Passaggio a due distinte misure, diritto ad un’esistenza dignitosa, migliore capacità di raggiungere i poveri, occupabilità come vicinanza al mercato del lavoro e percorsi d’inclusione realisticamente ambiziosi. Ecco i suggerimenti della Caritas per la riforma del Reddito di Cittadinanza.
Dal Rdc a due nuove misure
Il governo Meloni intende realizzare una riforma complessiva delle politiche contro la povertà in Italia. Per contribuire alla discussione su un cambiamento così rilevante per le fasce più deboli della popolazione, Caritas Italiana ha costituito un apposito gruppo di lavoro e ha avviato negli scorsi mesi una riflessione che ha portato all’elaborazione di una proposta, presentata al governo. Questo articolo tratteggia un possibile disegno d’insieme della riforma.
La riforma suggerita sostituisce il Reddito di cittadinanza (Rdc) con due misure, tra loro complementari: l’Assegno sociale per il lavoro (Al) e il Reddito di protezione (Rep).
L’Assegno sociale per il lavoro (Al) è rivolto alle persone in grave difficoltà economica, senza lavoro da un determinato periodo di tempo (occupabili) e prive di sostegni pubblici per la disoccupazione. La sua finalità è il re-inserimento lavorativo. Si articola in un trasferimento monetario e in attività mirate a trovare un nuovo impiego. È a tempo limitato e pone ai beneficiari stringenti condizioni affinché si impegnino attivamente nella ricerca di un’occupazione.
Il Reddito di protezione (Rep) è rivolto alle famiglie in povertà. Assicura la possibilità di condurre una vita decente e offre percorsi di reinserimento sociale e di avvicinamento al mercato del lavoro. Si compone di un trasferimento monetario e di servizi alla persona, differenziati in base alle specifiche caratteristiche delle famiglie. Lo si riceve per un certo periodo di tempo, concluso il quale è possibile presentare nuovamente domanda e, se persiste la condizione di povertà, continuare a fruirne.
La proposta
Il disegno della proposta Caritas poggia su alcuni capisaldi.
Primo, misure diverse per obiettivi diversi. Si vuole superare l’attuale confusione tra l’obiettivo dell’inserimento lavorativo e quello della tutela di ultima istanza, prevedendo due prestazioni distinte con finalità differenti. Una è una misura di inserimento lavorativo per persone occupabili in difficoltà economica (Al) e l’altra è una misura di tutela di un reddito minimo per le famiglie povere (Rep). Un simile assetto è già stato fatto proprio da otto paesi europei, diversi dei quali vicini al nostro, come Austria, Francia, Grecia, Portogallo e Spagna.
Secondo, l’occupabilità come vicinanza al mercato del lavoro. L’utenza dell’Assegno sociale per il lavoro e quella del Reddito di protezione si distinguono per un diverso grado di occupabilità, intesa come la probabilità di trovare un lavoro; le persone occupabili sono indirizzate al primo strumento. La loro situazione è valutata attraverso la vicinanza al mercato del lavoro (stato di disoccupazione da non più di un certo periodo), coerentemente con quanto accade a livello internazionale. in tutti i paesi in cui tali misure già sono attive, infatti, la storia lavorativa del singolo è considerata il primo criterio di occupabilità.
Terzo, il diritto a un’esistenza dignitosa. S’intende assicurare il diritto a un’esistenza dignitosa a chiunque sia caduto in povertà. In tutta Europa chi si trova in condizioni d’indigenza (con risorse economiche inferiori a una determinata soglia di povertà) è titolato a un sostegno pubblico con continuità. Inoltre, in nessun paese europeo a un disoccupato senza altre forme di sostentamento è precluso l’accesso al sostegno economico contro la povertà solo perché considerato occupabile.
Quarto, partire dai poveri. Troppo famiglie in povertà assoluta non ricevono il Reddito di cittadinanza (tra il 50 e il 61 per cento, in base ai diversi studi) e troppe che non sono in questa condizione, invece, lo ricevono (tra il 36 e il 51 per cento). Si vogliono, dunque, rivedere i criteri di accesso così da migliorare la capacità di raggiungere i poveri, attraverso diverse mosse. Innanzitutto, non penalizzare le famiglie numerose e con figli, come oggi accade. Inoltre, superare le discriminazioni verso gli stranieri (i 10 anni di residenza necessari per ricevere il Rdc). Infine, considerare le notevoli differenze territoriali nel costo della vita, sia tra macro-aree territoriali (Nord/Centro/Sud) sia tra comuni di diverse dimensioni (piccolo/medio/grande).
Quinto, percorsi d’inclusione realisticamente ambiziosi. Le difficoltà incontrate, negli scorsi anni, nella realizzazione dei percorsi di inclusione (sia di tipo sociale che lavorativo), responsabilità dei servizi locali di welfare, comuni e centri per l’impiego, sono affrontabili se si valorizza l’esperienza maturata sinora. È irrinunciabile il primato della presa in carico delle persone da parte dei servizi (sociali e del lavoro): il contributo economico non dovrebbe essere erogato se prima non si è siglato un patto di collaborazione con la persona che, informata di un set di condizionalità minime universali (definite in base alle diverse caratteristiche e fragilità degli individui), decide di attenervisi, intraprendendo un percorso di miglioramento della propria vita, con il supporto di operatori e servizi dedicati.
Dopo averne illustrato i capisaldi, la tabella 1 propone il quadro d’insieme della proposta, i cui dettagli sono disponibili qui.
* Il gruppo di lavoro di Caritas Italiana è costituito da: Cristiano Gori (coordinatore, Università di Trento e collaboratore di Caritas Italiana), Massimo Baldini (Università di Modena e Reggio Emilia), Andrea Barachino (Caritas diocesana di Concordia-Pordenone), Marco Berbaldi (Caritas diocesana di Savona), Don Bruno Bignami (Ufficio nazionale per i problemi sociali e il lavoro della Conferenza episcopale italiana), Giulio Bertoluzza (Università di Trento), Tomas Chiaromonte (Ufficio nazionale per la pastorale della salute della Conferenza episcopale italiana), Alessandro Ciglieri (consulente e collaboratore di Caritas Italiana), Nunzia De Capite (Caritas Italiana), Massimo De Minicis (Università di Roma – La Sapienza), Roberto Franchini (Servizio nazionale per la pastorale delle persone con disabilità), Domenico Leggio (Caritas diocesana di Ragusa), Marco Lora (Ufficio nazionale per la pastorale della salute della Conferenza episcopale italiana), Claudio Lucifora (Università Cattolica di Milano), Maria Luisa Maitino (Irpet Toscana), Manos Matsaganis (Politecnico di Milano), Lucia Mazzuca (consulente indipendente), Daniele Pacifico (Ocse, Parigi), Letizia Ravagli (Irpet Toscana), Nicola Sciclone (Irpet Toscana), Alberto Zanardi (Università di Bologna).
Lavoce è di tutti: sostienila!
Lavoce.info non ospita pubblicità e, a differenza di molti altri siti di informazione, l’accesso ai nostri articoli è completamente gratuito. L’impegno dei redattori è volontario, ma le donazioni sono fondamentali per sostenere i costi del nostro sito. Il tuo contributo rafforzerebbe la nostra indipendenza e ci aiuterebbe a migliorare la nostra offerta di informazione libera, professionale e gratuita. Grazie del tuo aiuto!
Giovanni Di Dio
Mi sembrano due ottime proposte da cui partire. Ma quanto costano?
Enrico Motta
Le proposte di riforma del Rdc, tra cui quella della Caritas che mi sembra molto interessante, dovrebbero secondo me sottolineare due aspetti che hanno portato al disastro del Rdc di provenienza 5 Stelle:
1) abolire la autocertificazione come mezzo per ottenerlo, e 2) decentrare a livello comunale, mantenendo organi di controllo regionali o nazionali, l’individuazione dei soggetti cui dare le forme di aiuto.
Come potesse un organo centrale come l’INPS sulla base di autocertificazioni centrare gli obbiettivi di singole persone o famiglie, lo sanno solo gli ideatori del Rdc pentastellato. A meno che lo scopo fosse un altro.