Sono stato, a suo tempo, un sostenitore della razionalità della scelta del 3 + 2 anche per lo studio delle materie giuridiche e continuo personalmente a pensare che una distinzione netta fra un primo periodo di studio e di preparazione culturale (storia soprattutto, ma anche storia del pensiero, elementi di economia e di sociologia), oltre che di introduzione alle istituzioni giuridiche fondamentali, possa costituire una buona base di partenza per il successivo approfondimento specialistico e professionalizzante dei diversi settori dell’ordinamento giuridico.
UN MODELLO NON APPLICABILE
L’esperienza vissuta per un breve periodo, successivamente sfociata nella trasformazione del corso di laurea in Giurisprudenza in un periodo obbligatoriamente quinquennale, ha dimostrato, nei fatti, come quel modello fosse inattuale e, comunque, non applicabile nel nostro paese.
È con queste premesse che non mi sento di condividere la “provocazione” di Luca Enriques che propone, sul modello statunitense, una “Scuola di diritto” di durata limitata ed esclusivamente professionalizzante, cui accedere dopo una laurea triennale ottenuta in qualunque materia.
Non la condivido nel merito, come anche nel metodo, visto che lo scritto in questione mischia confusamente la laurea triennale, equiparando la school of law americana, corso graduate per eccellenza, con i nostri trienni (undergraduate), per poi passare a ipotizzare una preparazione giuridica biennale, dopo una laurea triennale magari in chimica, per poi, un po’ banalmente, atterrare sul vecchio quadriennio.
Sul piano sostanziale – e forse più serio – paragonare la preparazione giuridica del giurista euro-continentale con quella dell’avvocato statunitense è un esercizio di cattiva comparazione che non può non stupire in un raffinato giurista come Enriques: innanzitutto perché il funzionamento di un sistema di common law prescinde quasi interamente dall’utilizzazione di concetti giuridici astratti e quindi esime da una qualsiasi conoscenza teorica. Inevitabilmente, il carico di studio ne risulta alleggerito.
Inoltre il mercato di riferimento è radicalmente differente e non paragonabile: la formazione universitaria del giurista euro-continentale non tende alla formazione del solo avvocato e, tanto più, del solicitor inglese, ma è funzionale alla preparazione di un laureato in grado di esercitare professionalità complesse e articolate, come quella dell’avvocato, ma anche del magistrato o del notaio. Enriques non può non sapere come, nell’esperienza anglosassone la mobilità fra le carriere di avvocato e magistrato sia fisiologica, nel senso che la nomina a magistrato avviene, seppure con modalità che differiscono fra le due sponde dell’Atlantico, fra affermati avvocati di lungo corso.
Nell’Europa continentale, dove la magistratura è una carriera a sé stante, alla quale si accede per concorso, la creazione di una “scuola per avvocati” finirebbe per isolare questi ultimi dalle rimanenti professioni giuridiche, creando inutili barriere a una comunicazione culturale, assolutamente fondamentale per un corretto funzionamento del sistema.
Infine, il direttore di una Scuola di giurisprudenza che ambisce all’eccellenza non può non domandarsi quale sia la mission di una istituzione di alta formazione, quale l’università è sempre stata e deve continuare ad essere: in sostanza, si tratta di scegliere fra il profilo di un giurista completo e quella di una iper-specializzazione funzionale solo all’inserimento del neolaureato nei gradini più bassi della complessa machinery delle grandi (o piccole) law firms.
Anche in queste ultime, tuttavia, l’apertura mentale e la conoscenza del sistema nel suo complesso, che vada oltre la soluzione del singolo e standardizzato problema tecnico rimane uno dei drivers più importante della crescita professionale.
Quanto al rilievo circa la chiusura mentale del giurista rintanato nella propria torre d’avorio tappezzata di codici, un’ultradecennale esperienza di giurista in Bocconi mi consente di affermare, senza tema di essere smentito, che non sarà la laurea in chimica a garantire la necessaria apertura al mondo reale.
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Francesco Salesia
L’analisi di Liebman e’ ben condivisibile. Chi ha dimestichezza con il diritto internazionale e occasione di confronto con i colleghi che operano in sistemi di Common Law si rende conto della differenza ” culturale”tra giuristi di formazione di Civil Law e quelli di Common Law. Tuttavia le questioni poste da Enriquez non sono affatto banali. Da una parte infatti è’ indubitabile che il ns. sistema ( ma non è’ questione di formazione di Civil o Common Law) sia troppo autoreferenziale e dimentichi che il diritto e’ una sovrastruttura della società e non viceversa . Dall’altra l’accelerazione del mondo contemporaneo che privilegia la produttività del sistema giustizia in luogo della qualità e richiede un continuo aggiornamento delle regole induce a riflettere se nel bagaglio del giurista non sia più appropriata una preparazione specialistica “tour court”a scapito di una preparazione a carattere generale .
Avvocato
Certamente. Non si può auspicare un divario di formazione tra avvocato e giudice. Penso, però, che al fondo del pensiero di Enriques non ci fosse certo questa idea, ma quella di avere sia avvocato che giudice meno legati al clericalismo giuridico , e più rispettosi del substrato reale. Così, almeno, avevo pensato leggendo la parte finale dell’articolo.
luca
A differenza di quel che pensa, sfortunatamente l’università è destinata a ridimensionarsi a breve. O a trasformarsi in un’istituzione volta a formare giovani immessi già dopo 2/3 anni nel mondo del lavoro, per curare nelle tappe successive la formazione executive. Il fatto è che sapere il diritto romano o la filosofia è quasi del tutto inutile, salvo non si voglia intraprendere un dottorato in bioetica o uno in storia. I problemi sorgono dalla complessità tecnologica e dalla sofisticazione raggiunta dalla società. In Italia le grandi idee(ologie) che rappresentavano le basi teoriche con cui la politica d’un tempo plasmava la ratio delle leggi sono in via di sostituzione da parte dei grandi indirizzi di politica europea, che talvolta poggiano su principi diversi da quelli cui siamo stati abituati. Fa da contraltare la maggior semplicità delle ricerca giuridica e una maggior formalizzazione delle forme (soprattutto a livello europeo per facilitare la comunicazione tra/con amministrazioni che usano linguaggi diversi). Perché il percorso dev’essere professionalizzante e non teorico? Perché nel primo caso si dispone da subito degli strumenti aggiornati per affrontare una realtà mutata. Nel caso dell’università, l’adattamento al cambiamento è troppo lento (anche alla Bocconi) e necessita d’essere poi integrato con nuovo studio volto a dimenticare metodi e contenuti antiquati instillati dalle cattedre.
luca
Aggiungo che il diritto è bene o male lo stesso dappertutto:le forme e le rubriche dei vari istituti, delle varie azioni, dei vari strumenti a disposizione delle parte cambiano ma la sostanza è che più o meno sempre la medesima! E mi permetto di dire che parlo per esperienza, basata su ricerche giuridiche in materia di diritto italiano, tedesco, francese, inglese, europeo, austriaco, statunitense (limitatamente al dir. doganale), coreano (limitatamente al dir. immobiliare).
gcf
Il professor Liebman parla di cose che non conosce abbastanza quando dice che non sarà la chimica ad avvicinarci al mondo reale. Ebbene io sono laureato in chimica industriale e in giurisprudenza con laurea magistrale quinquennale. Mi spiega il professore perchè due mesi dopo la mia laurea in chimica quinquennale sono stato abilitato alla professione di chimico senza ulteriori tirocinii e adesso dopo cinque anni di giurisprudenza sono obbligato a 18 mesi di tirocinio e poi a un esame di stato fatto a posto per respingere la maggior parte di chi vi partecipa? La risposta è semplice: la laurea in chimica è basata sul superamento di esami teorici ma anche di tanti laboratori i quali addestrano immediatamente alla pratica stessa che si applicherà nella professione di chimico e, quindi, l’abilitazione è rilasciata di conseguenza. In giurisprudenza invece si imparano a memoria libri di cui non viene mai sperimentata l’applicazione e questo è voluto che sia così dai baroni universitari troppo occupati a far soldi con i loro clienti piuttosto che a insegnare. Leggo che il professor Liebman è docente di diritto del lavoro, ma, poichè il sottoscritto ha fatto carriera come dirigente industriale in aziende chimiche e non, con il massimo rispetto gli vorrei chiedere: come fate a trattare cause di lavoro senza aver mai lavorato in un’azienda? Nel mio tirocinio legale che sto facendo all’età di 70 anni quando parlo con gli avvocati del lavoro delle questioni che trattano con tanta sicumera (e anche arroganza) dentro di me molte volte mi faccio questa domanda…