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Chi paga le conseguenze se Pechino rallenta

La Cina è un pilastro dell’economia mondiale. Un suo rallentamento prolungato danneggerà sicuramente gli altri paesi. Ma comporterà anche una ricomposizione qualitativa e geografica di domanda e produzione globali. Cosa succederà nelle nazioni povere.

Il peso dell’economia cinese

Il rallentamento dell’economia cinese, dopo la breve ripresa del post-Covid, suscita preoccupazione nel resto del mondo. Quali saranno le conseguenze sulla crescita globale?

Per dare una risposta che vada al di là degli scenari a breve termine, bisogna mettere nella giusta prospettiva il ruolo della Cina nell’economia mondiale, distinguendo la sua dimensione economica dalla sua velocità di espansione. 

Il peso economico di un paese è determinato dal suo prodotto interno lordo (Pil), cioè il valore dei beni e servizi prodotti in un anno. Con un Pil di 25,46 trilioni di dollari, gli Stati Uniti sono di gran lunga l’economia più grande del mondo, pari al 23 per cento del Pil mondiale. Segue la Cina, con il 19 per cento sul Pil mondiale. La quota dell’economia cinese è cresciuta rapidamente negli ultimi decenni, da poco più del 7 per cento nel 2000, per effetto di una crescita mirabolante, superiore di gran lunga a quella di qualsiasi altro paese del mondo. 

Negli ultimi dieci anni, l’economia globale è cresciuta di oltre il 35 per cento. Nel 2022, Pechino ha contribuito per il 22,6 per cento alla crescita mondiale totale, mentre gli Stati Uniti per l’11,3 per cento. Tuttavia, a lungo termine, l’economia cinese, che per decenni è stata il motore principale della crescita regionale e globale, dovrebbe rallentare notevolmente a causa di una demografia sfavorevole e di un rallentamento della produttività. Nel 2023, la frenata cinese e la contestuale espansione negli Stati Uniti ridurranno il divario del contributo dei due paesi alla crescita mondiale. E così sarà negli anni a venire. Il rallentamento avrà conseguenze sulle dimensioni aggregate dei paesi nel tempo, che si possono stimare grossolanamente applicando la cosiddetta regola del 70: se un paese cresce dell’x per cento all’anno, raddoppierà la sua dimensione economica dopo 70/x anni. Al di là delle classifiche dei paesi per dimensione, di importanza più che altro simbolica, una Cina più lenta comporterà una ricomposizione qualitativa e geografica della domanda mondiale. 

Fino al 2021 il paese asiatico ha rappresentato solo poco più del 10 per cento delle importazioni mondiali (figura 1), mentre la sua quota complessiva nelle esportazioni globali di beni è stata del 14,4 per cento nel 2022, rispetto al 13 per cento dell’anno precedente la pandemia e all’11 per cento del 2012, secondo i dati dell’Organizzazione mondiale del commercio. Gli Stati Uniti invece rappresentano circa l’8 per cento delle esportazioni mondiali, mentre sono la prima nazione importatrice di merci al mondo, con il pari al 13,5 per cento del totale delle importazioni mondiali. 

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Un altro modo di vedere la posizione relativa degli Stati Uniti e della Cina è mostrato nella figura 2. Negli ultimi cinque anni la crescita delle importazioni cinesi dal mondo è stata circa dell’8 per cento, ma nulla negli ultimi due anni. Gli Stati Uniti, invece, hanno aumentato le loro importazioni dal mondo del 15 per cento negli ultimi due anni, per effetto di una crescita vivace.

Figura 1 – Quota percentuale della Cina sulle importazioni mondiali (2016-2021)

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Fonte: Statista

Figura 2 – Crescita annua delle importazioni (%)

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Ciò significa che la Cina e gli Stati Uniti sono entrambi pilastri dell’economia mondiale: la prima soprattutto dal lato della produzione, i secondi dal lato della domanda. È principalmente la domanda statunitense a trainare quella mondiale, e quindi la produzione e le esportazioni cinesi. Un rallentamento del gigante asiatico è certamente preoccupante per l’andamento dell’economia mondiale: in quanto seconda economia, una sua frenata prolungata danneggerà sicuramente il resto dei paesi. Un’analisi del Fondo monetario internazionale mostra che quando il tasso di crescita della Cina aumenta di un punto percentuale, l’espansione globale aumenta di circa 0,3 punti percentuali. L’economia globale potrebbe registrare un rallentamento della crescita di 0,1-0,5 punti percentuali nel 2023-2024 e le economie in via di sviluppo, in particolare i paesi con un’elevata esposizione commerciale verso Pechino, saranno maggiormente colpite.

Una ricomposizione geografica della produzione mondiale

Molti paesi, soprattutto quelli asiatici, contano sulla Cina come principale mercato di esportazione per qualsiasi cosa, dai componenti elettronici agli alimenti, dai metalli all’energia. Il valore delle importazioni cinesi è sceso per nove degli ultimi dieci mesi. Il valore delle spedizioni dall’Africa, dall’Asia e dal Nord America è diminuito a luglio rispetto a un anno fa. L’Africa e l’Asia sono state le più colpite, con un calo del valore delle importazioni di oltre il 14 per cento nei primi sette mesi di quest’anno. Ciò è dovuto in parte alla discesa della domanda di componenti elettronici dalla Corea del Sud e da Taiwan. Finora, il volume effettivo di materie prime come il minerale di ferro o di rame inviate in Cina ha retto. Ma se il rallentamento dovesse continuare, i flussi di forniture potrebbero risentirne, con ripercussioni sui minatori in Australia, Sud America e altrove nel mondo.

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Tuttavia, il rallentamento cinese significa che la domanda statunitense verrà soddisfatta da altri paesi esportatori. Di conseguenza, ci si può aspettare una ricomposizione geografica della produzione mondiale, meno in quota cinese e più in quota di altri. In particolare, una Cina più lenta significa una ricomposizione qualitativa della domanda mondiale: principalmente una minore domanda di materie prime e di altre importazioni provenienti dai paesi in via di sviluppo. 

Per i paesi poveri ma ricchi di risorse naturali, non è una bella notizia: il ciclo delle materie prime potrebbe volgere di nuovo al peggio, vale a dire con prezzi calanti. Inoltre, il rallentamento della Cina trascinerà al ribasso i prezzi del petrolio a livello globale e la deflazione all’interno del paese significa che di nuovo Pechino sta esportando deflazione: i prezzi alla produzione hanno subito una contrazione negli ultimi dieci mesi, il che significa che il costo delle merci spedite dalla Cina diminuisce. È un vantaggio per paesi come gli Stati Uniti e il Regno Unito, ancora alle prese con un’inflazione elevata.

Nell’insieme, una Cina che rallenta ha anche meno bisogno di saldare alleanze economiche nel mondo: per i paesi poveri dell’Africa, per esempio, tutto ciò potrebbe tradursi in una riduzione degli investimenti e dell’influenza cinese; ma potrebbe tradursi anche in un minor proporsi del gigante asiatico come partner economico del mondo industrializzato.

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  1. Savino

    E’ evidente che chi non ha materie prime, ma ha basato solo la propria economia su manifattura e assemblaggio, non abbia nulla da offrire alla competizione del mercato di oggi. Va sottolineato, inoltre, che le potenze geopolitiche ed economiche odierne hanno preferito prima e anzitutto di divenire grandi Stati con politiche interne, per occuparsi di politica estera solo in un secondo momento con la garanzia della propria forza.

  2. John Jairo Betancur

    Sono molti i paesi in forte crescita economica in Africa, America ed Asia. Continuare a parlare del potere delle super potenze a senso? Sono molti i gruppi che hanno più potere di queste chiamate superpotenze: G7, G20, BRICSPLUS, Sud del mondo… Ciò dimostra la forte spansione delle varie economie continentali: La UA fa parte del G20… Ciò che manca d’analisi e il fatto che sono in forte crescita le economie che hanno materie prime e poco sviluppo industriale?

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