Le risorse del Next Generation EU possono aiutare l’Italia a divenire un’economia efficiente. La premessa è però la creazione di un sistema di ricerca applicata moderno, in grado di attrarre investimenti e competere nei mercati internazionali.

Il trasferimento tecnologico negli Usa e in Europa

Col Next Generation EU, attraverso i diversi strumenti messi in campo dalla Commissione europea (Recovery and Resilience Facility, React EU e Just Transition Fund) per contrastare gli effetti della pandemia e sostenere una ripresa equilibrata e sostenibile, arriveranno in Italia circa 209 miliardi, ripartiti in 81,4 miliardi di sussidi e 127,4 miliardi di prestiti, insieme ai 37,3 miliardi di fondi strutturali. Per il nostro paese, il prossimo ciclo di programmazione 2021-2027 si presenta dunque come l’occasione, in un certo senso storica, per intervenire sui propri limiti strutturali e divenire un sistema economico moderno ed efficiente. Il Piano nazionale di ripresa e resilienza, nella prima versione presentata a metà settembre dal governo, ha individuato diverse missioni e riforme a supporto.

Un tema trasversale alle sei missioni proposte dal governo e alle sette iniziative flagship indicate dalla Commissione è quello di una collaborazione strutturale tra università e industria, importante driver dell’economia nel promuovere la competitività regionale attraverso l’innovazione tecnologica, la cosiddetta “terza missione” dell’università. Mediante la terza missione, le università, soprattutto quelle statunitensi e inglesi, hanno rafforzato le relazioni tra mondo accademico, società e territorio, promuovendo il trasferimento della ricerca generata all’interno degli atenei, all’industria e divenendo il principale meccanismo di innovazione dei prodotti e dei processi produttivi.

Negli Stati Uniti, già con l’approvazione del Bayh-Dole Act nel 1980, è stato introdotto uno stimolo alla creazione di brevetti universitari, consentendo ai ricercatori universitari di ottenere valore economico dal proprio lavoro attraverso finanziamenti federali.

Inoltre, con l’introduzione del tribunale dei brevetti e l’affermarsi di un ambiente legale favorevole alla tutela della proprietà intellettuale (cfr. qui) , le università hanno promosso la creazione e lo sfruttamento di brevetti attraverso l’istituzione di uffici di trasferimento tecnologico (Tto) che hanno incoraggiato la formazione di spin-off accademiche (Aso), imprese create al fine di commercializzare i frutti derivanti dalla ricerca universitaria. Di conseguenza, il numero di brevetti nelle università statunitensi è cresciuto rapidamente: è raddoppiato nel periodo tra il 1979 e il 1984 ed è aumentato con una quota del 3,6 per cento nel 1995 a partire dall’1 per cento del 1975.

Tale approccio sull’uso dei brevetti si è progressivamente spostato in Europa, in particolare nel Regno Unito, raggiungendo successivamente anche gli altri paesi europei. Secondo il Survey Report dell’Astp-Proton, la stragrande maggioranza (92 per cento) degli uffici di trasferimento tecnologico in Europa può contare almeno su un brevetto concesso o una domanda di brevetto nel proprio portafoglio, con un tasso medio del 21 per cento relativo alla concessione di licenze. Raccogliendo dati da oltre 400 organizzazioni europee, l’Astp-Proton Report ha anche esaminato la creazione di imprese spin-off: si tratta di una regolare attività all’interno della comunità europea e nel 2015 ne sono state formate 640.

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I paesi del Sud Europa si sono mostrati non solo più lenti nell’approvazione di nuove leggi e regolamenti, ma anche deboli nei propri sistemi di ricerca (cfr. qui). In Italia, la prima proposta legislativa sull’imprenditorialità accademica è stata la legge n. 383/2001, successivamente integrata nel 2005 con il nuovo Codice ufficiale dei diritti di proprietà intellettuale seguito dal regolamento di attuazione del Codice della proprietà industriale del 2010. Nel 2001 era stato introdotto il cosiddetto Professor’s Privilege, secondo cui le invenzioni sviluppate in ambito accademico (o presso gli enti di ricerca pubblici) appartengono ai professori o ricercatori che le hanno concepite e non alle strutture di ricerca (atenei, enti) che tuttavia ne sostengono i costi di sviluppo, limitando di fatto la possibilità delle università di finanziarsi tramite il trasferimento tecnologico.

Se da una parte con queste leggi il governo ha dimostrato il proprio interesse a sostenere la commercializzazione della ricerca universitaria, dall’altra, agevolando solo i professori, limita la commercializzazione delle invenzioni, poiché i docenti hanno più interesse a pubblicare le loro “invenzioni” piuttosto che a brevettarle. La loro carriera dipende infatti principalmente dalle citazioni degli articoli pubblicati, che nella valutazione del sistema universitario hanno più importanza dei brevetti. E infatti, il Professor’s Privilege è ancora in vigore solo in Italia e Svezia, mentre gli altri paesi lo hanno progressivamente abbandonato (tabella 2) per adottare invece il sistema dell’Institutional Ownership, il quale prevede che l’istituzione per cui il ricercatore lavora diventi proprietaria dei risultati della ricerca finanziata con fondi pubblici, e, detenendone i diritti di proprietà intellettuale, ottenga i benefici economici che derivano dal brevetto.

È vero che paesi come Italia e Regno Unito presentano strutture diverse nei loro sistemi nazionali, scientifici e tecnologici. Da un nostro lavoro sul fenomeno delle spin-off accademiche a livello europeo, emerge infatti che su 920 spin-off italiane, soltanto l’8,14 per cento sono state oggetto di operazioni societarie, mentre nel Regno Unito, su un campione di 1.048 spin-off, il 97 per cento è stato oggetto di accordi commerciali. In altre parole, le Aso inglesi risultano molto “più appetibili” di quelle italiane, ma a giocare un ruolo importante è anche la normativa di riferimento.

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Proposte per l’Italia

In una fase di rilancio complessivo del sistema industriale italiano, quali interventi si potrebbero adottare per rafforzare le start-up accademiche?

L’articolo 38 del “decreto Rilancio” ha introdotto alcune misure importanti, potenziando il Fondo nazionale innovazione e permettendo alle persone fisiche una detrazione Irpef del 50 per cento dell’investimento nel capitale sociale di una start-up innovativa. Sono tutte agevolazioni utili, ma in questa fase serve qualcosa in più.

Innanzitutto, si potrebbe sperimentare un credito d’imposta del 100 per cento (con un tetto di 100 mila euro in tre anni) per quelle imprese che decidono di investire risorse nel progetto di una start-up innovativa. La misura, oltre a finanziare investimenti a elevato valore aggiunto, avrebbe notevoli effetti moltiplicativi nel medio e nel lungo periodo, migliorando la produttività del sistema economico nel suo complesso.

Un secondo intervento potrebbe agire sull’incontro tra domanda e offerta di tecnologie e processi innovativi attraverso la formazione dei cosiddetti broker dell’innovazione, figure diffuse a livello internazionale che hanno il compito di identificare tecnologie emergenti e incentivare partnership tra imprese e ricerca. I broker dell’innovazione sono stati introdotti dalla Commissione europea nel 2010 tramite i Pei (partenariati europei per l’innovazione), che ne hanno dato una prima definizione relativamente alla promozione del settore agricolo, ma potrebbero estendersi anche a tutti gli altri ambiti.

Mettendo poi in sinergia università e centri di ricerca, si potrebbe finanziare la nascita, soprattutto nelle regioni del Mezzogiorno, dei parchi scientifici e tecnologici e servizi connessi: il modello è il friulano Area Science Park, una struttura che si occupa di trasferimento tecnologico e valorizzazione dei risultati della ricerca scientifica e che nella sua lunga attività ha interessato circa 2.500 imprese e più di 3.100 operazioni di innovazione.

Accanto alle sei missioni individuate dal governo nel Piano nazionale di ripresa e resilienza, quella del rafforzamento strutturale del trasferimento tecnologico è forse la premessa per uscire dalla pandemia con un sistema di ricerca applicata moderno, in grado di attrarre investimenti e competere nei mercati internazionali.

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