Durante l’estate si è tornati a parlare di un possibile cambiamento della legge sulla cittadinanza, per concederla a chi è nato in Italia da genitori stranieri o a chi vi ha frequentato un ciclo scolastico. Al centro del meccanismo sarebbe la scuola.
La normativa italiana fondata sullo ius sanguinis
Se chiedessimo a un bambino “chi sono gli italiani?”, la risposta più ovvia sarebbe: “quelli che abitano in Italia”. In realtà, ovviamente, non tutte le persone che abitano in Italia hanno cittadinanza italiana: su 59 milioni di residenti, circa 5 milioni sono stranieri.
La distinzione tra “cittadini” e “stranieri” è stabilita dalla legge, e varia da paese a paese.
Negli ultimi dieci anni il dibattito sulla cittadinanza è emerso più volte, quasi carsicamente, senza arrivare mai a una modifica sostanziale della normativa vigente (legge 91/1992). La questione è complessa e coinvolge diverse dimensioni (giuridica, sociale, culturale), ma è innanzitutto identitaria: definendo chi è “italiano”, si delimita la comunità, generando differenze fra “cittadini” e “stranieri”.
Nel delicato equilibrio tra ius soli e ius sanguinis, la normativa italiana è fortemente sbilanciata verso il secondo: la regola generale è, infatti, che si considera “italiano” chi nasce da genitori italiani, indipendentemente da dove nasca. L’approccio è frutto di un dibattito che risale ai primi anni Novanta, periodo in cui l’Italia era ancora più un Paese di emigrazione che di immigrazione.
Privilegiando il principio di sangue, si intendeva mantenere un legame con gli italiani emigrati in Argentina, Brasile, Stati Uniti o Australia, e con i loro discendenti. In quel periodo, l’esperienza italiana di immigrazione era invece ancora embrionale, per cui il tema dei figli degli immigrati non era ancora sorto.
I promotori della riforma ritengono quindi anacronistico continuare a considerare “italiani” i discendenti di chi ha lasciato l’Italia un secolo fa e “stranieri” i figli degli immigrati, che sono nati in Italia e hanno frequentato le scuole nel nostro paese. Con il paradosso che i primi, formalmente “italiani”, potrebbero non aver mai messo piede in Italia, mentre i secondi, considerati “stranieri”, spesso non hanno mai visitato il Paese d’origine dei genitori.
Oggi lo ius soli in Italia esiste già, ma è molto marginale: chi è nato in Italia da genitori stranieri può chiedere la cittadinanza solo al compimento del diciottesimo anno di età e a determinate condizioni. Si tratta quindi di un meccanismo non automatico e sottoposto a rigide condizioni.
La riforma fallita del 2015
Già nella legislatura 2008-2013, il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano e il presidente della Camera Gianfranco Fini avevano auspicato una riforma della cittadinanza, con una più ampia applicazione dello ius soli.
Nel 2013 il tema fu riproposto dalla ministra dell’Integrazione Cécile Kyenge e si arrivò, nel settembre 2015, all’approvazione alla Camera di una riforma che introduceva uno ius soli temperato (pur non automatico) e lo ius culturae, ovvero la possibilità di ottenere la cittadinanza dopo un ciclo scolastico. La riforma, tuttavia, non fu mai ratificata dal Senato e, quindi, non divenne legge.
La normativa italiana è una delle poche in Europa (e nel mondo) quasi esclusivamente sbilanciate verso lo ius sanguinis. Lo ius soli “puro” vige, ad esempio, negli Stati Uniti, dove chi nasce in territorio Usa è automaticamente cittadino americano. In Europa, in diversi paesi vige uno ius soli “temperato”. In Germania, ad esempio, la condizione è rappresentata dagli anni di residenza legale nel Paese da parte dei genitori, recentemente ridotti da otto a cinque. Situazione simile in Belgio, dove la condizione per la concessione (automatica) della cittadinanza è che almeno uno dei due genitori sia nato in Belgio o abbia vissuto lì almeno 5 degli ultimi 10 anni. In Francia, in cui la storia coloniale ha portato a un modello di cittadinanza complesso ma sostanzialmente inclusivo, la cittadinanza per ius soli è automatica al compimento del diciottesimo anno se i genitori avevano regolare permesso di soggiorno al momento della nascita.
In Spagna, infine, basta un anno di residenza per poter chiedere la cittadinanza per ius soli.
Quanti sarebbero i nuovi italiani?
A questo punto, è naturale chiedersi cosa succederebbe se in Italia venisse approvata una riforma della cittadinanza.
Innanzitutto, partiamo dalla platea potenziale, ovvero i minori stranieri. Oggi, secondo i dati Istat, i minori stranieri sono poco più di 1 milione, un quinto degli stranieri regolarmente presenti in Italia.
Con l’introduzione di uno ius soli puro e automatico, sul modello degli Stati Uniti, otterrebbero la cittadinanza italiana tutti i nati in Italia, indipendentemente dalla cittadinanza dei genitori. In sintesi, in questo scenario, “chi nasce in Italia è considerato automaticamente italiano”.
Negli ultimi 18 anni (2006-2023) nel nostro paese sono nati 1,2 milioni di bambini stranieri, con una media di 67 mila nascite l’anno. Negli ultimi anni la natalità si è ridotta anche tra gli stranieri, arrivando a circa 50 mila nascite all’anno.
Il fatto che i nati stranieri negli ultimi dieci anni siano più dei minori stranieri presenti oggi in Italia può dipendere da due fattori. Innanzitutto, le emigrazioni: è possibile che parte dei nati stranieri abbia lasciato l’Italia assieme alla famiglia. Inoltre, è possibile che alcuni di questi siano già diventati italiani, nel caso in cui i genitori abbiano acquisito la cittadinanza per residenza (dieci anni).
Dunque, in questo scenario (estremo), otterrebbero la cittadinanza italiana tutti i minori stranieri nati in Italia (1,2 milioni), più i futuri nuovi nati (50 mila all’anno).
Tuttavia, nessun disegno di legge presentato in Parlamento ha mai previsto l’introduzione dello ius soli “puro”. Ad esempio, la proposta di riforma approvata alla Camera, ma non dal Senato, nel 2015 prevedeva due casi: ius soli (temperato) e ius culturae.
Con lo ius soli temperato si riconosce (il diritto a richiedere) la cittadinanza italiana a chi è “nato nel territorio della Repubblica da genitori stranieri, di cui almeno uno in possesso del permesso Ue per soggiornanti di lungo periodo (cittadini extra Ue) o il “diritto di soggiorno permanente” (cittadini Ue)”. Si tratta di un meccanismo molto simile a quello inglese, ad esempio.
In questo caso, potrebbero richiedere la cittadinanza italiana i figli di immigrati nati in Italia dal 2006 al 2023 (oggi ancora minorenni) i cui genitori sono in possesso del permesso Ue per soggiornanti di lungo periodo (cittadini extra Ue) o il “diritto di soggiorno permanente” (cittadini Ue). Da fonti Istat possiamo stimare che circa il 67 per cento dei nati stranieri soddisfi questo requisito.
Quindi, su 1,2 milioni nati stranieri, si può stimare in 817 mila la quota con genitori residenti da almeno 5 anni. A questa platea di beneficiari immediati, andrebbe aggiunta poi una quota annua rispetto ai nuovi nati: su 50 mila nati all’anno, quelli con genitori residenti da almeno cinque anni possono essere tra i 35 mila e i 40 mila.
La proposta di riforma del 2015 prevedeva, oltre allo ius soli temperato, anche lo ius culturae, ovvero il diritto a chiedere la cittadinanza italiana per “il minore straniero, che sia nato in Italia o vi abbia fatto ingresso entro il compimento del dodicesimo anno di età, qualora abbia frequentato regolarmente (ai sensi della normativa vigente) un percorso formativo per almeno cinque anni nel territorio nazionale”.
Successivamente, nel 2022 fu tentato nuovamente di proporre la misura, con piccole variazioni nei requisiti, con il nome di ius scholae.
Lo ius culturae o ius scholae non esiste in quasi nessun paese europeo, anche se può essere considerato una variante dello ius soli temperato, dato che la frequenza scolastica rappresenta una condizione che si aggiunge al luogo di nascita.
Secondo gli ultimi dati del ministero dell’Istruzione e del merito relativi all’anno scolastico 2022/2023, gli alunni stranieri in Italia sono oltre 900 mila, pari all’11,2% del totale. Di questi, oltre il 65 per cento è nato in Italia. A partire da questi dati possiamo stimare in 135 mila gli alunni nati all’estero che hanno già completato cinque anni di scuola in Italia, a cui se ne aggiungerebbero altri 6-7 mila ogni anno.
Naturalmente queste stime riguardano la platea di possibili beneficiari, ma è difficile stabilire quanti sarebbero realmente interessati. Ad esempio, per alcune nazionalità (per esempio, la Cina) acquisire la cittadinanza italiana significa perdere quella del paese d’origine, e questo può rappresentare certamente un disincentivo.
Infine, i recenti giochi olimpici hanno riportato l’attenzione sul cosiddetto ius soli sportivo. In questo caso, il termine è piuttosto ambiguo, lasciando intendere una possibilità di naturalizzazione per meriti sportivi. In realtà, dal 2016 esiste già una legge che prevede la possibilità per i minori stranieri regolarmente residenti in Italia «almeno dal compimento del decimo anno di età» di essere tesserati presso le federazioni sportive «con le stesse procedure previste per il tesseramento dei cittadini italiani».
Più che una deroga alla legge sulla cittadinanza, sembra quindi una procedura più snella per una categoria specifica di atleti (e per le loro federazioni).
La misura, peraltro, sottintende una visione utilitaristica dell’identità nazionale, favorendo chi pratica sport e quindi, potenzialmente, può portare vittorie e medaglie. E allora perché non creare meccanismi simili anche per chi ha talenti in altri campi, come la musica, la danza o la matematica? E, a quel punto, non sarebbe comunque ingiusto escludere chi non ha questi talenti (o magari non li ha ancora scoperti o non li ha potuti coltivare)?
Ecco, quindi, che torniamo al punto di partenza: “chi sono gli italiani?”. Nel 1861 Massimo D’Azeglio diceva “Fatta l’Italia, bisogna fare gli italiani”,alludendo alla necessità di creare un senso di appartenenza condiviso. In quel periodo giocò un ruolo fondamentale la scuola, attraverso l’alfabetizzazione e l’insegnamento della lingua. Anche oggi, dopo 160 anni, la scuola è al centro del dibattito sulla cittadinanza.
Lo ius scholae non sarebbe una rivoluzione, nel senso che la cittadinanza ai figli di immigrati rimarrebbe “concessa” su richiesta, e non acquisita automaticamente. Ma sarebbe un passo avanti nella presa d’atto che la cittadinanza non è un concetto immutabile.
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Savino
Gli italiani che si lamentano di queste cose comincino a fare i lavori che da tempo hanno rifiutato e che fanno fare agli stranieri. Invece di pretendere vacanze e week end liberi tutto l’anno, si impegnino nei posti ricettivi turistici (cameriere, lavapiatti, cuoco), si impegnino in agricoltura o nei panifici o in alcune professioni tecniche autonome (idraulico, falegname) o in alcune posizioni da operaio specializzato. L’italiano medio è diventato pieno di pretese e di ideologie da tastiera, ma con zero costrutto e zero produttività.
Tommaso
Egr. Signori, in questo periodo si parla tanto di ius scholae; io francamente, considerata la normativa vigente e visto che l’Italia è fra le nazioni Europee che rilascia il maggior numero di “cittadinanze”, io non ne ravviso le necessità, anche perché i bambini/ragazzi che sarebbero interessati al provvedimento già godono di tutti i diritti degli italiani. Inoltre, non ho capito cosa cambierebbe di sostanziale con lo ius scholae e quali sarebbero le figure interessate dal provvedimento. Grazie. Cordiali saluti.
Savino
Allora combatta fortemente e con la stessa convinzione per avere un cameriere italiano o per avere degli italiani che raccolgono ortaggi. Non facciamo i furbi e non eludiamo i problemi.
Enrico Di Pasquale
L’Italia ha un alto numero di acquisizioni di cittadinanza per due motivi: 1. da noi non esistono automatismi sull’acquisizione, ma solo concessione; 2. la nostra migrazione è più recente rispetto ad altri paesi, quindi noi sperimentiamo oggi ciò che loro hanno vissuto 15-20 anni fa.
Per quanto riguarda i diritti, certamente gli stranieri godono di (quasi) tutti i diritti di cui godono i cittadini italiani (e ci mancherebbe altro!)… nell’articolo infatti spiego che il problema è principalmente identitario
Mahmoud
Non esistono lavori che cittadini di un certo Paese (es. italiani) non vogliono più fare in quanto tali, come ragionamenti intrinsecamente razzisti ancorché diffusi sovente propongono. Esistono persone provenienti da contesti lavorativi meno tutelati che accettano condizioni che la popolazione residente nei Paesi “occidentali” GIUSTAMENTE accetterebbe ormai invece molto più raramente. Questa si chiama concorrenza sleale sul mercato del lavoro, è uno dei motivi per cui i salari sono stagnanti e le condizioni del lavoro in Italia come in altri Paesi europei faticano a migliorare. Tutto ciò per altro nulla ha a che vedere con la concessione della cittadinanza, dato che per il mercato del lavoro italiani e stranieri regolarmente residenti sono equiparati in tutto e per tutto. L’unica differenza che deriva dalla concessione della seconda cittadinanza italiana a chi è già cittadino di un altro Stato extra UE è la difficoltà che poi ne deriva per espellerlo dal territorio (egli ed i di lui parenti) nel caso di commissione di reati gravi. Se una riforma dell’attuale legge dovesse essere fatta dovrebbe semmai a mio modesto parere essere restrittiva nei confronti di chi ha avi italiani solo molto distanti e ciò nonostante può riceverla iuri sanguinis.
Vittorio
Ottimo articolo.
Chiaro come il nostro paese, e tanti altri, non si siano adeguati prontamente al processo migratorio e a quello demografico che hanno subito ampie modifiche nel corso degli ultimi decenni. Lo ius soli non poteva che essere considerato fondamentale nei paesi ad alto tasso di immigrazione (principalmente Americhe, Australia), cioè i territori di “conquista” occidentali. Il criterio di convenienza è quello che ha guidato la scelta, a volteaccompagnandolo a considerazioni morali.
Ed oggi anche a noi converrebbe procedere di nuovo con la stessa logica.
Quindi, di fronte ad immigrazione rilevante e necessaria, favorire integrazione e valorizzazione delle risorse, senza trincerarsi dietro considerazioni di lana caprina.
Henri Schmit
Ottimo articolo. Viene giustamente precisato che lo ius scholae è solo una variante, una condizione in più del ius soli, il quale esiste ormai a vari gradi un po’ ovunque, meno nelle normative più “nazionaliste” più in quello più aperte ed inclusive. Fra concessione e automatismo c’è una terza categoria quella della richiesta che se le condizioni sono rispettate deve essere accolta. Poi ci sono i tempi di questa risposta che possono incidere sulle statistiche: in Italia siamo passati da 2 a 4 più di nuovo a 2 di tempo legale che in realtà divengono sempre un anno in più. Questo spiega certe oscillazioni nelle statistiche circolate recentemente. Altrove il ministero deve rispondere entro mesi (8 al Lussemburgo; il paese è particolarmente interessante perché ormai metà della popolazione è straniera, nonostante una normativa molto liberale, generosa) a pena di naturalizzazione per silenzio assenso! La cittadinanza da privilegio concesso a stranieri residenti deve diventare un diritto non troppo inaccessibile. Infine la doppia cittadinanza meriterebbe un’analisi critica; non stiamo degradando la cittadinanza, particolare fra paesi dell’UE? Non ammettendo doppie cittadinanze la naturalizzazione sarebbe rivalutata.