La Corte di giustizia ha stabilito che anche i datori di lavoro domestico devono avere un sistema di rilevazione dell’orario svolto dal lavoratore, per tutelarne i diritti. Come evitare che si trasformi in un peso burocratico aggiuntivo sulle famiglie.
Cresce il lavoro domestico
L’invecchiamento della popolazione italiana e il calo demografico richiedono una quantità crescente di servizi di assistenza alla persona e aumentano il peso economico del settore del lavoro domestico, sempre più richiesto dalle famiglie: si spendono oggi 7,6 miliardi di euro per i lavoratori domestici regolari, a cui si aggiungono 5,4 miliardi per la componente irregolare (47,1 per cento).
Si tratta di un totale di 13 miliardi, che porta allo stato un risparmio di circa 6 miliardi (0,3 per cento del Pil), ossia l’importo di cui dovrebbe farsi carico se gli anziani accuditi in casa venissero ricoverati in una struttura specializzata. Nel 2023 i collaboratori familiari regolari assunti direttamente dalle famiglie sono stati 834mila. È un settore caratterizzato da una forte presenza femminile (88,6 per cento) e straniera (69 per cento del totale). Molti di loro arrivano dall’Europa orientale (35,7 per cento), mentre il secondo gruppo più numeroso è quello di cittadinanza italiana, pari al 31,1 per cento del totale. In crescita le persone provenienti da Georgia, Perù, El Salvador; si registra invece un calo di quelle provenienti da Romania, Moldavia e Bangladesh (rapporto Domina 2024).
La sentenza e la controversia da cui è originata
In applicazione della direttiva 2003/88 Ce sull’orario di lavoro, una recente sentenza della Corte di giustizia (19 dicembre 2024 nella causa C-531/23, Loredas) impone anche ai datori di lavoro domestico, finora esentati da questo obbligo, di tenere una registrazione dell’orario di lavoro delle prestazioni svolte dai loro dipendenti.
La controversia era nata in Spagna, a seguito dell’accertamento dell’illegittimità del licenziamento di una collaboratrice familiare: i suoi datori di lavoro erano stati condannati a pagarle alcune somme a titolo di indennizzo per alcuni giorni di ferie non godute e ore di lavoro straordinario. Il ricorso della lavoratrice, però, aveva potuto essere accolto solo in parte, perché non era riuscita a provare le ore di lavoro straordinario effettuate (addirittura fino a 79 ore di lavoro a settimana), a causa della mancanza dei registri giornalieri dell’orario di lavoro. La normativa spagnola (come quella italiana) esenta infatti i datori di lavoro domestico dall’obbligo di registrarlo. A seguito del ricorso in appello, il tribunale spagnolo ha chiesto alla Corte di giustizia europea di pronunciarsi sulla compatibilità dell’esenzione con il diritto dell’Unione; e la Corte Ue ha risposto stabilendo che anche i datori di lavoro domestico – in pratica tutte le famiglie che ingaggiano colf, baby sitter e badanti con contratti di lavoro subordinato a tempo pieno e indeterminato – hanno l’obbligo di misurare la durata dell’orario di lavoro svolto in casa e tenerne nota: perché anche i lavoratori domestici, al pari degli altri, hanno diritto a conoscere in modo chiaro, obiettivo e affidabile il numero di ore di lavoro effettuate e la loro collocazione temporale.
La Corte europea ha ricordato che già nel 2019 – nella sentenza CCOO, C-15/18 – aveva dichiarato contrarie per questo aspetto alla direttiva 2003/88/Cesia la normativa spagnola, allora in vigore, sia la sua interpretazione da parte dei giudici nazionali. Dopo quella pronuncia della Corte, la Spagna ha imposto ai datori di lavoro l’obbligo di prevedere un sistema di registrazione delle ore di lavoro effettivamente svolte esonerandone però i datori di lavoro domestico.
Le conseguenze per le lavoratrici e i lavoratori domestici
La sentenza Loredas ricorda che il lavoratore, e in particolare quello domestico, dev’essere considerato la parte debole del rapporto di lavoro: esonerare i datori di lavoro dal rilevamento sistematico dell’orario di lavoro viola la direttiva sul tempo di lavoro perché il prestatore può essere dissuaso dal far valere i propri diritti essendo eccessivamente difficile, se non impossibile in pratica, dimostrare in giudizio che non sono stati rispettati i diritti riconosciuti dall’articolo 31, paragrafo 2, della Carta dei diritti fondamentali e dalla direttiva 2003/88, in materia di limitazione dell’orario settimanale e di periodi minimi di riposo giornaliero e settimanale.
I giudici spagnoli hanno sollevato anche una questione di genere sostenendo che ogni differenza del trattamento previsto per i lavoratori domestici, categoria a forte prevalenza femminile, rischia di configurare una discriminazione indiretta di genere. Per questo motivo, la registrazione dell’orario lavorativo è considerata una misura di garanzia anche dal punto di vista della parità di trattamento fra donne e uomini.
Una discriminazione è indiretta quando la situazione denunciata è apparentemente neutra, ma può porre di fatto le persone di un sesso in una posizione di particolare svantaggio rispetto alle persone dell’altro sesso; salvo che si dimostri che il mantenimento di quella situazione sia necessario in funzione di un obiettivo legittimo. Nel caso del lavoro domestico sottoposto alla Corte di giustizia i giudici spagnoli, per provare la discriminazione indiretta, si sono avvalsi di statistiche già utilizzate in un precedente giudizio (rinvio alla causa C-398/20 TGSS) da cui risulta che in Spagna nel settore domestico è prevalente il lavoro femminile (95 per cento). Su questo aspetto però la Corte ha rinviato la questione ai giudici nazionali, ai quali compete ora stabilire se la situazione sia o no conforme al divieto di discriminazione di genere, effettuando le opportune comparazioni tra la manodopera maschile e quella femminile.
L’impatto sui datori di lavoro
La sentenza introduce una maggiore trasparenza nella gestione del rapporto di lavoro domestico. Ora spetta ai vari Stati membri adeguare le proprie normative per garantire il rispetto di questi principi. Bisogna tuttavia evitare di appesantire eccessivamente le famiglie con ulteriori e onerosi passaggi burocratici, che finirebbero per scoraggiare la regolarità dei rapporti di lavoro.
Una soluzione potrebbe consistere nella creazione presso l’Inps di una piattaforma dedicata al lavoro domestico, facilmente accessibile tramite una applicazione da parte dei datori di lavoro e dei collaboratori familiari. La piattaforma, nella quale dovrebbero essere registrati l’inizio e la fine di ogni singola giornata lavorativa, consentirebbe poi di determinare la retribuzione dovuta per l’eventuale lavoro straordinario. E potrebbe essere utilizzata per la gestione di tutti gli aspetti del rapporto di lavoro, come per esempio i contributi e le agevolazioni fiscali per i datori di lavoro domestico o le misure di accompagnamento al lavoro per le persone che cessano il rapporto: servizi per l’incontro fra domanda e offerta o di formazione professionale specificamente dedicati a questo settore.
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