Le differenze nelle ore lavorate tra lavoratori a basso e alto salario possono spiegare una parte significativa dell’aumento complessivo della disuguaglianza di reddito. I risultati di una analisi su quattro paesi: Usa, Regno Unito, Francia e Germania.
Le disuguaglianze di reddito
Negli ultimi decenni, una vasta letteratura ha documentato il cambiamento nella distribuzione dei redditi da lavoro nei paesi ad alto reddito. La tempistica e la portata variano da paese a paese: alcuni, come gli Stati Uniti e il Regno Unito, hanno registrato un aumento della disuguaglianza negli anni Ottanta prima di arrivare a stabilizzarsi su valori elevati. In altri paesi, come la Germania, l’aumento della disuguaglianza è avvenuto solo negli ultimi anni.
Nella figura 1 abbiamo inserito l’andamento di un indice di disuguaglianza per le retribuzioni da lavoro per quattro paesi occidentali rilevanti, così da potere osservare le differenze nei livelli e nelle tendenze.
I cambiamenti nella dispersione della retribuzione oraria, cioè la retribuzione percepita da un individuo per ora di lavoro, sono stati la principale spiegazione delle differenze nei livelli di disuguaglianza salariale nazionale. Per esempio, la disuguaglianza nella retribuzione oraria si rivela considerevolmente maggiore negli Stati Uniti rispetto ad altri paesi, mentre è notevolmente aumentata in Germania negli ultimi decenni, in linea con le differenze osservate nella disuguaglianza complessiva (figura 1).
Sebbene i guadagni siano il prodotto della paga oraria e delle ore lavorate, queste ultime hanno finora ricevuto poca attenzione nella letteratura. In un recente articolo analizziamo il ruolo che le ore lavorate giocano nello spiegare le differenze nella disparità di reddito tra paesi e nel tempo. Se tutti gli occupati lavorassero lo stesso numero di ore settimanali, le differenze di retribuzione sarebbero dovute esclusivamente alla dispersione delle retribuzioni orarie. Al contrario, quando ciò non avviene, e al fine di comprendere la dinamica dei guadagni, dobbiamo esaminare le differenze nelle ore lavorate.
Nella figura 2 viene riportata la disuguaglianza nelle ore settimanali lavorate nei quattro paesi considerati nel nostro studio. I dati ci mostrano che la disparità di orario è bassa in Francia e negli Stati Uniti ed è alta in Germania e nel Regno Unito. Inoltre, nel periodo da noi considerato (1995-2016), la Germania ha visto aumentare la dispersione delle ore, mentre nel Regno Unito è diminuita. Nel 2016, la nostra misura di disuguaglianza delle ore lavorate era doppia in Germania e nel Regno Unito rispetto a Francia e Stati Uniti.
Scomponiamo la disuguaglianza dei guadagni
Una maggiore disuguaglianza nell’orario di lavoro implica una distribuzione più dispersa nelle retribuzioni dei lavoratori? Non necessariamente. Il motivo è che l’impatto della disparità delle ore lavorate dipende da chi lavora di più. Consideriamo un lavoratore ben pagato con un salario doppio rispetto a quello di un lavoratore a basso salario: se entrambi sono impiegati per lo stesso numero di ore, la retribuzione del primo è doppia rispetto a quella del secondo. Supponiamo invece che l’individuo a bassa retribuzione lavori il doppio delle ore di quello ad alta retribuzione: la disparità di orario sarà maggiore, ma i due lavoratori avranno lo stesso guadagno, il che implica che non ci sarà nessuna disparità retributiva. Di fatto, nel momento in cui le differenze nelle ore lavorate tendono ad aumentare o a diminuire, la disuguaglianza salariale dipende dalla correlazione tra ore e salari. Se i lavoratori con salari bassi tendono a lavorare di più, cioè se la correlazione è negativa, allora la disuguaglianza delle ore sarà una forza equalizzante. Nel caso in cui la correlazione sia positiva, la diversità di ore lavorate sarà una forza disegualizzante, che tenderà a rafforzare la dispersione delle retribuzioni orarie e la disuguaglianza dei guadagni totali.
Per comprendere l’importanza delle ore lavorate per la disuguaglianza salariale, eseguiamo una scomposizione che ci consente di calcolare quale frazione della dispersione complessiva dei guadagni sia dovuta ai salari e quale alle ore, con quest’ultima che incorpora sia la dispersione delle ore che la loro correlazione con i salari. Nella figura 3 possiamo osservare, per ciascun paese e per il primo e ultimo anno del nostro campione (1995 e 2016), la frazione della disuguaglianza salariale dovuta alla dispersione delle retribuzioni orarie (in blu) e quella dovuta alle ore (in arancione).
Il grafico mostra importanti differenze tra le quattro economie. Negli Stati Uniti e in Francia il contributo complessivo delle ore nel 2016 è moderato: le ore lavorate rappresentano al massimo il 40 per cento della disuguaglianza salariale. Al contrario, le ore giocano un ruolo più importante nel Regno Unito e in Germania, dove sono responsabili di quasi la metà della dispersione nei guadagni.
Figura 3 – Contributo di salari e ore
Nel tempo, il contributo della disuguaglianza delle ore lavorate alla disuguaglianza totale dei redditi è stabile negli Stati Uniti e nel Regno Unito. Al contrario, il contributo delle ore è aumentato in Francia e Germania, passando rispettivamente dal 25 e 28 per cento nel 1995 al 40 e 48 per cento nel 2016. In Francia, l’aumento della disparità di orario è stato compensato da un calo della dispersione salariale, lasciando sostanzialmente invariata la disparità di reddito complessiva. In Germania, le ore sono state il fattore principalmente responsabile dell’aumento del 50 per cento dell’indice di disuguaglianza salariale che osserviamo nella figura 1.
Il contributo delle ore alla disuguaglianza retributiva è aumentato nelle economie continentali, sia perché le ore di lavoro sono diventate più disperse, sia perché in entrambi i paesi la correlazione tra salario e ore lavorate è passata da negativa a positiva. Il fenomeno può essere spiegato dal fatto che, mentre negli anni Novanta lavoravano di più le persone con i salari più bassi, negli ultimi anni sono stati quelli ai vertici della distribuzione a lavorare di più.
Per evidenziare questo fenomeno, suddividiamo i dati in cinque gruppi in base alla posizione dell’individuo nella distribuzione della retribuzione oraria: la figura 4 riporta le ore medie lavorate dagli individui in ciascuno di questi gruppi. Negli Stati Uniti la correlazione positiva è ampiamente stabile, con coloro che si trovano nei quintili salariali più alti che lavorano di più rispetto a quelli nel quintile più basso. Il caso della Germania è sorprendente: mentre a metà degli anni Novanta le persone con salari bassi lavoravano leggermente di più rispetto a quelle con salari alti, nei due decenni successivi lo schema si è invertito, facendo sì che l’orario di lavoro di chi guadagna di più sia aumentato e quello delle persone nei due quintili più bassi sia diminuito. Il risultato è stato non solo una maggiore dispersione dell’orario di lavoro, ma anche una correlazione che da negativa (e quindi egualizzante) è passata a positiva (e quindi disegualizzante).
Alla ricerca di una spiegazione per i cambiamenti nell’orario di lavoro
I nostri risultati sollevano la questione di quali siano i fattori che hanno guidato le dinamiche delle modalità di lavoro. I cambiamenti nella disuguaglianza delle ore lavorate e nella correlazione con i salari possono essere dovuti a effetti di composizione o a cambiamenti per una particolare categoria di individui. Per esempio, le donne tendono a lavorare meno ore degli uomini e sono più reattive alle variazioni salariali (dimostrano una maggiore elasticità dell’orario rispetto al salario). I risultati derivanti dalle regressioni orarie individuali suggeriscono che, sebbene l’aumento dell’occupazione femminile abbia svolto un ruolo, sono stati importanti anche i cambiamenti nell’elasticità della retribuzione oraria per ciascuna categoria di lavoratori. In particolare, questa elasticità è aumentata per gli uomini nelle due economie continentali: ciò porta a chiedersi se si tratti di una scelta ottimale da parte dei lavoratori (risposta dell’offerta di lavoro), o se i lavoratori debbano affrontare una serie di vincoli per lavorare il numero di ore che desiderano (vincoli della domanda di lavoro).
Dato che non è possibile identificare gli effetti causali, abbiamo esaminato una serie di variabili che si muovono insieme all’elasticità delle ore lavorate. I risultati mostrano che maggiore apertura commerciale o volatilità della produzione sono correlate a una maggiore elasticità, in linea con l’ipotesi che il commercio e l’incertezza costringano le imprese a essere più competitive e quindi a offrire orari di lavoro più corti (per esempio facendo più ampio ricorso ai contratti a termine) ai lavoratori meno produttivi (meno pagati). Nel periodo esaminato, l’indebolimento delle istituzioni del mercato del lavoro è correlato anche all’aumento dell’elasticità, perché rende più facile per le imprese utilizzare contratti a zero ore o a giorni frazionati.
Quali sono le implicazioni politiche?
Oggi, in alcuni paesi, coloro che si trovano in fondo alla distribuzione dei salari lavorano meno di quanto non facessero due decenni fa. La nostra analisi dimostra che ciò aumenta la disuguaglianza retributiva, ma non considera né il fatto che la riduzione dell’orario di lavoro possa essere il risultato di scelte individuali da cui consegue un aumento del tempo libero che compensa la perdita di reddito relativo né che, magari, i lavoratori a basso salario non possono lavorare quanto vorrebbero. Alcune recenti evidenze in Germania sembrano dimostrare che quest’ultima ipotesi sia la più plausibile.
In un contesto in cui alcuni lavoratori affermano di non essere in grado di lavorare quanto vorrebbero, è importante capire quali sono gli ostacoli che gli impediscono di farlo. Sulla base di ciò, abbiamo identificato alcune correlazioni macroeconomiche e istituzionali che potrebbero spiegare il fenomeno. Un’ampia letteratura ha esaminato gli effetti che una maggiore apertura commerciale e più deboli istituzioni del mercato del lavoro hanno avuto sulla distribuzione attraverso il loro impatto sui salari. La nostra analisi indica che hanno effetti anche per le ore lavorate da gruppi diversi, influenzandone il numero e quindi la disparità salariale.
In conclusione, un avvertimento è d’obbligo. La nostra analisi si è concentrata su individui con guadagni positivi, per i quali abbiamo osservato andamenti diversi nei vari paesi. I cambiamenti, però, possono nascondere il fatto che sono entrati nel mercato del lavoro individui che in precedenza non erano occupati, e viceversa. Nel caso della Germania, l’aumento della disparità salariale è stato accompagnato da un più largo accesso all’occupazione di lavoratori a basso salario, motivo per cui questi individui sono passati dal non guadagnare nulla a salari bassi, ma positivi. Le politiche che mirano a ridurre la disparità di reddito non dovrebbero quindi ignorare il fatto che la selezione nel mondo del lavoro è un altro aspetto importante della distribuzione osservata.
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