Meta ha abbandonato il fact-checking per passare a un sistema più decentrato di verifica dei contenuti. Forse per allinearsi alla nuova amministrazione Usa. Ma potrebbe anche essere il risultato della concorrenza tra sistemi di verifica delle informazioni. 

Gatti bianchi e gatti neri contro le fake news

Deng Xiaoping, leader della Repubblica popolare cinese dal 1978 al 1989, già negli anni Sessanta del secolo scorso aveva pronunciato una famosa massima di stampo zoologico che apriva il campo al sistema di mercato: “Non importa che il gatto sia bianco o nero, purché acchiappi i topi”. L’aspetto pragmatico della massima la rende applicabile a molteplici ambiti, e in particolare al sistema informativo attuale, dove –anche e forse soprattutto a motivo del ruolo crescente di internet e dei social network- i “topi da acchiappare” sono le cosiddette fake news, cioè notizie che sembrano vere, ma che invece sono false, e non di rado sono create e diffuse con motivazioni dolose.


Lasciando da parte i mass media tradizionali, che dovrebbero evitare le fake news grazie alla professionalità intrinseca dei giornalisti professionisti che lì lavorano, per lungo tempo il “gatto bianco” impiegato per acchiappare le fake news online è stato identificato nelle attività di cosiddetto fact-checking: tali attività sono talora organizzate in maniera indipendente, ma nel caso del social network con la diffusione maggiore, cioè Facebook, sono direttamente esercitate dalla piattaforma stessa, in collaborazione con le entità indipendenti. Sotto il profilo del finanziamento, queste entità ricevono fondi pubblici e donazioni da parte di soggetti economicamente rilevanti come la Open Foundation di George Soros e la Fondazione Gulbenkian, ma anche da parte di Meta/Facebook stesso: un articolo pubblicato sul Guardian all’inizio di gennaio riporta una cifra di oltre 100 milioni di dollari pagati da Meta a favore di organizzazioni esterne dedicate al fact-checking a partire dal 2016.


Esiste però un altro modello di controllo di veridicità delle notizie, di carattere decisamente meno centralizzato, che è stato prescelto dal più piccolo rivale di Facebook, cioè il fu Twitter, dopo l’acquisto totalitario da parte di Elon Musk, principale azionista di Tesla e Space-X, e la sua ridenominazione in “X”: si tratta del modello delle community notes. Il modello si affida all’intervento di utenti volontari che hanno tipicamente opinioni diverse e vengono invitati a commentare – oppure decidono loro stessi di farlo – post/tweet controversi, al fine per l’appunto di giudicarne la veridicità.


Il meccanismo è decentrato, ma comunque in qualche modo gerarchico, in quanto gli utenti standard, cioè gli utenti normali che non hanno fatto richiesta di giudicare e scrivere community notes, potranno vedere pubblicata una nota sotto un certo post XYZ con contenuti potenzialmente falsi soltanto quando due “valutatori” (rater) – che in precedenza erano stati in disaccordo sul giudizio dato a tweet di natura controversa – concordano sul fatto che riguardo al post XYZ la nota vada pubblicata. E chi ha la possibilità di scrivere note? In maniera gerarchico/meritocratica possono farlo (e farsele giudicare dai rater) soltanto i valutatori che hanno raggiunto un punteggio di 5, cioè per cinque volte si sono allineati con il consenso generale relativo a quali note pubblicare e quali non pubblicare. Attenzione però: il punteggio viene azzerato se per tre volte le note scritte da un determinato valutatore vengono giudicate come “non utili” (e dunque da non pubblicarsi) da parte degli altri valutatori.

La scelta di Meta

La svolta è avvenuta a inizio gennaio 2025, quando Meta ha deciso, almeno per quanto concerne la moderazione dei contenuti negli Usa, di passare dal gatto bianco del fact-checking al gatto nero delle community notes: è abbastanza ovvio connettere la scelta all’esito delle elezioni presidenziali statunitensi, in cui ha vinto Donald Trump. Secondo alcuni critici, la mossa ha il significato politico di avvicinarsi alle linee della nuova amministrazione, che – per usare un eufemismo – non trova di particolare gradimento il gatto bianco del fact-checking.


Ma si potrebbe anche dare un’interpretazione “dal lato della domanda”, più che sotto il profilo dell’influenza esercitata dall’offerta politica vincente: l’apprezzamento degli utenti per le attività di fact-checking è in caduta libera, a motivo del fatto che sono tacciate di essere partigiane, cioè di etichettare come fake news in maniera asimmetricamente eccessiva i contenuti che non si allineano alla posizione ideologica dei fact-checker stessi, che spesso sono liberal, cioè di sinistra, nel contesto americano. Un esempio eclatante di ciò è dato dalla sostanziale assenza di fact-checking intorno alle condizioni di salute mentale del presidente uscente Joe Biden, assenza che si è interrotta soltanto quando lui stesso ha deciso di non ricandidarsi alle presidenziali.


Poiché nell’ambito dell’informazione di massa la regolamentazione diretta da parte dei pubblici poteri può essere pericolosamente vicina agli atti di censura, è ben comprensibile come le attività di fact-checking costituiscano un meccanismo intermedio, a cui le piattaforme –e di fatto i pubblici poteri per mancanza di regolamentazione ulteriore – delegano l’attività di controllo sulla veridicità delle informazioni. Secondo tale prospettiva, l’abolizione del fact-checking da parte di Meta ha le sembianze preoccupanti di un passo indietro rispetto a questa logica, delegando il controllo della veridicità dei contenuti a una forma eccessivamente orizzontale di verifica da parte degli utenti. Tuttavia, la scelta di Meta/Facebook può anche essere vista sotto una diversa prospettiva, di carattere più liberale.


Senza per forza scomodare Adam Smith, la concorrenza dovrebbe funzionare come motore di un equilibrio allocativo (più) efficiente, in cui diversi modi di produzione, in questo caso dell’informazione e della sua validazione come “veridica”, si presentano e si consolidano sul mercato, con la possibilità aggiuntiva che alcune scelte pregresse – come il fact-checking – vengano abbandonate a favore di altre, inizialmente proposte da soggetti rivali. Intendiamoci, anche le community notes hanno criticità non irrilevanti: a mio parere la principale è quella di un certo conformismo insito nella regola attuale, secondo cui per essere promosso come rater titolato a scrivere le tue note, devi allinearti con il consenso generale prevalente sulla piattaforma per almeno cinque volte. Che cosa ci assicura che il consenso generale sia improntato a verità? Nel mondo speranzoso di una visione liberale dell’economia e della società, il conformismo eccessivo a verità false potrebbe riportare in auge il fact-checking, secondo un pendolo potenzialmente virtuoso, ancora una volta guidato dalla libera concorrenza.

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