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Cosa ci rende un paese in crisi demografica e come provare a uscirne

La transizione demografica si è trasformata in crisi, in Italia, dal 1984. Invecchiate anche le “generazioni abbondanti”, abbiamo pochi potenziali genitori e pochi potenziali lavoratori. Per uscirne, ci sono due strategie, da attuare contemporaneamente.

La transizione demografica

Per un lungo periodo nella storia dell’umanità, fino a poche generazioni fa, il tasso di fecondità è stato attorno o superiore alla media dei cinque figli per donna. Un valore elevato? No, necessario per dare continuità alla popolazione compensando gli elevati rischi di morte. Al momento dell’Unità d’Italia, oltre un nato su cinque non arrivava al primo compleanno e solo meno della metà dei figli raggiungeva l’età dei propri genitori. Il passaggio dagli alti livelli di mortalità e natalità del passato a quelli bassi attuali è noto come transizione demografica. Si tratta di un cambiamento di coordinate del sistema demografico a cui corrisponde un abbassamento da cinque (e oltre) a due del livello di fecondità necessario per un equilibrato ricambio generazionale. Quando i rischi di morte dalla nascita fino all’età adulta scendono su livelli molto bassi, infatti, sono sufficienti due figli in media per sostituire i due genitori.

I paesi con tasso di fecondità sceso a due figli per donna e stabilizzato attorno a tale soglia tendono a perdere la struttura per età fatta a piramide (molti giovani e pochi anziani) e ad acquisirne una con base e parte centrale simile a un rettangolo. La punta in età avanzata si allarga e si alza, per effetto della longevità, ma la base rimane solida. Questo consente di investire risorse sulla qualità degli anni in più di vita grazie a una popolazione in età lavorativa che non si indebolisce.

Lo stesso risultato si può ottenere anche con un tasso di fecondità che scende poco sotto i due figli per donna, se la riduzione delle nuove generazioni è efficacemente compensata dall’immigrazione.

Da transizione a crisi

La “transizione” (passaggio da un vecchio a un nuovo equilibrio) diventa “crisi” demografica (squilibri crescenti) quando il numero medio di figli scende su valori molto bassi (sotto 1,5) e rimane a lungo sotto tale soglia. In tal caso, gli squilibri nel rapporto tra generazioni diventano sempre più ampi, dato che le nascite, oltre a diminuire per la fecondità molto bassa, vengono depresse dal fatto che i potenziali genitori sono sempre di meno. La struttura demografica perde la sua stabilità con una base che diventa via via più stretta rispetto alle fasce più mature.

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L’Italia è in crisi demografica dal 1984, ovvero da quando il tasso di fecondità è sceso persistentemente sotto 1,5. L’impatto del crollo è stato tale che attorno alla metà degli anni Novanta siamo diventati il primo paese al mondo in cui gli under 15 sono scesi sotto i 65enni e oltre. Al centro dell’età adulta c’erano però ancora le generazioni abbondanti nate quando il numero medio di figli per donna era sopra a due. L’abbondanza di popolazione in età lavorativa ha portato la politica, anzi la classe dirigente in senso ampio, a sottovalutare la crisi demografica. Ma era evidente che a un certo punto le generazioni abbondanti sarebbero diventate anziane e quelle demograficamente deboli sarebbero entrate in età lavorativa.

Quel momento è ora arrivato. Lo scenario però nel frattempo è ulteriormente peggiorato per due motivi. Il primo è che le dinamiche più recenti della fecondità anziché evidenziare una risalita verso e sopra 1,5 figli per donna, hanno visto una nuova diminuzione (da 1,44 del 2010 a 1,18 del 2024). Il secondo è l’entrata in età riproduttiva delle generazioni figlie della denatalità passata, se così si può dire. La crisi demografica è, infatti, soprattutto crollo dei genitori, sia perché si riduce il numero delle persone in età da esserlo sia perché si riduce la quota di chi lo diventa. Ne derivano ancor meno nascite e genitori futuri.

Due strategie concomitanti

La riduzione dei potenziali genitori è anche riduzione dei potenziali lavoratori. La prima strategia da mettere in atto è quindi quella di consentire alle generazioni che entrano in età adulta e nel mercato del lavoro di trovare condizioni adeguate a realizzare in pieno i propri progetti professionali e di vita. È un dato di fatto che sulle politiche che favoriscono tali condizioni (formazione professionale e terziaria, politiche attive del lavoro, investimenti in ricerca e sviluppo, costo degli affitti, strumenti di conciliazione tra vita e lavoro) i giovani italiani si trovano in situazioni sensibilmente peggiori rispetto ai coetanei europei. E il risultato è quello di accentuare nel paese non solo squilibri generazionali, ma anche di genere e sociali.

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La seconda strategia è l’immigrazione, che consente di rafforzare la platea degli occupati, rispondendo alla carenza di manodopera in molti settori.

Non si tratta di due strategie alternative, ma concomitanti. Da un lato, l’immigrazione solo in parte è in grado di compensare gli squilibri nel rapporto tra popolazione anziana e attiva. D’altro lato, se non migliorano le politiche generazionali e di genere, giovani e donne con background migratorio si troveranno ancor più in difficoltà. I dati mostrano, del resto, una tendenziale convergenza della fecondità dei cittadini stranieri verso i bassi valori italiani.

Dobbiamo soprattutto essere consapevoli che finché rimarrà più debole la condizione delle nuove generazioni e (ancor più) delle donne in Italia rispetto al resto d’Europa, non solo la natalità rimarrà più bassa, ma saranno anche sempre più coloro che sceglieranno di diventare lavoratori e genitori altrove. I recenti dati pubblicati dall’Istat sono semplicemente coerenti con questo quadro.

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  1. Savino

    C’è un’assenza totale della situazione giovanile e pseudo adulta nel dibattito pubblico. I discorsi della gente ruotano solo sul quando riuscire ad andare in pensione, come per tagliare la corda ed evadere. Gli italiani sono dei pensionati e pensionandi interiormente e ragionano con la mentalità dei pensionati. Le redini dell’economia sono in mano agli over 60-70. Sui posti di lavoro, la meritocrazia e la tendenza all’innovazione sono inesistenti. C’è, una volontà politica precisa volta verso la condizione debole giovanile e per garantire benessere, prosperità e soddisfazioni nella vita alla popolazione più anziana. Se non hai almeno circa 60 anni non conti niente, nemmeno se hai studiato, nemmeno se hai spalle coperte da genio, talento ed esperienza.

    • Francesco

      Non avrei saputo esprimerlo meglio. Da anni in Italia, l’agenda politica è dominata dalle novità sull’accesso alla pensione, in presenza, fra l’altro, di una norma chiarissima, la Fornero. Tutti i nodi vengono al pettine: elevato debito pubblico, modello di sviluppo centrato su settori a basso valore aggiunto e produttività totale bassa, la crisi demografica non è che una conseguenza di queste ineluttabili premesse.

  2. Sara

    Salve professore, parole Sante e condivido pienamente quello che ha detto e spiegato. Noi abbiamo due figlie fortemente volute e se potessi ne farei un terzo. Dico se potessi perché c’è una serie di problematiche che mi fanno desistere…cambiare casa in primis perché la nostra è piccola per cinque…e lo sarebbe anche per 4 in realtà….dovrei forse smettere di lavorare, perché ci vuole qualcuno che sta dietro ai pargoli quando noi mamme non ci siamo. I nostri genitori sono ancora abbastanza giovani e relativamente in salute…ma ho solo i miei vicini (un quarto d’ora di auto), i miei suoceri abitano a Firenze( 40 chilometri ) più o meno. Le difficoltà sono tante, le case costano davvero troppo, il supporto fisico di cui c’è bisogno carente….deve partire tutto dall’alto…. purtroppo.

    • Daniele

      Siamo solo “figli” di un progetto, partito tanti anni fa dalle menti geniali degli ingegneri sociali.
      Attraverso la TV, la musica, la comicità, le politiche sociali… si è spinta la gente a non volersi più sposare, a non voler più fare figli.
      Chiaramente chi non vuole figli ha una marea di argomentazioni da tirare fuori ed alcune anche giuste.
      Chiaramente tutti argomenti installati nella mente delle persone nel corso degli anni.
      Si preferisce un cane, un gatto, ad un figlio.
      Dove abito io esistono le spiagge per i cani con i negozi sulla spiaggia… ma non esistono le spiagge per i bambini.
      Tanti dicono: “meglio un cane, perché il cane non ti fa problemi”
      A queste assurdità siamo arrivati.
      E scusate se parlo per luoghi comuni… ma la stessa gente poi, ce l’ha con gli immigrati stranieri o del sud che, a detta loro, vengono a rubare il lavoro agli italiani.
      Ma a quale italiani che di figli non ne fanno?

      Capisco che i costi ormai sono improponibili, ma una volta come si faceva?

  3. Ladymaya

    Credo che a tutto questo si aggiungano anche altri due fattori importanti: 1) l’abituale esterofilia italiana ( specie delle ultime generazioni) e la convinzione che altrove tutto funzioni meglio. E se tale convinzione può essere sotto certi aspetti dovuta a fattori oggettivi (stipendi, sussidi, possibilità di carriera), in altri casi è basata anche su preconcetti o sfiducia prevebtiva; nelle potenzialità del Paese, e che qui non funzioni nulla, idea che si è radicata nella mente soprattutto delle nuove generazioni che, sin da giovanissimi, partono già dall’idea di lasciare il Paese
    2) L’idea che il figlio non vada educato bensì viziato, il che spinge ancora di più a non procreare o a farlo solo in situazione di ottima condizione economica. “Se non posso comprargli il giocattolo costoso, se non posso regalargli il telefono bello, se non posso filtrargli un locale per festeggiare il suo compleanno, il figlio che lo faccio a fare?” Fino agli anni ‘80 si rischiava di più: il figlio lo si metteva al mondo se lo si desiderava, senza badare troppo ai fattori materiali

  4. Mahmoud

    Consentire alle giovani generazioni “di trovare condizioni adeguate a realizzare in pieno i propri progetti professionali e di vita” IN FRETTA. Poichè le donne devono poter intraprendere una carriera professionale appagante, ottenere adeguata remunerazione, acquistare adeguata abitazione di proprietà e quant’altro ritenuto opportuno per creare una famiglia ma deve essere concesso loro anche di riuscire a fare tutto ciò IN FRETTA, perchè biologicamente il tasso di natalità è legato al tasso di fecondità.
    Soprattutto se l’obiettivo non è di avere un figlio ma ALMENO due figli (per sopperire a chi non può averne o comunque non ne vuole o ne vuole meno) è inaccettabile che la maggior parte delle giovani in Italia siano di fatto impossibilitate ad ottenere tutto ciò prima dei 30 anni, quando la fecondità è generalmente già in fase calante.

  5. Angelo

    Non capisco come le soluzioni individuate risolvano la crisi demografica in atto. Forse attenueranno il problema della mancanza di lavoratori, ma non credo incideranno sulla scarsa natalità.

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