al 25 per cento, dato che la base imponibile di quest’ultima imposta è più ristretta.
Vi sarebbe una sorta di precedente in materia: nel 1987 la Danimarca istituì un’imposta sul valore aggiunto (tipo consumo), ma col metodo “base da base” piuttosto che quello “imposta da imposta”. Per intenderci, quest’ultimo è quello proprio dell’Iva, mentre il primo è quello con il quale si calcola la base imponibile dell’Irap. In seguito al ricorso di una società d’importazioni danese (assoggettata alla nuova imposta), l’avvocato generale aveva proposto la bocciatura dell’imposta. Nel 1991, prima che arrivasse la sentenza, la Danimarca decise di eliminarla e aumentare di tre punti percentuali l’Iva.
Cosa ci si può attendere da una simile sostituzione? È plausibile pensare a un effetto differenziato tra settori più o meno esposti alla concorrenza (in particolare estera). Nei settori più esposti vi sarebbe un guadagno di competitività, in quanto l’aumento dell’Iva non incide sui prezzi all’esportazione, essendo il criterio di tassazione rimasto ancora quello del paese di destinazione (il che peraltro ci dice che Irap e Iva così simili poi non sono). Nei settori meno esposti (servizi) dovremmo assistere a una rigidità dei prezzi al netto dell’Iva, quindi a un aumento dei margini di utile delle imprese, e pertanto un aumento dei prezzi al lordo dell’Iva. L’inflazione percepita tornerebbe a salire velocemente tra le grida di dolore delle associazioni dei consumatori.
Dunque, la via danese non sembra la strada più indicata per rivedere l’Irap.

(1) Vedi Il Sole 24 Ore del 18-3-05.

(2) The Structure and Reform of Direct Taxation, Report of a Committee chaired by Professor J.E. Meade, IFS 1978; nel comitato erano presenti anche esperti di diritto tributario. Antonio de Viti de Marco Principi di economia finanziaria, 1939 Giulio Einaudi editore.



LA BREVE STAGIONE DELL’AUTONOMIA REGIONALE
M. Flavia Ambrosanio

 Il futuro dell’Irap, l’imposta del nostro ordinamento che forse più di qualunque altra ha suscitato polemiche e resistenze, è oggi quanto mai incerto. Sarà abolita? Sarà modificata?Indipendentemente da ciò che accadrà in futuro, il bilancio dell’esperienza regionale in tema di Irap non è affatto negativo e il recente passato dimostra che, nei limiti loro concessi dal legislatore centrale, le Regioni hanno apprezzato la possibilità di gestire il tributo in modo attivo.

Autonomia breve

A partire dal 2001, le Regioni a statuto ordinario avevano avuto (con il decreto 56/2000) ampia autonomia sull’Irap, con la possibilità di variare l’aliquota, in aumento e in riduzione, dell’1 per cento – su un’aliquota media del 4,25 per cento – e di operare differenziazioni tra settori e categorie di contribuenti. Si è trattato però di una breve stagione, perché solo due anni più tardi, con la Legge finanziaria per il 2003, i margini di autonomia sono stati drasticamente ridotti in attesa di un accordo (…) sui meccanismi strutturali del federalismo fiscale, accordo mai raggiunto. Eppure, quasi tutte le Regioni hanno ampiamente sfruttato gli spazi di autonomia, con una serie di interventi, che vengono attuati già a partire dal 2001 e si intensificano nel 2002, per poi rallentare, fino a fermarsi del tutto, con la proroga del “blocco” decisa dalle ultime due leggi finanziarie.  Come sono stati utilizzati gli spazi di autonomia? Emergono comportamenti comuni alle diverse Regioni? Alcuni aspetti interessanti si traggono dall’analisi dei principali provvedimenti regionali in materia di Irap (Tavola 1) e meritano di essere sottolineati. (1)

Uno strumento di politica economica

Le Regioni, forse contrariamente a quanto ci si sarebbe potuto aspettare, non hanno utilizzato i margini di autonomia al solo scopo di accrescere il gettito, attraverso un aumento generalizzato dell’aliquota.
Alcune Regioni hanno soltanto ridotto l’aliquota dell’Irap, aumentando, in compenso, altri tributi propri (come la tassa automobilistica o il tributo speciale per il deposito in discarica di rifiuti solidi; la metà delle Regioni ha aumentato l’aliquota dell’addizionale all’Irpef); altre hanno utilizzato gli incrementi di aliquota Irap disposti in alcuni settori per finanziare le riduzioni in altri. E la differenziazione delle aliquote ha seguito percorsi simili nelle diverse Regioni.
Innanzitutto, l’Irap è stata utilizzata a fini di redistribuzione del carico fiscale tra le diverse categorie di contribuenti, che ha visto privilegiati i settori e le categorie finanziariamente più deboli o largamente impegnati in attività di rilevanza sociale, il che ha probabilmente reso anche più accettabili da un punto di vista politico le misure adottate.  Quasi tutte le Regioni hanno infatti ridotto (in alcuni casi azzerato) l’aliquota per le Onlus, gli organismi non governativi e le cooperative sociali. Le risorse per finanziare questi interventi sono state recuperate con incrementi dell’aliquota nei settori più forti finanziariamente. Molte Regioni hanno aumentato l’aliquota sul settore bancario, finanziario e assicurativo, portandola per lo più al di sopra del 5 per cento (giova peraltro ricordare che l’introduzione dell’Irap aveva particolarmente avvantaggiato il settore bancario e assicurativo, tanto che lo stesso legislatore nazionale aveva inizialmente deciso di sottoporre queste categorie ad una tassazione più elevata della media).
In secondo luogo, l’Irap è stata usata, in un certo senso, come vero e proprio strumento di politica economica, a fini di incentivo e sostegno ad alcuni settori produttivi. In modo differenziato sul territorio e in dipendenza delle specificità regionali, molte Regioni hanno introdotto agevolazioni per le aziende del settore agricolo e del settore turistico, per i soggetti operanti nei comuni montani, per le imprese di nuova costituzione, soprattutto giovanili e femminili.
In terzo luogo, va osservato che gli incrementi di aliquota più rilevanti sono stati attuati nelle Regioni con i deficit più pesanti nel comparto sanitario, come Marche, Lazio, Lombardia. Ma anche in questi casi, non si è trattato di un aumento indiscriminato dell’aliquota e all’esigenza di “far cassa” si è accompagnato il mantenimento delle agevolazioni per i settori “meritevoli”.
In conclusione, le Regioni tutte (fanno eccezione solo Calabria e Campania, ma può darsi che non abbiano fatto in tempo) hanno utilizzato la tanto vituperata Irap, non solo e non tanto per finanziare i deficit sanitari, per i quali hanno maggiormente fatto ricorso all’addizionale all’Irpef, ma soprattutto per finalità redistributive o di supporto all’attività economica. E questo è un risultato interessante, se si considera anche la scarsa esperienza in questo campo, dati i vincoli posti dal legislatore nazionale.
Certamente, non è possibile esprimere un giudizio definitivo sul comportamento delle Regioni, perché la fase dell’autonomia sull’Irap (e sull’addizionale all’Irpef) è stata troppo breve e alcune Regioni che magari avevano programmato altri interventi si sono trovate spiazzate dal repentino cambiamento di rotta del governo centrale. Ma il bilancio di quella breve stagione può considerarsi tutto sommato positivo.

(1) Per un’analisi più approfondita vedi M. Flavia Ambrosanio e Massimo Bordignon “Il federalismo in pratica: il benchmarking delle politiche di entrata e di spesa delle Regioni italiane” http://www.confindustria.lombardia.it/CL/sitoCL.nsf/wv01/33F758A7DD4265F2C1256F8F004B6500?OpenDocument

Tavola 1 – Le manovre regionali sull’Irap

Abruzzo

Riduzioni di aliquota: dal 2001, al 2,75%, per le farmacie rurali sussidiate, per i primi 2 anni di attività; dal 2002, al 3,25%, per imprese del settore agricolo, cooperative della piccola pesca e loro consorzi; dal 2003, al 3,25%, per ONLUS e cooperative sociali, per società di capitali, enti commerciali e persone fisiche, esercenti attività commerciali dal 1° gennaio 2004, per i primi due periodi d’imposta.

Basilicata

Riduzioni di aliquota: dal 2002, al 3,25% per ONLUS e cooperative sociali.

Emilia Romagna

Riduzioni di aliquota: dal 2002, al 3,50% per ONLUS e cooperative sociali; dal 2004, al 3,25% per ONG.

Lazio

Riduzioni di aliquota: dal 2002, allo 0,9% per agricoltura, caccia, silvicoltura e pesca (al 2,75% dal 2004); al 3,25% per imprese di nuova costituzione, nuove imprese giovanili e femminili (primi tre anni di attività); al 3,75% per un vasto insieme di attività produttive e per agenzie di viaggio, operatori turistici e cooperative sociali.

Aumenti di aliquota: al 5% per estrazione di minerali, trattamento di combustibili nucleari, produzione e distribuzione di energia elettrica e gas, commercio manutenzione e riparazione di autoveicoli, vendita al dettaglio di carburante per autotrazione; al 5,25% per fabbricazione di prodotti chimici e fibre sintetiche e artificiali, poste e telecomunicazioni, attività ausiliarie dell’intermediazione finanziaria, immobiliari, radiotelevisive, delle agenzie di stampa; al 5,75% per intermediazione monetaria e finanziaria, escluse le assicurazioni e i fondi pensione.

Liguria

Riduzioni di aliquota: al 3,25% per le nuove imprese per il periodo di inizio dell’attività ed il successivo; al 3% per ONLUS e cooperative sociali, dal 2002; al 3,25% per le associazioni di promozione sociale dal 2004.

Lombardia

Aumenti di aliquota: al 5,75%, per il 2002, e al 5,25%, dal 2003, per banche, enti finanziari, assicurazioni.

Riduzioni di aliquota: al 3,25%, per agenzie di viaggi e turismo, guide e accompagnatori turistici; esenzione per ONLUS e cooperative sociali e, per i tre periodi d’imposta successivi al 31/12/2002, per le imprese e le cooperative di produzione e lavoro, costituitesi nel 2003 nel territorio della regione, composte prevalentemente da soggetti tra i 18 e i 30 anni o da donne tra i 18 e i 45 anni.

Marche

Aumenti di aliquota: al 5,15%, al 5,75 % per banche e assicurazioni.

Riduzioni di aliquota: al 3,25 % per le cooperative sociali; al 4,5%, per il settore delle calzature, dal 2004; al 2,25%, per le cooperative sociali, dal 2004. Esenzioni dall’aumento per i soggetti che realizzano almeno il 50% del fatturato per lavorazioni in conto terzi nei settori del tessile e abbigliamento; per le nuove imprese costituitesi nel territorio regionale nel 2002, per i primi due anni di imposta; le ONLUS; le cooperative sociali.

Molise

Aumenti di aliquota: al 5,25% per banche e imprese della grande distribuzione regionale.

Riduzioni di aliquota: al 3,25%, per il 2004, per i soggetti residenti nella provincia di Campobasso danneggiati dal sisma del 2002; per le nuove imprese costituitesi nel territorio regionale nel corso del 2003 e 2004; per le imprese giovanili e le imprese individuali il cui titolare abbia meno di 35 anni; per le imprese femminili; per le ONLUS; per le Società sportive dilettantistiche operanti senza fine di lucro. Esenzione totale per le ONLUS con oggetto principale dell’attività istituzionale l’assistenza agli anziani non autosufficienti e/o ai disabili.

Piemonte

Riduzioni di aliquota: per le cooperative sociali, al 3,75% per il 2003; al 3,25% per il 2004; al 2,25% dal 2005.

Puglia

Esenzione dal 2002 per enti non commerciali e ONLUS.

Toscana

Riduzioni di aliquota: al 3,25% per le ONLUS e per le nuove imprese giovanili per il triennio 2001-2003; al 3,75% per le imprese dei comuni interamente montani, con base imponibile fino a 77.268,53 €; al 3,5% per le imprese registrate EMAS; al 3,85% per le imprese certificate ISO 14001. Esenzione per gli esercizi commerciali che svolgono servizi di particolare interesse per la collettività.

Aumenti di aliquota: al 4,40% per banche, altri enti e società finanziarie e imprese di assicurazione.

Umbria

Riduzioni di aliquota: al 3,50% per ONLUS e cooperative sociali, al 3,75% per Società cooperative di lavoro.

Veneto

Aumenti di aliquota: al 5,25% per banche, altri enti e società finanziarie e imprese di assicurazione

Riduzioni di aliquota: al 3,25%, per le nuove imprese giovanili e femminili, le nuove cooperative sociali costituitesi nel 2003, per il primo anno di imposta e per il successivo; per le nuove imprese giovanili e femminili del settore agricolo, della pesca e dell’acquacoltura costituitesi nel 2003 e nel 2004. Esenzione per le cooperative sociali, per il 2004.


 

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