La Commissione europea ha stabilito alcuni principi per permettere ai singoli paesi di sostenere le proprie imprese. Un unico piano europeo avrebbe dato maggiori garanzie. C’è il rischio che un’ondata di aiuti di stato crei distorsioni enormi nel mercato.
Come sostenere le imprese
Si è parlato molto, nelle ultime settimane, di come i paesi colpiti dalla crisi coronavirus debbano finanziare il debito necessario per la ripresa dell’economia. Si tratta, naturalmente, di una questione fondamentale. Tuttavia, vi è un’altra questione, altrettanto cruciale, che riguarda il modo in cui si debba procedere per sostenere le imprese e l’intero sistema economico. In particolare, ci preoccupano gli effetti fortemente distorsivi del mercato che si verrebbero a creare qualora ciascun paese dell’Unione Europea seguisse politiche di aiuti diverse. O, peggio ancora, qualora alcuni stati non potessero permettersi politiche di sostegno alle proprie imprese.
Vi sono pochi dubbi che nella crisi attuale, in cui il mercato è letteralmente svanito da un giorno all’altro in molti settori, l’intervento statale a sostegno delle imprese sia più che giustificato. Senza di esso, aziende altrimenti efficienti si troverebbero senza la liquidità necessaria per far fronte alle proprie obbligazioni e sarebbero costrette a chiudere o a ridimensionare le proprie attività in modo drastico, con conseguenze di lungo termine gravissime, per le imprese stesse, per i loro lavoratori (e il loro capitale umano), per l’economia in generale.
Per evitare che gli aiuti forniti da uno stato membro alle proprie imprese possano distorcere la concorrenza, il Trattato della Ue ha dotato la Commissione europea di poteri di controllo. In virtù dei quali, la Commissione ha ora adottato un “Quadro temporaneo per le misure di aiuto di stato a sostegno dell’economia nell’attuale emergenza del Covid-19”: il suo obiettivo è unificare i criteri degli aiuti di stato che puntano a salvaguardare la liquidità e l’accesso al finanziamento delle impese e a mantenere intatta la loro forza lavoro.
Il “Quadro temporaneo” della Commissione
Il “Quadro temporaneo” introduce una serie di principi per assicurare l’efficacia degli aiuti, la loro natura incentivante e il loro carattere temporaneo. In primo luogo, prevedono che non possano accedere alle misure le imprese che già si trovavano in sofferenza al 31 dicembre 2019 e che quindi non possono attribuire le loro difficoltà alla diffusione del coronavirus e alle conseguenti misure di contenimento. Si prevede anche che le garanzie statali ai prestiti al di sopra di 800 mila euro non possono superare l’ammontare del 90 per cento dei prestiti; il capitale del prestito non può in generale andare aldilà del 25 per cento del fatturato annuale o del doppio della massa salariale annuale; i sussidi ai lavoratori non possono essere superiori all’80 per cento del loro stipendio mensile lordo.
Sembra però che la Commissione stia considerando anche forme di aiuto molto più invasive, che potrebbero includere misure di ricapitalizzazione con partecipazione statale.
Senza dubbio sarebbero interventi molto problematici, perché è alto il rischio che distorcano la concorrenza e che generino un “effetto domino”. È molto probabile che in un certo settore solamente alcune imprese possano beneficiare di interventi di ricapitalizzazione generosi, se non altro perché solamente alcuni stati membri della Ue possono permetterseli. Tali imprese, non necessariamente le più efficienti, grazie agli aiuti diventeranno più competitive, riuscendo così a marginalizzare le rivali e, in alcuni casi, a forzarle a lasciare il mercato. Oppure le imprese rivali potranno a loro volta richiedere aiuti di stato, se provengano anch’esse da un paese che se li può permettere, scatenando così una corsa alle sovvenzioni che non beneficerà né il mercato né le finanze pubbliche europee.
I rischi e i “paletti” necessari
Un coordinamento delle politiche di sostegno a livello europeo, attraverso un programma comunitario, costituirebbe una forma di intervento decisamente migliore. Permetterebbe di sostenere le imprese che operano in settori che soddisfano obiettivi condivisibili (invece di intervenire sulla base dell’influenza politica che determinate imprese o settori possono avere a livello nazionale), per i quali un intervento di sostegno sia davvero necessario; e all’interno di quei settori permetterebbe di sostenere tutte le imprese, indipendentemente dal loro paese di appartenenza.
Se un simile programma comunitario non fosse realizzabile, la Commissione europea dovrebbe allora cercare di impegnarsi per limitare al massimo aiuti di stato che vadano al di là del sostegno alla liquidità e all’occupazione. Dovrebbe richiedere di motivare le ragioni di efficienza o equità che li giustifichino e la presentazione di un piano di ristrutturazione dell’azienda credibile (soprattutto considerato che molti settori conosceranno trasformazioni importanti – si pensi ai trasporti e al turismo). La Commissione dovrebbe imporre condizioni rigorose per l’approvazione degli aiuti: dalle limitazioni alla remunerazione dei manager al blocco della distribuzione di dividendi e al divieto di acquisire altre imprese.
Qualora la ricapitalizzazione prendesse la forma della partecipazione statale al capitale dell’azienda, dovrebbe essere temporanea e rimborsata completamente dopo un periodo non superiore ai due anni; le azioni acquisite dovrebbero essere valutate al prezzo di mercato prevalente dopo la crisi ma prima dell’annuncio delle misure di sostegno; più a lungo dura la partecipazione statale, maggiore dovrebbe essere la diluizione per gli azionisti; se lo strumento di capitalizzazione fosse un “ibrido” che permettesse la conversione dei titoli obbligazionari, si dovrebbero applicare principi simili.
Il 27 marzo, il parlamento tedesco ha adottato una legge che permette la partecipazione statale al capitale delle imprese come parte del suo programma di aiuti. Secondo la stampa, sarebbero interessate più di un migliaio di imprese. Anche in altri paesi europei sono stati annunciati programmi di ricapitalizzazione pubblica in particolari settori. Tutto ciò in un contesto in cui, anche prima della crisi, molti stati, in primo luogo Germania e Francia, avevano richiesto un allentamento delle regole della concorrenza per favorire la creazione di campioni nazionali ed europei.
Il pericolo è, quindi, che vi sia un’ondata di aiuti di stato che creino distorsioni enormi nel mercato europeo, con conseguenze considerevoli e di lungo termine. Speriamo che la Commissione europea sia in grado di frenare queste iniziative, facendo uso dei poteri a essa assegnati dai padri fondatori dell’Ue, che erano ben consapevoli del rischio per l’integrazione economica costituito dagli aiuti statali.
Sarebbe tuttavia auspicabile che gli stati membri attribuissero alla Commissione un ruolo più incisivo e cruciale in relazione agli aiuti alle imprese. Un programma europeo, finanziato a livello interamente europeo – invece di aiuti di stato, pagati con fondi nazionali e aventi beneficiari nazionali – potrebbe avere un ruolo fondamentale per affrontare i cambiamenti strutturali, ad esempio nel campo della transizione energetica e dell’agenda digitale, già necessari prima della crisi e a maggior ragione ora.
Oggi esistono difficoltà politiche e legali per aumentare il bilancio dell’Ue o per permettere alla Commissione europea di finanziarsi direttamente sui mercati, ma è in momenti eccezionali che bisognerebbe pensare a iniziative eccezionali.
Peraltro, un progetto di questo tipo potrebbe avere più possibilità di successo che non quello di cercare di finanziare programmi nazionali con i cosiddetti Eurobond. Come minimo, le obiezioni di alcuni paesi verso questi ultimi (opportunismo, gestione inefficiente e altro) non si applicherebbero nel caso di un programma gestito direttamente dalla Commissione europea.
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Amedeo Pugliese
Cari Massimo e Martin, grazie per aver sollevato la questione relativa ai rischi connessi a interventi statali non concordati tra i governi EU. Un principio guida dell’azione dei governi dovrebbe garantire che gli aiuti siano erogati solo alle imprese effettivamente danneggiate dalla crisi e non a quelle in crisi o insolventi già prima. Il problema però – come accade spesso – è che ‘the devil is in the details’. Gli art 6, 7 e 8 del DL 23 (08.04.2020) consentono alle società di approvare il bilancio dell’esercizio in corso sulla base del principio di continuità aziendale valutato al momento dell’ultimo bilancio trasmesso. La ratio (condivisibile) è quella di alleviare il peso di perdite straordinarie. In realtà la maggior parte delle società non ha ancora approvato il bilancio d’esercizio 2019: in condizioni normali ci troveremmo adesso nella stagione assembleare di approvazione dei consuntivi. L’applicazione del DL consente a imprese in difficoltà già nel 2019 – quindi nel periodo ante crisi – di fare riferimento alle ‘condizioni di normalità’ esistenti al 31.12.2018 e quindi astenersi dal (1) fare disclosure in bilancio e (2) attivare i meccanismi di tutela del patrimonio (es. ricapitalizzazione). Paradossalmente, sulla base dei bilanci 2019 che non riflettono le difficoltà ante crisi, tale imprese sarebbero idonee ad accedere a misure di sostegno alle quali non dovrebber avere. Una chiara stortura del sistema. L’auspicio è che sia posto un rimedio.
Fulvio
Per ogni norma vi è un limite che è quello della sua sostenibilità sociale. I paesi fiscalmente ricchi sono tali perché cittadini e imprese hanno pagato. Se si pongono troppi vincoli all uso della loro forza nel momento del bisogno, se ne vanno. La parabola evangelica non parla di vergini tirchie e vergini solidaristiche