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Il nepotismo accademico tra mito e realtà

Si è diffusa la convinzione che un qualsiasi legame di parentela all’interno di un’università sia da etichettare come forma di nepotismo. Tanto che per limitare il fenomeno è stata anche approvata una legge. Ma è una norma discriminatoria perché l’evidenza empirica non giustifica i pregiudizi.
FIGLI NELL’UNIVERSITÀ
In un paese con i livelli di corruzione e clientelismo come il nostro e con un sistema universitario privo di quei meccanismi competitivi che stimolano il miglioramento continuo e inducono efficienza nella selezione del personale, è quasi inevitabile che un qualsiasi legame parentale all’interno di un’università sia automaticamente etichettato come espressione di nepotismo.
Una convinzione tanto profonda e diffusa che si è inteso perfino legiferare in merito. La legge n. 240 del 30 dicembre 2010 stabilisce all’articolo 18 che non possono partecipare ai procedimenti di chiamata dei professori coloro che abbiano un grado di parentela o di affinità fino al quarto grado compreso, con un professore appartenente al dipartimento o alla struttura che effettua la chiamata ovvero con il rettore, il direttore generale o un componente del consiglio di amministrazione dell’ateneo.
In realtà, le evidenze empiriche che legittimano questa posizione sono molto deboli, perché se è vero che gli alti tassi di omonimia nelle università italiane non possono essere ritenuti casuali, l’evidenza in sé non può essere considerata prova di nepotismo. (1) Infatti nulla esclude che i “figli” abbiano effettivamente meritato la loro posizione universitaria. Una varietà di studi sociologici ha dimostrato che i genitori possono trasmettere ai figli conoscenze specialistiche utili ai fini della carriera. Altri lavori a sostegno dell’evidenza del nepotismo, mostrano una correlazione forte e negativa tra tassi di omonimia nelle facoltà italiane e performance scientifica delle stesse. (2) Le conclusioni risultano però affette da due debolezze non trascurabili. In primis, il numero dei “figli” è in genere relativamente modesto rispetto allo staff dell’intera facoltà per poter immaginare che la performance dei primi possa incidere in modo così rilevante su quella della seconda. Inoltre, le classifiche di performance utilizzate dagli autori (prodotte da Censis, Crui, e Civr) scaturiscono da procedimenti di misura del tutto inadeguati sul piano scientifico e troppo approssimati per poter essere considerati affidabili.
CONFRONTO FRA PRODUTTIVITÀ E CARRIERE
Per provare a dirimere la questione, abbiamo confrontato individualmente la performance di ricerca dei “figli” con quella dei “non figli” dello stesso settore scientifico disciplinare, ruolo d’inquadramento e anzianità. La misura, condotta con tecniche bibliometriche, ha riguardato la produttività di ricerca nel quinquennio 2004-2008 degli accademici delle discipline scientifico-tecnologiche assunti o avanzati di ruolo nei tre anni precedenti. (3)
I risultati rivelano che in media i “figli”, la cui concentrazione è piuttosto omogenea nelle diverse aree disciplinari analizzate, hanno una performance di ricerca che non è significativamente diversa da quella dei colleghi “non figli”. (4) Un approfondimento a livello geografico ha mostrato addirittura che nelle università del Centro Italia i “figli” hanno in media una produttività di ricerca maggiore di quella dei “non figli”, mentre al Nord e al Sud i valori di produttività sono pressoché identici.
Un’ulteriore analisi dei successivi avanzamenti di carriera ha evidenziato che la proporzione dei “figli” vincitori di concorso nel periodo 2004-2008 è del tutto simile a quella dei “non figli” e, in effetti, la loro performance scientifica è in media molto superiore a quella di coloro che non sono avanzati di posizione. Infine, i “figli” non risultano meno discriminati dei “non figli”, infatti il 26 per cento dei “figli” che si collocano al top 20 per cento per performance non è riuscito a ottenere un pur meritato avanzamento di carriera, contro il 23 per cento dei “non figli”.
Si può quindi concludere che le università siano immuni dal virus del nepotismo? Assolutamente no: il 7 per cento dei “figli” non ha realizzato alcuna pubblicazione scientifica in cinque anni e il 15 per cento non è mai stato citato; inoltre l’8 per cento dei “figli” è avanzato di ruolo pur facendo parte del 20 per cento degli accademici con la performance più bassa. D’altro canto i “non figli” registrano percentuali superiori: rispettivamente 10, 16 e 11 per cento. Si può quindi affermare con altrettanta certezza che la probabilità di commettere un errore nell’accusare un “figlio” di non meritare la sua posizione accademica è la stessa che si avrebbe nell’accusare dello stesso fatto un “non figlio”.
Il diffuso pregiudizio negativo sui “figli” e, soprattutto, sui “padri” risulta quindi privo di qualsiasi fondamento empirico che possa legittimarlo. Il dispositivo di cui all’articolo 18 della legge 240 è da considerarsi pertanto discriminatorio, in quanto priva i “figli” della libertà di concorrere all’accesso all’università che più li aggrada per la semplice “colpa” di avere un “padre” nella stessa.
 
(1) Allesina, S. (2011), “Measuring nepotism through shared last names: The case of Italian academia”, PlosONE 6(8)
(2) Si veda Durante, R., Labartino, G., Perotti, R., Tabellini, G. (2009), “Academic dynasties”, Bocconi University Working Paper; e Durante, R., Labartino, G., Perotti, R. (2011), “Academic dynasties: decentralization and familism in the Italian academia”, Nber Working Paper No. 17572
(3) Calcolata come somma del grado di proprietà delle citazioni standardizzate degli articoli pubblicati in riviste censite da Web of Science (WoS) nel periodo 2004-2008. Il grado di proprietà è l’inverso del numero degli autori ovvero, nelle scienze della vita, funzione dell’ordine degli autori nella lista. La standardizzazione delle citazioni di ciascun articolo è condotta dividendole per la media (senza zeri) delle citazioni degli articoli dello stesso anno e della stessa categoria WoS.
(4) Abramo G., D’Angelo C.A., Rosati F., “Relatives in the same university faculty: nepotism or merit?” Working Paper LabRTT. http://www.disp.uniroma2.it/laboratoriortt/TESTI/Working%20paper/Nepostism.pdf

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22 commenti

  1. Alessandro

    Dico solo l’evidenza empirica dimostra anche che e’ raro che sia il carro a spingere i buoi

    • alessandro figà talamanca

      Anche in America esistono le “anti-nepotism rules”, non scritte ma rigidamente applicate da tutte le maggiori università. Un tempo, fino ai primi anni settanta, si applicavano anche al coniuge. Poi i movimenti femministi hanno fatto notare che le regole discriminavano nei fatti la carriera delle donne. Ora non ci sono restrizioni nell’impiego dei coniugi, ma due parenti stretti non possono insegnare nella stessa università. Le scelte di assunzione e promozione sono altamente discrezionali, perciò non è sbagliato evitare conflitti di interesse. Fa bene quindi la legge a limitare la possibilità di impiego di parenti. Mi sembra che ben prima della legge questa regola fosse applicata dalla LUISS, ma non sono sicuro. E’ ovvio che il figlio di un professore sia avvantaggiato dalle conoscenze apprese in casa, lo stesso succede per i figli dei magistrati e dei militari. Quello che si può e si deve evitare è una interferenza diretta. Comunque gli studi sul nepotismo universitario italiano hanno un difetto: manca un ragionevole gruppo di controllo (magistrati? militari? università straniere?).

      • Fabio Ferlazzo

        Lo scorso anno è stato pubblicata replica allo studio di Alesina citato in cui mostriamo come in UK l’analisi sui cognomi condivisi dia lo stesso risultato che in Italia (Ferlazzo e Sdoia, 2012, Plos One).

  2. Rosario Nicoletti

    Dopo dieci anni di demonizzazione dei professori universitari – dediti alle pratiche più losche – ecco un articolo controcorrente. Va reso onore agli autori, che sfidano impavidi l’imperante conformismo.

  3. Viva Zapota

    I numeri a proposito dei “figli di” sono solo numeri (come si fa a giudicare un ricercatore?
    Ma ci sono tanti altri “numeri” che vi sfiderei a trovare e che vanno oltre il nepotismo dei cognomi: che dire ad esempio i dei “nipoti di”, “i parenti di”, “i figli di altri professionisti e politici a cui si concede la spintarella in cambio di” …

    • Nicola

      Il tema e giusto: la visione dei “figli di” e molto limitata perche bisognerebbe considerare anche i “nipoti” e cosí via.
      Personalmente, vorrei che si passasse dal dibattito sul “nepotismo” a quello di “clientelarismo” che mi pare piú adeguato per il caso delle universitá italiane, per quanto riconosca che questo complichi l’operazionalizzazione della ricerca.
      In ogni caso, contributo molto interessante.

  4. Lino Guerra

    Mi chiedo se la ricerca abbia considerato “figli” solo coloro che hanno genitori nella stessa struttura (dipartimento, facoltà, ateneo, ecc.).
    In altre parole: quanti di quelli definiti “non figli” sono in realtà “figli” di professori che lavorano in altre strutture?

  5. Marco

    Secondo me le performance bibliometriche possono sovrastimare la qualità dei “figli”.
    In fondo, i “figli” sono speciali proprio perchè figli di qualche insider.
    Per i “figli”, pubblicare su rivista potrebbe essere relativamente più facile – a parità di ‘bravura’ – sia per un effetto diretto dei genitori (i.e. conoscono l’editor della rivista) sia per un effetto indiretto (i.e.
    signalling del cognome).

  6. Fabrizio

    L’alto tasso di omonimia non costituisce una prova del nepotismo? Anche quello che ho letto non costituisce una prova del contrario. Spero che nessuno di voi due abbia genitori che sono anche docenti universitari.

  7. Stefano

    Sane regole di moralità non hanno bisogno di essere vagliate empiricamente. Che un padre non possa, direttamente o indirettamente, assumere un figlio con i soldi dei contribuenti è una regola di civiltà che i paesi civili adottano. Indipendentemente da tutto. Non è necessario trovare evidenza empirica. Bastano i sospetti. Cosí come certe relazioni di coppia non possono essere ammesse in certi contesti. Trovo che articoli di questo genere, perdendo di vista ciò che veramente conta, non fanno altro che nutrire il malcostume che obbliga tanti giovani bravi e assetati di meritocrazia a lasciare il nostro paese.

  8. Maurizio Maggini

    Ringrazio gli autori che mi hanno dimostrato che il nepotismo non è poi così importante come si pensa e che lo stesso valga, immagino, per la raccomandazione in genere, le conoscenze, la tessera del partito e via dicendo.

  9. angelo

    E cosa spinge all’ora il “figlio” a far domanda nell’università che più gli aggrada (ossia quella del padre) se non la presenza rassicurante del genitore, anziché andare in una più prestigiosa ma più distante che offra però maggiori stimoli e possibilità di carriera? E come mai questo fenomeno è più diffuso nelle università del sud (cosa statisticamente provata), in zone a minor tasso di legalità (anche in campo accademico)? E come mai ancora il nostro paese registra tassi di omonimia accademica superiore di paesi le cui università mediamente sono notoriamente più in alto nel ranking accademico mondiale?

  10. dperrone

    Credo che il problema di parenti e figli nelle universita’ italiane sia l’espressione di un problema piu’ grande. Molti ricercatori, anche “non-figli”, sono selezionati prima dell’eventuale concorso per ragioni di fedelta’, rispetto, amicizia, e in qualche caso anche parentela.
    Questo e’ la prova che il sistema del concorso ministeriale e’ totalmente sbagliato, perche’ non permette di individuare il responsabile dell’assunzione di una persona mediocre (quello che in inglese e’ chiamato accountability).
    Bisognerebbe permettere ai singoli dipartimenti e ricercatori di prendere decisioni in autonomia, con un sistema di valutazione che in questo caso puo’ individuare i responsabili di scelte non-meritocratiche.

  11. Max

    Non riesco a scaricare il paper, visto che nel link e’ disponibile solo l’abstract. Comunque il fatto che i “figli” non performino significativamente peggio dei “non figli” di accademici non dice nulla sul nepotismo, se non si mostra prima che in assenza dei primi i secondi che vicono un concorso sono i “meritevoli”. Altrimenti si mostra solamente che sono tutti egualmente “incapaci e non meritevoli” (in assenza di un “figlio” metto dentro un altro parente, un amico, ecc.). Avrei visto molto meglio un’analisi in cui si prendono i vari concorsi, si controlla per i titoli dei partecipanti allo stesso concorso (es. in termini relativi rispetto ai competitors) e si fa vedere che il fatto di essere “figlio” (dummy variable) non e’ statisticamente significativo nella probabilita’ di vincere il concorso over and above le caratteristiche osservabili incluse nel modello (eta’, no. pubblicazioni, qualita’ di pubblicazioni).

  12. paolo zanghieri

    Certo è che se il padre impone di mettere il nome del figlio in un lavoro del proprio gruppo di lavoro…

  13. Corrado Del Bò

    Mi pare che l’articolo confonda la discriminazione con la necessità di prevenire i conflitti di interesse.

  14. AM

    Articolo intelligente. Occorre valutare le singole persone, indipendentemente da razza, religione, sesso…e sangue. Mandare via Maldini dalla nazionale solo perché il padre era allenatore avrebbe beneficiato la nazionale stessa?

  15. leonardo

    L’altra ipotesi che non si prende in considerazione è che “I bravi fanno paura”. La selezione potrebbe essere fatta col criterio di mettere prima di tutto al sicuro la struttura dirigenziale e lo si può fare o assumendo i parenti o i mediocri. In questo caso l’analisi empirica così come illustrata non metterebbe in evidenza il fenomeno.
    Sarebbe interessante confrontare i risultati dei ricercatori italiani emigrati con quelli che restano in Italia.

  16. Luca

    Piú che valutare la bravura relativa tra figli e non figli, sarebbe interessante sapere la proporzione di figli nei sistemi universitari degli altri paesi occidentali

  17. Andrea

    Il problema é non solo pratico ma anche etico: forse i figli sono bravi quanto i non figli, ma i figli hanno avuto delle agevolazioni per arrivare dove sono arrivati? Se si a chi hanno tolto il posto? E chi non ha agevolato i figli, magari ha agevolato non figli per altri motivi. Al di lá della bravura le pari opportunità sono un mezzo per garantire efficienza ma anche un fine per garantire eticità soprattutto nelle strutture pubbliche. Articolo o superficiale o fazioso.

  18. Biagio Perretti

    Gli autori trascurano un semplicissimo elemento, che permette di leggere con tutta altra luce le loro analisi statistiche. Il nepotismo, prima ed in preparazione delle vincite nei concorsi, si manifesta nella inclusione di figli e nipoti tra gli autori di pubblicazioni scientifiche. Avendo prova diretta di questi comportamenti, secondo me la lettura della analisi è la seguente: la produttività bibliometrica uguale tra figli e non figli, considerando il fortissimo vantaggio dei primi nell’essere inclusi tra gli autori di lavori a cui hanno dato contributi trascurabili, dimostra la straordinaria qualità dei non figli, che partendo da un handicap drammatico, arrivano agli stessi risultati.

  19. Giacomo Manchi

    Bell’articolo. Esce dai luoghi comuni e mostra l’altro lato della medaglia.
    Le persone dovrebbero essere valutate per i risultati che ottengono, non per stereotipi, o peggio, non valutate a causa di leggi populistiche e poco meritocratiche.

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