Raggiunto un buon livello di regolazione nella composizione e articolazione degli organi societari, le novità per le società quotate riguardano il grande tema della sostenibilità. Sono norme derivate dai codici di autodisciplina, a fini di prevenzione.

Lo stato del governo societario in Italia

Pochi giorni fa, in un importante convegno presso la Consob, si è discusso degli annuali rapporti statistici – freschi di stampa – che danno conto della situazione del governo societario e degli emittenti quotati in Italia, tra norme imperative e autodisciplina: quello della stessa Consob, quello di Assonime, e quello del Comitato italiano per la corporate governance.

La massa di dati che emerge da questi studi è davvero impressionante: in pochi ordinamenti si trovano approfondimenti così analitici per la discussione periodica tra istituzioni, studiosi, operatori e mercato.

Quali sono le principali riflessioni che se ne possono trarre? Quali le novità, almeno degli ultimi anni?

Prendendo le mosse dai dati sulla composizione e articolazione interna degli organi societari, su aspetti diciamo così “strutturali”, ossia dimensioni dei consigli di amministrazione, numero di indipendenti e amministratori di minoranza, equilibrio di genere, formazione ed esperienze degli esponenti, presenza di soggetti stranieri, numero e durata delle riunioni e così via, non vediamo discontinuità rilevanti almeno su un arco di tre-quattro anni. Non si tratta di una sorpresa: da un lato. è fisiologico perché, salvo accelerazioni esogene del legislatore o della prassi, è normale che la governance evolva in modo progressivo e cauto. Ma il dato si presta anche a un’altra lettura: su questi fronti l’Italia ha raggiunto un buon livello, una momentanea stabilità, confermata anche dal fatto che – salvo talune peculiarità nazionali – le evidenze empiriche non sono significativamente diverse da quelle degli ordinamenti e sistemi economici evoluti a noi più vicini. Perseguire novità per il gusto della novità non sarebbe né necessario né opportuno. D’altronde, le regole sono ormai davvero tante e forse è meglio concentrarsi su far funzionare bene quello che c’è, magari con qualche dimagrimento. 

Anche la concentrazione degli assetti proprietari delle società quotate è (da sempre) un dato sostanzialmente stabile e noto.

Una novità che non può non destare attenzione, se non allarme, è invece la riduzione della presenza di investitori istituzionali stranieri nel capitale delle imprese italiane, forse anche a causa della “emigrazione” o del delisting di alcune importanti aziende, fenomeno al quale si cerca di rispondere, ma sul quale pesano alcune variabili difficilmente controllabili sul solo piano nazionale. Investitori istituzionali che, peraltro, si sono mostrati più “vocali” in assemblea, segnando in alcuni casi posizioni di disaccordo in particolare sui profili di remunerazione dei manager.

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Positivo, infine, il parziale aumento della partecipazione alle assemblee dei soci, probabilmente dovuto anche all’estensione della possibilità di tenerle “a porte chiuse”, tramite rappresentante designato.

Le novità

Le novità che mi paiono più significative si pongono però su altri piani. In estrema sintesi: tutte quelle che discendono, oggi guidate anche da norme imperative, dalla grande e in parte eterogenea famiglia di temi che si raggruppano sotto l’egida della sostenibilità, del green deal e dell’attenzione a portatori di interesse diversi dai soci. Vediamo così un forte aumento dei comitati Esg (Environmental, social, and governance) e vediamo anche una dozzina di società quotate – non proprio poche – che hanno inserito in statuto clausole sul successo sostenibile, rendendole così ancor più mordenti, oltre naturalmente alla maggiore attenzione alle informazioni non strettamente finanziarie. Si registra pure un aumento delle politiche di dialogo con gli azionisti: oltre 140 emittenti ne hanno adottata e pubblicata una, sebbene siano spesso un poco riluttanti a dar conto ex post delle attività concretamente svolte. Ancora, meritevole di menzione è la maggiore informazione sulla parità di genere a livello aziendale, “sotto” gli organi di vertice, un punto importante affinché l’equilibrio di genere in consiglio e nel collegio sindacale non resti una soluzione un poco di facciata ma percoli nella struttura organizzativa.

Ebbene, cosa hanno in comune queste novità? Forse forzo un poco il ragionamento, ma mi pare almeno due cose. Primo: guarda caso nascono tutte, almeno in parte, almeno come seme iniziale o come fertilizzante, dall’autodisciplina, dal Codice di governo societario. Un insieme di regole di best practice, strettamente non vincolante, ma che registra ormai appunto un altissimo grado di adesione volontaria tra gli emittenti, e che solitamente precede il legislatore nella introduzione di nuove regole. Anzi, spesso – proprio quando funziona – viene col tempo un poco saccheggiato dalla disciplina imperativa. È quasi un paradosso scritto nel destino dell’autodisciplina: i suoi maggiori successi vengono “dirottati” su fonti meno flessibili. Si può allora suggerire, e auspicare, che legislatori e regolatori abbiano il coraggio di appoggiarsi maggiormente all’autoregolamentazione, soprattutto quando di fonte autorevole, lasciandole spazio (si pensi ad esempio alle definizioni di indipendenza degli amministratori). Concentrando invece la disciplina imperativa sui rimedi di fronte a violazioni su punti fondanti per la tutela di investitori e terzi.

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Un secondo tratto comune ai fenomeni più innovativi mi sembra si trovi nel fatto che riguardano meno la “statica” degli organi, la loro composizione e più cosa gli organi societari – e quindi l’emittente – devono fare: obiettivi, comitati dedicati a nuove esigenze, profili di organizzazione e controllo interno, conduzione di dialoghi con gli stakeholder, raccordo tra vertici aziendali e strutture e funzioni interne. Con uno slogan, anche per il complicarsi del quadro normativo, l’accento viene quindi spostato “da una governance e una autodisciplina dell’essere, a una del fare”. È una evoluzione degna di nota e che in certo modo risponde a una ulteriore tendenza normativa degli ultimi anni, che consiste nella previsione di procedure altamente formalizzate e piuttosto dettagliate di carattere “preventivo”, che mirano a ridurre il pericolo di violazioni con regole a priori, piuttosto che limitarsi a sancire con chiarezza quali siano le condotte vietate, stabilire le sanzioni e concentrarsi sul rispetto delle norme. Una tendenza di cui sono espressione, ad esempio, le nuove regole europee in materia di sostenibilità o governo delle nuove tecnologie.

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