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Sulla riforma delle pensioni c’è una via di uscita *

Una possibile soluzione per arrivare a una riforma previdenziale senza pesare sui conti pubblici è sostituire le pensioni di vecchiaia e di anzianità con un assegno calcolato sul montante contributivo versato, integrata per i lavoratori in regime misto.

Pensioni e bassa natalità  

“Non c’è nessuna riforma previdenziale che tiene nel medio-lungo periodo con i numeri della natalità che abbiamo oggi in questo paese”. Con questa dichiarazione, frutto di una semplificazione estrema della questione, il ministro dell’Economia, Giancarlo Giorgetti, ha messo una pietra tombale sulla possibilità di rivedere le regole del sistema previdenziale. Se fosse vero quanto affermato dal ministro dell’Economia, la riforma previdenziale andrebbe accantonata per sempre, perché la stagione dei baby boomer, ovvero l’esplosione demografica che il mondo occidentale ha conosciuto dopo la fine della seconda guerra mondiale, non tornerà più. La sostenibilità nel medio-lungo periodo del pagamento delle pensioni, però, è legata ai futuri lavoratori più che alle future nascite e non è detto che le due cose debbano coincidere. Il problema della bassa natalità è da anni sotto gli occhi di tutti, ma le scelte demografiche che influenzeranno i futuri lavoratori (nati in Italia) sono già state fatte. L’attenzione dei governanti dovrebbe, allora, concentrarsi sull’aumento della partecipazione al mercato del lavoro (a partire dalla componente femminile e dei Neet), nonché al recupero dell’evasione contributiva. L’equilibrio del sistema a ripartizione prevede, infatti, che il pagamento annuale delle pensioni avvenga con i versamenti contributivi prelevati ai datori di lavoro e ai lavoratori.    

Figura 1 – Pensioni lorde e nette (*) in Italia e contributi previdenziali – Anni 1995-2022 (milioni di euro)

Fonte: elaborazioni su dati Istat, Conti nazionali.
(*) L’importo netto è calcolato in via approssimativa applicando una aliquota Irpef media del 25 per cento per tutto il periodo considerato.

In Italia, nel 2022, per circa 220 miliardi netti erogati per le pensioni (considerando una aliquota Irpef media del 25 per cento), sono stati raccolti contributi previdenziali per 260 miliardi. Il surplus di gettito contributivo è utilizzato per finanziare le altre spese previdenziale e assistenziali. Se nei prossimi anni il margine dovesse ridursi, bisognerebbe pensare ad aumentare la base contributiva, anziché continuare a comprimere la spesa, cambiando in corsa le regole del gioco. L’uscita del ministro Giorgetti non sorprende più di tanto, perché la marcia indietro si ripete ogni anno alla vigilia della sessione di bilancio, a prescindere dal governo di turno, salvo poi annunciare la costituzione di un tavolo tecnico con le parti sociali, a partire dall’anno successivo, che non sfocia mai in niente.  

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La soluzione possibile  

La discussione verte però su una errata percezione del diritto alla pensione, che deriva da un approccio distorto al problema. Il sistema previdenziale va riformato in quanto è ancora tarato nell’ottica del sistema retributivo, che garantiva un assegno pensionistico al raggiungimento di determinati requisiti anagrafici e di anzianità contributiva. Con l’attuale sistema contributivo, in vigore per tutti i lavoratori dal 2012, il rateo pensionistico si basa sull’equilibrio attuariale tra il montante contributivo accumulato alla fine dell’attività lavorativa e la speranza di vita residua. Maggiore è l’età alla quale si va in pensione e più alto sarà l’assegno, che però sarà goduto per un periodo più breve, rispetto alla possibilità di smettere di lavorare anticipatamente. In questo senso, il sistema contributivo è svincolato dal requisito dell’età anagrafica minima per andare in pensione, dovendo solo assicurare che la pensione maturata sia sufficiente a garantire una vita residua dignitosa. Il vero problema, spesso sottaciuto, è che con la storia contributiva degli attuali lavoratori e con dinamiche del Pil basse come quelle attese per i prossimi decenni, l’adeguatezza della futura pensione non è realistica. La riforma del sistema previdenziale non è, quindi, un capriccio di qualcuno, ma deriva dalla discrasia generata dal legislatore, che ha vincolato anche i lavoratori con trattamento contributivo alle regole di uscita pensate per il sistema retributivo. A marzo 2018, con l’articolo Pensione a pezzi, proposi di scorporare l’assegno contributivo da quello retributivo per i lavoratori in regime misto che decidevano di andare prima in pensione, con il primo che veniva corrisposto subito e il secondo al maturare dei requisiti di uscita (anagrafici o di anzianità contributiva) attualmente richiesti. La modifica non aveva costi aggiuntivi per le casse previdenziali, ma concedeva solo ad alcuni una maggiore flessibilità nella risoluzione del contratto di lavoro. L’attenzione si spostava, quindi, sui giovani lavoratori e quelli disagiati, che pagheranno prima o poi le storture del sistema pensionistico. Se fosse stata accolta fin da allora, si sarebbero evitate Quota 100 (dal 2019 al 2021), Quota 102 (2022) e Quota 103 (2023) che hanno gravato inutilmente per svariati miliardi sul bilancio dello stato e sarebbe stata archiviata la riforma Fornero, con tutte le polemiche collegate. Al giorno d’oggi non ha più senso parlare di pensione di vecchiaia o anticipata, come invece si continua a fare. Vanno entrambe abolite e sostituite da una pensione lavorativa, per maturare la quale è sufficiente raggiungere, con il regime contributivo, un montante adeguato, mentre ai lavoratori in regime misto, una categoria che con il tempo è destinata a scomparire, è riservata anche una pensione integrativa per riconoscere i versamenti effettuati prima del 1996 con il sistema retributivo. In questo modo, nessuno percepirebbe più di quello che gli spetta e chi ha maturato un rateo sufficiente, può andare in pensione a suo piacimento, ma senza gravare sui conti pubblici (se non per un’anticipazione di cassa che viene più che recuperata negli anni successivi). Tutto molto semplice e fattibile fin dalla prossima legge di bilancio.  

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Il problema dei giovani  

Tale semplificazione del sistema previdenziale metterebbe, però, a nudo la vera questione che si dovrebbe affrontare, ovvero l’insufficienza dei contributi versati dai giovani lavoratori per avere in futuro una pensione dignitosa, che implica non più la sostenibilità del solo sistema previdenziale, ma quella dell’intero tessuto sociale negli anni a venire. Ed è forse implicitamente questo il senso dell’affermazione del ministro, quando parla di impossibilità di attuare riforme sostenibili con tassi di fertilità (e quindi prospetticamente di crescita dell’occupazione e del Pil) come quelli attuali. Ma la risposta non può essere quella di prendere tempo, trincerandosi dietro i vincoli di bilancio e al tempo stesso continuando a sprecare soldi pubblici con misure tampone che avvantaggiano solo pochi.    

* L’articolo riflette solo l’opinione dell’autore e non impegna in alcun modo l’Istituto di appartenenza.

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18 commenti

  1. Savino

    Non è sostenibile, perchè si comincia a lavorare troppo tardi, con carriere discontinue, per giunta, con difficoltà concrete per il riscatto della laurea, per giunta ancora, il quale dovrebbe essere figurativo. Il problema è raggiungere almeno i primi 30 anni di contributi mentre non è necessario nell’Italia di oggi impiccarsi alle quote 103 o simili, alle quote 41 o simili, ai 58-59 anni di età per opzione donna o simili.

    • Gym

      Tutte le categorie dovrebbero avere una cassa pensionii privata con versamenti certi e individuali.

  2. emanuele davide ruffino

    posizione assolutamente condivisibile, tant’è chi io in un mio articolo pubblicato il 27 agosto su https://www.laportadivetro.com/post/riforma-pensioni-che-non-diventi-un-appropriazione-indebita, mi spingevo a definire il limite di età , quando si raggiunge una pensione decisamente superiore al minimo, una forma di appropriazione indebita nei confronti di alcuni lavoratori (quelli che a parità di versamenti non raggiungono i 41anni di versamento ) a favore di chi ha versato meno ma con più anni contributivi. Il legislatore deve riconoscere a chi ha versato un trattamento non penalizzante, se si vuole creare un sistema virtuoso.

  3. Gianluca

    Non la vedo comunque possibile come via di uscita, sarebbe la solita fregatura all’italiana.
    Le pensione odierne, come quelle future sono pagate utilizzando le entrate correnti.
    Come si può pensare di creare un montante per il futuro se non è possibile l’accumulo e se le prospettive di crescita demografica/ aumento notevole degli stipendi per le prossime generazioni sono a prospettiva pessima?
    Se non ci sono persone in numero sufficiente ( o ad altissimo reddito) come pensiamo di pagare delle pensioni visto che di fatto non stiamo creando un montante di risparmio? Utopia

    L’unica vera soluzione è il raggiungimento degli standard svizzeri/francesi/tedeschi di stipendio, solo cosi si può calciare ancora il barattolo.

  4. Firmin

    Il dibattito sulle pensioni sembra distorto da un equivoco di fondo, ovvero che i diversi regimi riescano a garantire per il futuro assegni predeterminati in base a requisii e montanti contributivi raggiunti in passato. Purtroppo le pensioni sono sempre pagate attingendo alle risorse disponibili in quel momento e quindi i diversi sistemi previdenziali (pubblici o privati) possono determinare solo la quota individuale di tali risorse, ma non il loro ammontare assoluto. Per ipotesi, se il pil di un anno si azzerasse, non ci sarebbero risorse disponibili per pagare nessuna forma di reddito, comprese le pensioni promesse da qualsiasi forma di previdenza, a meno di dismettere il patrimonio precedentemente accumulato o di indebitarsi. Da questo punto di vista, il dibattito sulla sostenibilità di un sistema previdenziale è abbastanza surreale. Concetti come l’equità attuariale e la sostenibilità finanziaria (ed i teoremi connessi) scontano infatti una crescita del Pil che nessuno è in grado di garantire in futuro. Sarebbe molto più sensato preoccuparsi di come investire i contributi sociali per favorire una crescita coerente con le dinamiche demografiche e con le scelte di vita dei lavoratori.

  5. amadeus

    Evidentemente l’autore non ha ben presente che, per determinare il fabbisogno dello Stato ciò che conta è il bilancio per cassa, che misura entrate ed uscite correnti. In quest’ottica coloro che pensano ‘meglio un uovo oggi di una gallina domani’ e decidono di anticipare il pensionamento in un sistema flessibile, vanno ad incidere sulle uscite di cassa correnti e poco importa che nel futuro percepiranno di meno. Non a caso durante il governo Monti, proprio la Prof.ssa Fornero, che ha sempre sostenuto la flessibilità d’uscita, ha dovuto ridurre per legge le finestre d’uscita previste anche per il contributivo al fine di contenere il fabbisogno di cassa.

  6. Piero Borla

    Tutto giusto. Il problema è che i lavoratori stabilizzati e in vista di pensione, benché divisi in varie categorie, sono sensibilizzati al problema, organizzati, decisi a farsi valere, ed elettoralmente appetibili. I giovani, in parte significativa neet e precari, sono disorganizzati e sommersi dai problemi di immediata sopravvivenza, quindi incapaci di orientare le politiche pubbliche. Occorrerebbe forse un sindacato degli infra-quarantenni ?

  7. Susanna Arcari

    Sono d’accordo. Non ho letto fino alla fine, ma somiglia alla proposta Tridico di ape contributivo a doppia quota. Sarebbe la mia opzione per andare prima dei 67 (ne ho 65!!)

  8. Stefano

    Mi scusi ma come dice lei un lavoratore che come me andrebbe in pensione nel 2025 con pensione retributiva dal 1981 al 1996 e contributiva fino ad oggi, con il suo sistema prenderebbe una pensione misera!
    Comprendo che la natalità sia ormai dimezzata e se si va avanti con queste politiche verrà decimata, tuttavia moltissime persone lavorano una vita per poi morire poco prima della pensione o appena pensionati e qui l’inps guadagna a mani basse! Durante il covid la mortalità ha fatto ridurre l’età media di due anni (dati istat), perché non si è provveduto a modificare la Fornero che era basata su questo semplice dato? Perché continuare a dire “non ci sono i fondi” per poi sperperarli per quote inique? Perché devo vedere un collega che va in pensione a fine anno con la Q103 e 25€ in meno di pensione quando io ci dovrei andare con 42 anni e 10 mesi che diventano 43 per via di quell’assurdità chiamata “finestra”? Se non ci sono soldi per Q41 non sarebbe meglio fare una riforma equa dicendo Q42 per tutti e stop? Perché in Italia l’egualianza deve essere sempre un’utopia?
    Grazie e scusi per lo sfogo…
    Cordiali saluti

  9. Andrea

    Molti dipendenti pubblici, raggiunti i 65 anni, sono costretti ad andare in pensione anticipata, mentre vorrebbero continuare a lavorare per un – due – tre – quattro – cinque anni: generalmente sono tra le persone più motivate nell’ambiente di lavoro. Se al raggiungimento dei requisiti per la pensione di anzianità, si lasciasse anche ai dipendenti pubblici la facoltà di proseguire il rapporto di lavoro, si alleggerirebbe il carico finanziario del sistema previdenziale nel suo complesso, con conseguenze a diversi livelli. Ovviamente tutto ciò dovrebbe essere fatto senza toccare l’eventuale regime misto, e forse – ma non necessariamente – garantendo alcuni vantaggi fiscali a chi prosegue il rapporto di lavoro.

  10. Giovami Lanaro

    Dal punto di vista “statistico” ha sicuramente ragione. A mio parere, però, la questione è che il sistema pensionistico italiano non funziona come un fondo pensione, dove vengono versati i contributi e poi vengono capitalizzati per ottenere una rendita.
    Il sistema pensionistico INPS si basa su una logica demografica in cui si da per scontato che n lavoratori, con i loro contributi, pagano la pensione ad 1 persona (piramide classica), risalente all’epoca della crescita demografica.
    Se oggi io vado in pensione a 55 anni, accettando di avere una pensione bassa perchè la mia aspettativa di vita residua è alta, il problema non è solo il livello della mia pensione (basso), ma il fatto che l’INPS non ha più risorse per pagare chi in pensione c’è già.
    E’ questo il dramma del sistema, che oltre a mettere assieme retributivo e contributivo, deve incamerare cassa per pagare chi in pensione con il retributivo c’è già e prende pensioni enormi non correlate a quanto versato ed all’età di andata in pensione (vedi maestre degli anni 80 che andavano in pensione a meno di 50 anni con 15 anni di contributi versati, e sono da 30 anni a carico dello Stato…)

  11. massimo CANDY

    Tutto vero ma anche no. Il problema vero è proprio l’ANTICIPO DI CASSA che sostengono non possibile a certe cifre…….Se fosse come dice Mostacci, OPZIONE DONNA , erogata con il solo contributivo non dovrebbe avere alcun problema……Ed invece COSTA….se anche tutti gli UOMINI potessero avere quando vogliono la PENSIONE CONTRIBUTIVA…….quanto costerebbe ????

  12. Sandro Gronchi

    La proposta (la stessa di Pasquale Tridico) è fondata sulla falsa convinzione che il sistema contributivo italiano possa garantire l’equivalenza “microeconomica” fra le prestazioni e i contributi di ciascuno, e quindi quella “macroeconomica” fra la spesa e il gettito contributivo. Nell’articolo pubblicato dallo scrivente su LaVoce.info il 1° settembre u.s., sono spiegate le tante ragioni della falsità, prima fra tutte la “obsolescenza” dei coefficienti di trasformazione backward looking, che sottovalutano la durata delle pensioni in misura crescente al diminuire dell’età al pensionamento.

  13. pasquale rocco

    vorrei chiedere se il retributivo non dovrebbe essere rivisto per da quanto letto un vantaggio che pagheranno i giovani

  14. lorenzo

    Visto l’annoso andazzo, il problema si risolverà da solo con un gigantesco aumento dei poveri

  15. Marcello La Marca

    Buongiorno, anzitutto complimenti alla testata ed all’autore per l’articolo che affronta una tematica sociale di notevole importanza, sottolineando alcune delle anomalie del nostro sistema pensionistico e avanzando una proposta qualificata. Da attuario seguo da anni tali questioni e mi permetto di condividere alcune osservazioni che spero siano utili al confronto ed allo sviluppo delle idee in merito alla flessibilità dell’uscita dal mondo del lavoro. Come sottolineato nell’articolo il nostro sistema pensionistico pubblico fonda sulla ripartizione e questo limita notevolemente l’assunto che il singolo assistito possa avere la facoltà di potersi slegare a piacimento dal sistema, anche nel caso in cui non dovesse gravare sui conti pubblici perché ha contribuito adeguatamente; infatti, l’equilibrio individuale in un sistema collettivo è condizione secondaria per la sostenibilità del sistema, che si regge invece sulla corretta determinazione delle aliquote contributive che, nel tempo, possano garantire un saldo annuale pressoché nullo tra entrate ed uscite. L’approccio proposto della pensione lavorativa, opportunamente modificata per i lavoratori con regime misto, risponde correttamente in termini di equilibrio a criteri di flessibilità in uscita che purtroppo non sempre dipendono dal lavoratore, ma pone due problematiche, una immediata ed una di lungo periodo, che possono avere effetti anche molto pesanti sul sistema. In primis, nell’immediato non credo sia marginale l’effetto con duplice leva negativa delle uscite anticipate: non si contribuisce più al sistema proprio nell’età nella quale i contributi sono maggiori e si anticipa la prestazione con esborso più elevato per l’ente erogatore, non compensato dai contributi dei nuovi ingressi senza adeguate politiche di inserimento nel mondo del lavoro. In secondo luogo il fenomeno meno facilmente controllabile, semplicemente perché non abbiamo gli strumenti adeguati, è il rischio longevità: se un cinquasettenne andasse in pensione con in criteri della pensione lavorativa, pur avendo un assegno minore tarato sulle nostre conoscenze della mortalità (sia attuali che prospettiche) e sul criterio di calcolo dei coefficienti, costituirebbe una mina vagante futura perché potrebbe vivere anche (molto) di più degli anni prospettati. Occorrerebbe introdurre un premio per il rischio e/o procedere con successive periodiche rimodulazioni degli assegni per aggiornare l’assegno, eventualmente ponendo limiti minimi all’importo per fissare l’esposizione della massima perdita potenziale per l’erogatore che sia compatibile con i livelli minimi assistenziali. Si può fare, ma la complessità dell’operazione risulterebbe poi difficilmente spiegabile ai cittadini. Infine, questa soluzione potrebbe risultare valida, con le opportune rimodulazioni sopra citate, solo per coloro che hanno il sistema misto, poiché in maniera quasi del tutto naturale per effetto delle retribuzioni medie e del tetto contributivo, per i lavoratori in regime puramente contributivo (entrati nel mondo del lavoro dal 1 gennaio 1996), l’auspicato montante adeguato si raggiunge proprio intorno all’età di pensionamento, che è da adeguare con le aspettative di vita proprio per ridurre il rischio longevità; la facoltà di anticipo concessa per chi con l’assegno riesce comunque ad avere un livello di pensione consono alla propria carriera viene incontro all’equilibrio personale in termini di raggiungimento della pensione. Concludo che, sebbene questo mio commento possa sembrare in difesa dell’attuale sistema pensionistico, sono fortemente critico nel suo complesso strutturale e in particolare nelle disposizioni che tendono a ridurre i contributi e far gravare su tutti prestazioni assistenziali estranee alla previdenza. Le revisione di queste fattispecie influirebbe sensibilmente nell’equilibrio, consentendo con maggiore facilità la flessibilità in uscita.

  16. arturo cerbone

    Da tempo mi domandavo perché la tesi, così semplice per chiunque avesse sostenuto un esame di matematica finanziaria, non fosse proposta con serietà e forza da studiosi della materia. Quindi un grande grazie. Immagino che la mancanza di esempi numerici sia voluta e rifletta la consapevolezza che la proposta potrebbe essere soffocata nella culla, considerato che la materia si presta in maniera naturale ad essere strumentalizzata

  17. bob

    Ci sono centinaia di migliaia di persone “con età avanzata” che hanno versato 18-19 anni di contributi presso la cassa di previdenza integrativa ENASARCO (+ gli anni versati all’ INPS), e che oggi vivono con indignitose pensioni erogate dall’INPS, costretti a rivolgersi ai servizi sociali per avere dei supporti di sopravvivenza, pur avendo versato ingenti somme di denaro nelle casse della previdenza integrativa, senza avere la corresponsione in diritto”.
    Questa tematica non è complessa come si vuol far credere; allungando i tempi per la risoluzione del caso, farà un danno alle casse dello Stato, se le istituzioni non interverranno immediatamente; perché questo problema verrà certamente riconosciuto nel diritto. Secondo i bilanci tecnici 2014-2017 della fondazione Enasarco, i soggetti silenti tra quelli in vita e gli eredi sono 692.000, che hanno versato nelle casse previdenziali ENASARCO circa 9,2 miliardi di euro, somme che lo Stato se ne farà carico in base all’arti. 28 della Costituzione.

    DI QUESTO SCANDALO VOGLIAMO PARLARNE ????????????????????????????????

    INOLTRE DOVE FINISCE IL ” TESORETTO” DELLE PERSONE CHE PER POCHI ANNI NON HANNO RAGGIUNTO GLI ANNI MINIMI PER LA PENSIONE?
    Alcune gestioni previdenziali li restituiscono. È il caso, ad esempio, delle casse di medici, architetti, giornalisti, commercialisti, veterinari.
    Altre, invece, non prevedono questa possibilità. Un esempio, fra tutti, è quello dell‘Inps, che non restituisce i contributi versati. Stesso dicasi per l’Enasarco
    VI PARE COSA DA PAESE CIVILE????

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