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Per attuare il Pnrr serve un patto per lo sviluppo

Arrivato alla fase di attuazione, il Pnrr mostra i difetti di metodo che lo hanno contraddistinto fin dall’inizio. È mancata la consultazione dei territori. E non è stata costruita una visione condivisa degli obiettivi da raggiungere.

La Corte dei conti e il Pnrr

“È necessario vigilare affinché i progetti in corso di approvazione – nel filone sanità previsto nel Pnrr: 1400 case di comunità, 400 ospedali di comunità, centrali operative territoriali per ogni distretto, il fascicolo sanitario e la telemedicina – rispondano alle esigenze di funzionalità delle strutture sanitarie da realizzare, con riferimento ai contingenti di personale richiesti ai servizi e alle opere infrastrutturali connaturate alle attività che verranno espletate all’interno delle stesse”.

Tuttavia, più delle mille pagine della Relazione al Parlamento della Corte dei conti sullo stato di attuazione e sui ritardi del Piano nazionale di ripresa e resilienza, spicca quanto raccomandato dall’organo di controllo in una distinta delibera (la n. 9 del 2023): si prende atto dell’impossibilità di rispettare la data intermedia del 31 marzo per alcuni dei progetti succitati e al contempo si mette in risalto un tema, per lo più trascurato, quello del personale – medici, infermieri e altre figure socio-sanitarie – e quindi delle coperture di spesa corrente necessarie, per “mettere realmente a terra” la riforma del sistema sanitario, ovvero ciò che ha inizialmente giustificato il Piano.

Al di là dei grandi numeri e delle polemiche sugli investimenti ritenuti irrealizzabili, resta, come una spada di Damocle, il rischio di una riforma sanitaria dimezzata associata a un centralismo sottile, con uno stato che, piuttosto che cercare di comprendere di cosa hanno realmente bisogno i principali soggetti attuatori sul territorio (i comuni devono governare 40 miliardi del Recovery sui complessivi 191, le regioni devono trovare come recuperare spese correnti per coprire i costi del personale che diano gambe ai nuovi servizi sanitari), si preoccupa di prevedere, solo per i sovrabbondanti uffici della presidenza del Consiglio dei ministri (si rinvia alle bozze di Dl pubblica amministrazione), norme volte a dare la possibilità ai pensionati di ricoprire incarichi retribuiti di vertice (superando un divieto vigente) e a consentire la stabilizzazione dei soggetti reclutati con contratti non oltre la scadenza del Piano (2026).

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Una misura di possibile stabilizzazione andrebbe invece prevista per gli enti locali, i cui bandi non riescono a essere sufficientemente attrattivi per coprire i posti necessari (il 71 per cento è rimasto scoperto, secondo Formez).

La visione che manca

In sede di attuazione, il Pnrr comincia a mostrare i suoi limiti strutturali, un difetto di metodo che ha contraddistinto la sua preparazione, quando fu scritto a tavolino perché c’erano le risorse finanziarie disponibili, senza consultare i territori con le loro priorità, e non tenendo nel debito conto le rispettive necessità operative.

Né si è lavorato per la costruzione di un “patto per lo sviluppo” – tanto più necessario posto che il Piano si articola in “investimenti” e “riforme” – che funzionasse, da una parte, come motore di energie, a latere del complesso meccanismo di governance e di procedure previsto per l’utilizzo dei fondi; dall’altra come momento di verifica circolare, dal centro verso la periferia, per accertare cosa richiedesse aggiustamenti anche nelle riforme abilitanti, pensate per superare i deficit strutturali del paese.

Volendo, un “patto per lo sviluppo”, con filiazioni regionali e locali potrebbe essere ancora promosso dallo stato con i protagonisti della crescita dì un territorio, partendo dai comuni (i soggetti attuatori più pragmatici) e coinvolgendo regioni, università, imprese, ordini professionali, soggetti del Terzo settore, associazioni di cittadinanza. In questa fase critica di attuazione del Pnrr, potrebbe alimentare uno spirito di coesione sui progetti ritenuti strategici, facendo da traino rispetto alle restanti iniziative.

Un “patto per lo sviluppo” potrebbe servire per dare spessore non solo burocratico all’attuazione del Piano, che richiede capacità di spesa, ma anche per sostenere la visione culturale dei professionisti pubblici e privati coinvolti nella stesura dei progetti e dei bandi, con iniziative e incontri pubblici che diano profondità, lungimiranza e visione ai progetti del Piano.

Parallelamente alla riduzione delle stazioni appaltanti prevista dal nuovo Codice, si dovrebbe agire per rendere più attrattive le pubbliche amministrazioni, creando la figura contrattuale dei super-funzionari retribuiti adeguatamente (già prevista dalla legge) e formati stabilmente per costruire un corpo di giovani professionisti in grado di sostenere il processo di predisposizione dei progetti e dei bandi, il coinvolgimento di investitori privati con i quali collaborare per partenariati pubblico-privato, in un quadro di trasparenza su quali siano esattamente i programmi a rischio.

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A ben vedere, tutto ciò costituirebbe una lettura non meramente procedurale di quell’interesse nazionale che la legislazione sulla governance del Piano utilizza per consentire l’intervento sostitutivo dello stato in caso di ritardi o inadempienze che mettano a rischio l’utilizzo dei fondi.

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  1. Lorenzo Luisi

    Mi scusi, @Enrico Conte, ma questo “patto per lo sviluppo” non andava fatto contestualmente alla fase preparatoria durante il Conte2 (tre anni fa) o alla firma di Draghi (due anni fa) per l’approvazione definitiva? In fondo parliamo di patti (politici) quando si prepara un piano (tecnico).
    Il fatto che Meloni era all’opposizione e sostanzialmente “non favorevole” al NGEU [https://lavoce.info/archives/96586/la-destra-si-e-opposta-in-ogni-modo-al-recovery-plan/] credo che deponga male, sulla volontà reciproca, ora, di venire a patti.
    Del resto se invece di piantare 6.6M di alberi si mettono a dimora 6.6M di semi secondo il rilievo della Corte dei Conti sullo stato di attuazione (non di programmazione!) [https://www.corteconti.it/Download?id=063b635c-4f44-4715-b94f-96947b0a8397] giocando sulla semantica del termine “planting”, non vedo come si possa essere ottimisti che un “patto per lo sviluppo, con filiazioni regionali e locali potrebbe essere ancora promosso dallo stato con i protagonisti della crescita dì un territorio” come lei propone; Mi aggrappo alla speranza e la saluto. 🙂

    • Enrico Conte

      Pregiato Lorenzo
      Quello che nn è stato fatto a suo tempo è dipeso da una serie di fattori,nn ultimo l’inadeguatezza della classe politica e amministrativa.
      Adesso i soldi ci sono e sono molti, anzi tantissimi.
      Ciò nn impedisce di provare a costruire un percorso che sui territori serva per realizzare una rete di servizi

  2. firmin

    Molti si aspettavano questo risultato “deludente” e qualcuno se lo augurava anche. Solo gli sprovveduti e qualche inguaribile ottimista potevano sperare che il metodo del PNRR (pagamenti contro SAL) avrebbe dato una spinta nella giusta direzione ad una PA costruita per autorizzare e controllare e non per progettare e raggiungere gli obiettivi concreti richiesti dal PNRR. Finchè gli obiettivi da raggiungere si limitavano a qualche decreto (produzione di carta a mezzo di carta, avrebbe detto Sraffa) tutti i governi sono stati capaci di rispettare le scadenze, ma già da tempo si registravano ritardi nell’uso delle risorse. Oggi siano al 6% dei fondi impegnati (ancora carta) e all’1% di opere in regola coi piani. Come si poteva pensare che un paese che manda indietro regolarmente oltre la metà dei fondi europei ordinari potesse utilizzare in appena 5 anni tutte le risorse del PNRR? Le norme e le pratiche che governano la PA, nonchè la sua composizione e organizzazione gerarchica, impediscono strutturalmente di fare molto di più. Nessun dirigente (che risponde di persona per qualsiasi deviazione dalle norme e pratiche correnti, anche fatta in nome dell’efficienza) avrebbe mai firmato atti preparati da “tecnici” che non era in grado di giudicare a causa della sua formazione prettamente giuridica? Invece di predisporre centralmente dei progetti standard da utilizzare in tutte le amministrazioni locali per le opere più comuni (rifacimento di strade, edifici pubblici, ecc.), si è preferito mettere in gara tra loro comuni e regioni che non erano strutturalmente capaci di formularli e “metterli a terra”. L’obbligo di prevedere in bilancio le risorse umane e materiali per il funzionamento delle opere negli anni a venire ha sostanzialmnete bloccato ogni iniziativa. Le ultime “semplificazioni” del codice degli appalti e le poche assunzioni di personale qualificato non sono sufficienti a rimediare a questo disastro annunciato…ma possono favorire ondate di corruzione ed inefficienza mai viste. Le “cabine di regia” ed i poteri sostitutivi creeranno solo ulteriore contenzioso, ma non serviranno a mettere neanche un mattone sull’altro. A questo punto, l’unica soluzione efficiente è quella di affidare tutto a pochi general contractor non sottoposti ai lacci e lacciuoli del diritto amministrativo….ma forse era proprio questo l’obiettivo.

    • Enrico Conte

      Affidare a general contractor sarebbe ancora peggio
      Lo sviluppo di un territorio dipende dalle capacità di PA locali

  3. bob

    in mancanza assoluta di un sistema- Paese oltre che di una programmazione di sviluppo inesistente tutto quello che Lei con buona volontà e correttezza propone non ha possibilità di attuazione. Se non usciamo dalla logica regionalistica localistica dimenticando che un qualsiasi progetto di rilevanza ha ragione di esistere se ha valenza e visione quanto meno nazionale, non andremo da nessuna parte

    • Enrico Conte

      Sono d accordo sulla necessità di una visione nazionale
      Ma sono anche del parere che a certe condizioni siano i territori locali la forza di un paese
      Che volendo possono agire creando massa critica dal basso

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