Lavoce.info

Troppa responsabilità per l’impresa

Le imprese devono certo perseguire condotte virtuose e responsabili, ma con regole chiare e precise. Invece la proposta di direttiva europea sulla responsabilità d’impresa dimostra poca conoscenza del diritto e un atteggiamento populista e superficiale.

La categoria degli “stakeholders”

L’ultima moda nel dibattito sulle regole che governano le imprese è la previsione di formule – più o meno vincolanti, spesso frutto dell’autodisciplina – volte a richiedere che le società si facciano carico di interessi ed esigenze diffuse anche di soggetti che non hanno investito nell’impresa: i cosiddetti “stakeholders”, che comprendono spesso categorie eterogenee e definite in modo ambiguo.

Questo movimento d’opinione, naturalmente subito intercettato dalla politica e da una serie di consulenti specializzati, presenta luci e ombre. I termini della questione sono spesso posti in modo semplicistico e divisivo. Anticipo subito che, personalmente, ritengo gli obiettivi perseguiti largamente meritevoli e condivisibili: l’attenzione a fattori Esg ha esternalità positive, può ridurre rischi e migliorare i risultati gestionali nel lungo periodo, ed è comunque ormai una necessità anche commerciale. Occorrono però realismo e buon senso nel bilanciare questi obiettivi con altre esigenze.

Ma al di là delle opinioni sull’opportunità che le imprese siano “buoni cittadini” anche oltre specifici doveri giuridici e al di là di convenienze commerciali e mode, quando si tratta di tradurre pur legittime aspirazioni in norme vincolanti e sanzionabili, le cose si complicano. Le formule presentano infatti spesso una vaghezza tale da renderle giuridicamente pericolose o poco utili. Il diritto non può infatti permettersi il lusso della approssimazione e della imprecisione. D’altro lato, è discutibile voler attribuire alle imprese un ruolo di supplenza di regole chiare, puntuali e prescrittive che distinguano ciò che è lecito da ciò che non lo è, imponendo loro generali (e potenzialmente sterminati) obblighi di “comportarsi bene”.

Il rischio è di avvicinarsi a una discutibile “legislazione dell’etica”. Inoltre, richiedere e imporre agli amministratori di società di tenere conto di interessi tanto diversi e spesso confliggenti (lavoratori, comunità, associazioni ambientaliste, fornitori, clienti) significa ampliarne la discrezionalità rispetto al già non facile compito di una gestione aziendale corretta, efficace ed efficiente.

La proposta di direttiva

L’esempio più recente ed eclatante di questa nuova tendenza è una proposta del Parlamento europeo di direttiva sulla responsabilità d’impresa, approvata il 10 marzo. In estrema sintesi, e con qualche semplificazione, la disciplina imporrebbe alle imprese maggiori, ma anche a molte altre di medie e piccole dimensioni, che operano in Europa, un generale dovere di rispettare «i diritti umani, l’ambiente e le regole del buon governo», in relazione sia alle proprie condotte, sia a quelle di soggetti terzi, ovunque collocati, con cui hanno rapporti commerciali (la cosiddetta “catena del valore”). Detto così parrebbe doversi subito concludere: benissimo, ci mancherebbe altro, è giusto che le imprese rispettino questi obiettivi! Peccato che gli obiettivi non siano ben definiti e che la disciplina prevista susciti molte perplessità.

Leggi anche:  Nel derby del bilancio vince il Milan

Per dare mordente a questo dovere, la proposta richiede che le imprese adottino sistemi di controllo e verifica, con dettagliati doveri di informazione circa la loro progettazione, attuazione ed efficacia. Le imprese devono poi adottare formali meccanismi per ricevere, gestire e rispondere a lamentele, rispetto ai vaghi obiettivi, formulate da pressoché qualsiasi interessato (definito in modo amplissimo come qualsiasi individuo, ente o gruppo che «potrebbe essere toccato da impatti negativi attuali o potenziali» della loro attività). E devono contribuire ad “azioni rimediali” non giudiziarie descritte vagamente. Gli stati devono inoltre individuare autorità pubbliche di supervisione deputate a vigilare sulla materia, prevedere un regime di sanzioni amministrative e, soprattutto, introdurre una generale norma sulla responsabilità civile, ai sensi dell’articolo 19 del testo di direttiva. Si tratta di una norma molto ampia: dopo aver precisato che il rispetto dei sistemi di controllo imposti dalla direttiva non esime dalla responsabilità, prevede testualmente che le imprese devono rispondere dei danni derivanti da «potenziali o effettivi impatti negativi» delle loro attività su diritti umani, ambiente e buon governo societario. Si pone sulle stesse imprese l’onere di dimostrare di aver impiegato «tutta la diligenza» per evitare danni al fine di non essere condannate. Limitiamoci ai problemi più macroscopici.

Innanzitutto, gli obblighi la cui violazione è sanzionabile non sono precisamente definiti, ma individuati con un rinvio a una serie di standard internazionali potenzialmente mutevoli e scivolosi. Cosa significa non pregiudicare diritti umani, ambiente e buon governo, nemmeno potenzialmente? Delle due l’una: o parliamo di violazione di specifiche norme e regole di condotta già applicabili, e allora non serve una disposizione ad hoc; oppure si vogliono introdurre doveri nuovi e aggiuntivi. Evidentemente
è la seconda, ma questi doveri aggiuntivi sono amplissimi e generici, il che rischia di renderne l’applicazione a seconda dei casi discrezionale, inefficace o punitiva. Tanto più che si introduce una responsabilità per fatto del terzo (la “catena del valore”) che, nonostante qualche incerto tentativo di ricondurla ad attività del convenuto, moltiplica rischi e costi per le imprese europee.

È poi incredibile che si parli di responsabilità per “danni potenziali”, un vero controsenso giuridico. Forse, è un mero errore di scrittura, che però la dice lunga sulla qualità del dibattito parlamentare e della tecnica normativa.

Ancora, si assiste a una inversione dell’onere della prova per la quale parrebbe che l’impresa possa evitare la responsabilità solo fornendo, in positivo, la prova nemmeno di aver impiegato l’ordinaria diligenza, ma uno standard ancor più severo («all due care»). Proprio per l’ampiezza e genericità dei doveri, e per il fatto che coprono anche condotte di partner commerciali indipendenti e potenzialmente lontani, potrà in molti casi trattarsi di una prova pressoché diabolica, che rischia di trasformare la norma in una forma di responsabilità oggettiva. Si arriva persino, con una regola particolarmente mal scritta (articolo 10, comma 5), a suggerire che eventuali decisioni raggiunte tramite meccanismi di mediazione non siano vincolanti, alimentando il dubbio che un’eventuale transazione con impegno a non fare causa non sia vincolante.

Leggi anche:  Il derby d'Italia: risultati in campo e risultati di bilancio

Spazio per azioni strumentali

La platea dei possibili attori è poi ugualmente vasta: non paiono esserci confini quanto alla loro nazionalità e localizzazione e comprende individui, gruppi, ma anche enti che contemplino finalità in materia di ambiente, diritti umani e buon governo, inclusi sindacati, comunità locali e qualsiasi associazione di cittadini. Né paiono valere le normali regole di diritto internazionale privato in tema di limitazione della giurisdizione e sul diritto applicabile, posto che la direttiva dichiara espressamente le norme sulla responsabilità come imperative e di applicazione necessaria. Lo spazio per azioni anche strumentali, quando non pretestuose o temerarie, radicate in Europa è dunque ampio e potrebbe impegnare i nostri già oberati e in cronico ritardo tribunali in complesse controversie internazionali per eventi occorsi in paesi lontani. Nemmeno negli Stati Uniti, tradizionalmente inclini ad affermare un’ampia giurisdizione extraterritoriale delle loro corti su controversie con pochissimi contatti col territorio nazionale, ci si spinge sino a tanto.

Che le imprese perseguano condotte virtuose e siano socialmente responsabili è sacrosanto sotto diversi profili, vorrei sottrarmi alla facile accusa di insensibilità per queste tematiche. Ma ciò deve contemperarsi con esigenze di certezza del diritto, bilanciare costi e benefici e tener conto dei rischi legali e della competitività del sistema produttivo. Addossare simili, vaghe e potenzialmente punitive responsabilità alle imprese pare più una deresponsabilizzazione della politica che una seria costruzione di un “Green New Deal”. Non illudiamoci che ciò non abbia effetti negativi per occupazione ed efficienza, salvo che si pensi (solo) all’occupazione di avvocati, consulenti vari e funzionari chiamati ad applicare nuove regole. Speriamo che il testo proposto venga attentamente ripensato e riscritto.

Lavoce è di tutti: sostienila!

Lavoce.info non ospita pubblicità e, a differenza di molti altri siti di informazione, l’accesso ai nostri articoli è completamente gratuito. L’impegno dei redattori è volontario, ma le donazioni sono fondamentali per sostenere i costi del nostro sito. Il tuo contributo rafforzerebbe la nostra indipendenza e ci aiuterebbe a migliorare la nostra offerta di informazione libera, professionale e gratuita. Grazie del tuo aiuto!

Leggi anche:  Anche negli affitti spuntano gli "accordi pirata"

Precedente

Il rider suona sempre due volte

Successivo

Il Punto

  1. Mario Viviani

    Concordo in tutto. L’equilibrio tra l’iniziativa autonoma delle imprese in fatto di CSR e l’intervento pubblico è delicatissimo: né la totale autonomia da parte delle imprese, né la normazione rigida da parte delle istituzioni pubbliche, ma un rapporto sano e dialettico con ognuno che deve fare il suo mestiere. La responsabilità delle imprese è tale se parte da esse e si può anche permettere una certa vaghezza, che spetterebbe poi agli stakeholder indagare e criticare. Se l’istituzione pubblica “indirizza e riconosce” benissimo, ma non può arrivare a vincoli troppo stretti, perché allora diventa norma, che non può essere vaga, come dice Ventoruzzo.
    Aggiungo solo un commentino sugli stakeholder, che devono manifestarsi se vogliono esistere. Noi sappiamo che si è trattato fino a ora di un’astrazione utile al procedere della sostenibilità, ma forse è il momento di cambiare musica: lo stakeholder – per esistere – deve battere un colpo (se c’è responsabilità delle imprese verso i clienti c’è anche quella dei clienti – e dei loro comportamenti – verso le imprese e verso tutti gli altri). Anche questo depone a favore del fatto che se non precisamente identificabile come individuo, lo stakeholder lo deve essere almeno come categoria.

  2. E’ paradossale una proposta del genere, quando è chiaro a chiunque che l’imprenditore è il primo soggetto chiamato a fare bene impresa, nonostante il “rischio” sia l’elemento imprescindibile che può essere governato ma mai eliminato. Solo per rimanere alla legislazione domestica il “nostro” imprenditore deve osservare: il codice civile, il TU della sicurezza, la privacy, la “231” (responsabilità amministrativa degli enti), le norme speciali del diritto tributario e del lavoro, oltre che quelle inerenti l’antiriciclaggio, nonché quelle amministrative ed ambientali, salvo ulteriori disposizioni specifiche per settore di attività (es. codice degli appalti, TUB).
    Ritengo che ogni ulteriore commento sia superfluo e chi fa impresa oggi sia da premiare, ricordando la massima del nostro emerito Presidente Lugi Einaudi: “Migliaia, milioni di individui lavorano, producono e risparmiano nonostante tutto quello che noi possiamo inventare per molestarli, incepparli, scoraggiarli. E’ la vocazione naturale che li spinge, non soltanto la sete di denaro. Il gusto, l’orgoglio di vedere la propria azienda prosperare, acquistare credito, ispirare fiducia a clientele sempre più vaste, ampliare gli impianti, abbellire le sedi, costituiscono una molla di progresso altrettanto potente che il guadagno. Se così non fosse, non si spiegherebbe come ci siano imprenditori che nella propria azienda prodigano tutte le loro energie e investono tutti i loro capitali per ritrarre spesso utili di gran lunga più modesti di quelli che potrebbero sicuramente e comodamente ottenere con altri impieghi.”

  3. Davide de Caro

    Egregio professore, sarebbe molto utile sentire una riflessione a più voci, casomai anche multidisciplinare perché poi la vita di un’azienda ha profili non solo giuridici. Il tema è tormentato sicuramente e si avverte che sia il terreno di confronto ineludibile. Riporto alcuni pensieri, domande e nessuna risposta. Si può essere solo “in parte” sostenibili (domanda provocatoria ministro Giovannini)? È il momento della sostenibilità rivoluzionaria trasformativa (cit. prof Calderini)? La UE con il Green Deal e gli obiettivi annessi, emblematico quello della neutralità carbonica al 2050, ha imposto a tutti, imprese per prime, degli obiettivi di interesse pubblico. Imprese diventano quindi un attore politico cioè impegnato obbligatoriamente a condividere e perseguire obiettivi pubblici? La proposta di direttiva ue in analisi non sembra essere in qualche modo già “avvisata” dal nostro ordinamento con novella del codice del consumo che si estende “per far accertare la violazione di diritti fondamentali dell’uomo da parte delle imprese, in un contesto socio-giuridico in cui queste ultime sono chiamate sempre più ad agire in maniera sostenibile e responsabile”?
    Le Società Benefit che ruolo possono avere in questo disegno? Possono essere il modello ideale cui vedere la realizzazione massima del codice corporate governance italiano? Come dicevo tutte domande su cui cercare di trovare il significato unificante. Grazie di un riscontro.

  4. Belzebu'

    Mi sembra di leggere le normative urbanistiche regionali. Risultato? Vengono approvati solo i progetti degli amici.

Lascia un commento

Non vengono pubblicati i commenti che contengono volgarità, termini offensivi, espressioni diffamatorie, espressioni razziste, sessiste, omofobiche o violente. Non vengono pubblicati gli indirizzi web inseriti a scopo promozionale. Invitiamo inoltre i lettori a firmare i propri commenti con nome e cognome.

Powered by WordPress & Theme by Anders Norén