I fondi europei per lo sviluppo e la coesione nel nostro paese sono spesi poco e male. Colpa dell’eccessiva frammentazione dei progetti, con una distribuzione delle risorse che risponde più a logiche antirecessive e contingenti che a un disegno strategico di quale Italia vorremmo nei prossimi dieci anni.
TANTI I FONDI NON SPESI
Sulla base degli ultimi dati messi a disposizione dal Dipartimento per lo sviluppo e la coesione economica (DPS), mancano ancora 29,7 miliardi di euro di spesa per raggiungere la dotazione finanziaria complessiva dei Programmi operativi nazionali (PON), interregionali (POIN) e regionali (POR) del Fondo europeo di sviluppo regionale (Fesr) e del Fondo sociale europeo (Fse) 2007-2013, che cuba più di 49 miliardi di euro: in termini percentuali si tratta di un buco del 60 per cento. La percentuale di spesa mancante per i PON e POIN (60,5 per cento) si attesta intorno alla media nazionale, mentre il dato dei POR è più variabile: nell’Obiettivo competitività il ritardo è minore (50,6 per cento) rispetto all’Area convergenza (66,4 per cento).
* Dotazione totale programma post Pac
Fonte: elaborazione Ifel su dati OpenCoesione al 31.5.2013
Insomma, i numeri sembrano dimostrare che il problema dei fondi strutturali e delle politiche di coesione è una questione di sistema. In fase ascendente Ministeri e Regioni mostrano grandi difficoltà a programmare; in fase discendente i beneficiari, enti locali e non, bloccati tra difficoltà oggettive (patto di stabilità) e debolezze strutturali (mancanza di competenze, sclerotizzazione burocratica e clientelismo territoriale) ritardano nello spendere. Invero negli ultimi tre anni si è assistito a una forte ricentralizzazione delle politiche di coesione: la prima riprogrammazione del ministro Barca valeva 12 miliardi di euro e la prossima preannunciata da tempo dal ministro Trigilia si aggirerebbe intorno a 5 miliardi. Eppure non sembra che i Ministeri stiano facendo molto meglio delle Regioni, e viene da chiedersi a che cosa siano serviti almeno un paio di anni di programmazione centro-regionali a cavallo tra il 2005 e il 2007 se poi, a distanza di cinque/sei anni, si è costretti a riprogrammare un terzo delle risorse programmate non impegnate.
TROPPA FRAMMENTAZIONE
Occorre una “Agenzia per la coesione territoriale” come previsto dal decreto legge del 26 agosto del 2013? Certamente, ed è evidente che il problema non è più la cura ma il malato. E il malato è una amministrazione pubblica pletorica in cui ciascun ente ha un pezzetto di processo da governare. La frammentazione dei processi decisionali paralizza completamente anche la politica di coesione così come è stata strutturata negli ultimi venti anni e come, purtroppo, si sta attuando nel prossimo ciclo di programmazione 2014-2020. Il risultato sono tra Pon/Poin Fesr nazionali e Por Fesr regionali oltre 75mila progetti, dei quali il 77,4 per cento rappresentato da microinterventi che non superano i 150mila euro di costo rendicontabile. Viene da chiedersi quale soggetto programmatore di politiche di sviluppo abbia mai potuto immaginare che una tale polverizzazione degli interventi potesse dare dei risultati strutturali. La parcellizzazione delle risorse non solo non risponde a istanze di crescita di medio-lungo periodo, ma al contrario fa emergere l’esigenza di far fronte a problemi di finanza locale indotti da tagli ai trasferimenti di risorse ordinarie di bilancio. Non a caso poco più del 32 per cento dei comuni italiani risulta beneficiario di almeno un progetto finanziato da un programma operativo regionale Fesr. Il dato sale al 62,6 per cento in Obiettivo convergenza, mentre in Puglia, Basilicata e Calabria oltre il 95 per cento dei comuni attua progetti Por Fesr 2007-2013. Ciò sicuramente in controtendenza rispetto al dichiarato obiettivo strategico di concentrazione programmatica (di beneficiari, risorse, risultati) e mettendo in dubbio gli effetti – tra l’altro carenti – della concertazione istituzionale a livello regionale e nelle sedi a ciò preposte (conferenze delle autonomie locali o consigli delle autonomie).
Anche l’incidenza del finanziamento a operatori privati (52 per cento per l’Obiettivo competitività, 29,1 per cento per l’Obiettivo convergenza, 36,9 per cento a livello nazionale) rispetto al totale degli investimenti Por Fesr fa suonare più di un campanello di allarme. E ciò perché secondo l’approccio strategico adottato dal QSN 2007-2013 (mai smentito da Governo o Regioni) gli investimenti dovevano essere indirizzati prioritariamente a realizzare politiche di potenziamento dell’offerta, soprattutto attraverso interventi su infrastrutture, servizi pubblici, ricerca e innovazione. E invece si scopre che il 22 per cento di questi progetti non supera i 10mila euro di costi ammessi e che l’80 per cento di tutti gli interventi finanziati a livello regionale agli operatori privati ha un costo ammesso che non supera i 150mila euro.
Fonte: elaborazione Ifel su dati OpenCoesione, 2013
Effetti di politiche di sviluppo difficili da interpretare, quindi, e politiche industriali frammentate, a grappolo accompagnate da una lillipuziana distribuzione di risorse rispondente più a logiche antirecessive e contingenti che a un disegno strategico di quale Italia vorremmo nei prossimi dieci anni. La fase storica che le economie più sviluppate attraversano non è di semplice crisi, ma di grande e convulsa trasformazione dei sistemi produttivi e finanziari: ciò imporrebbe un ripensamento complessivo delle politiche di coesione perché mai come nel prossimo ciclo di programmazione vi sarebbe necessità oltre che di un “nuovo contenitore” anche di “nuovi contenuti”. La istituenda Agenzia sembra, al momento, rispondere innanzitutto ad un’esigenza di riassetto della struttura istituzionale e amministrativa di supporto alle politiche di coesione ma decisamente meno ad un bisogno urgente di reinventare delle politiche di sviluppo redistributive che appaiono a tutti troppo onerose e scarsamente performanti nel medio lungo periodo.
Sarebbe sicuramente un errore se questa ventata di neocentralismo che soffia sull’Agenzia riguardasse principalmente la tendenza alla surroga o peggio ancora “al fare dal centro” contro ogni principio di sussidiarietà. All’Agenzia andrebbe richiesto, invece, un ruolo di visione condivisa e di coordinamento di azioni strategiche rispetto a scelte-Paese di politica economica che tardano a venire, trasformando nel tempo i fondi strutturali in uno strumento di finanziamento di politiche ordinarie.
Ma mentre si discute della nuova Agenzia la lezione non sembra essere appresa e una sorta di tecnoburocrazia del fondismo ricade costantemente negli stessi errori. (1) Basta dare uno sguardo agli orientamenti per l’applicazione del Community – Led Local Development nel prossimo periodo di programmazione 2014-2020 per capire che ci vorranno non meno di diciotto mesi solo per riuscire a costituire il soggetto che dovrà poi dare esecutività al Piano di azione locale. (2) È un lusso che ci possiamo permettere?
L’efficienza e l’efficacia dell’azione pubblica è sempre più un fattore immateriale della produzione che influisce enormemente sulla competizione delle aziende e quindi sulla crescita e lo sviluppo economico di un paese. Tale azione pubblica diventa tanto più performante quanto minore è la complessità gestionale e maggiore è la chiarezza di un disegno politico duraturo e capace di semplificare e non appesantire la filiera istituzionale dei processi decisionali. Certo la semplificazione dei processi decisionali rappresenta una condizione necessaria ma non sufficiente per migliorare la qualità della programmazione e della progettazione degli interventi. Ecco perché, in un contesto sempre più globalizzato, un aumento delle prestazioni istituzionali deve necessariamente essere accompagnato da una strategia nazionale di politica di sviluppo che non può essere la sola sommatoria slabbrata delle pur legittime aspirazioni regionaliste e localiste.
* Le opinioni qui espresse sono personali e prescindono dall’ente di appartenenza dell’autore.
(1) I soggetti impegnati nella fase di programmazione, attuazione e rendicontazione dei fondi europei. In particolare, autorità di gestione, autorità di certificazione, autorità di audit e assistenze tecniche.
(2) Il Community-led local development (Clld) è uno strumento normato dai regolamenti comunitari per perseguire finalità di sviluppo locale integrato su scala sub-regionale con il contributo prioritario delle forze locali. Il Clld si basa su una progettazione e gestione degli interventi per lo sviluppo da parte degli attori locali che si associano in una partnership di natura mista (pubblico-privata) e affidano un ruolo operativo (gestionale e amministrativo) al gruppo di azione locale, il quale deve elaborare un piano di azione locale per tradurre gli obiettivi in azioni concrete dotandosi di una struttura tecnica in grado di effettuare tali compiti.
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gabriella bettiol
E’ da più di vent’anni che lavoro con i fondi strutturali…abbiamo fatto dei progetti bellissimi e utili per le imprese e network europei utilissimi per capire differenze e potenzialità di cooperazione…ora giustamente come viene sottolineato la mancata incisività programmatoria e la folle frammentazione rende quasi evanescenti gli effetti dei programmi/progetti….poi il metodo scelta da Barca di sentire tutti….tavoli e tavoli che non servono assolutamente a niente…per una finta condivisione…nonchè la creazione dell’ennesima agenzia centralizzata,,,non va a mio avviso nella giusta direzione….impariamo dalla germania piuttosto che riesce sempre a definire in anticipo le tre linee di investimento..e poi coordina tutte le sue agenzie (univesità, enti intermedi, i diversi lander…) per avere i massimi risultati e ritorni non solo economici ma anche sociali…