Di disuguaglianza si parla molto. Ma non c’è un consenso unanime sulla sua definizione. Particolarmente difficile appare distinguere tra disparità accettabili e inaccettabili. Una difficoltà che pesa sulle scelte che riguardano le politiche distributive.
Un fenomeno dovuto a un mosaico di fattori
La disuguaglianza economica – relativa a reddito, ricchezza e consumi – è un tema che tocca in profondità persone e società. Da un lato, premiare chi ha talento, lavora sodo e innova stimola crescita e progresso. Dall’altro, la disuguaglianza economica concentra vantaggi in poche mani e spesso lascia indietro molti, a prescindere da sforzi e talenti.
La disuguaglianza deriva da un mosaico di fattori: per esempio, opportunità, incentivi, mobilità sociale, merito, libertà, istituzioni, valori etici, livello di sviluppo economico dell’area in cui si vive. Questa complessità rende problematica l’interpretazione normativa di strumenti di misurazione come il coefficiente di Gini o rapporti interquintilici. Pensiamo a due persone che, a parità di altre condizioni, decidono liberamente di lavorare un diverso numero di ore: le statistiche mostreranno una disparità di reddito, ma è davvero un problema?
Qui però mi occupo di un’altra questione, più fondamentale e prioritaria: la mancanza di un sufficiente accordo su quale—o quali—tra i fattori indicati rende tollerabile (o accettabile o simili) la disuguaglianza. È molto probabile che esistano divergenze significative anche riguardo al livello di disuguaglianza considerato accettabile. Per essere chiari, personalmente considero intrinsecamente intollerabile ogni disuguaglianza che derivi da mancanza di pari opportunità, segregazione o discriminazione. A prescindere dalla sua entità. Al tempo stesso, però, bisogna riconoscere che “non intollerabile” non significa automaticamente “accettabile”. Perciò, anche se alcune disuguaglianze possono essere considerate tollerabili, la definizione precisa di tollerabile va tenuta aperta, nel rispetto della complessità del fenomeno.
Cosa dicono i dati
Per esperienza diretta sappiamo che la gente ha opinioni e sensibilità difformi sul tema. I dati lo confermano. Secondo un sondaggio del Pew Research Center, circa sei adulti statunitensi su dieci affermano che nel paese vi è troppa disuguaglianza economica. Tuttavia, il restante 40 per cento ha un’opinione diversa, una quota significativa. Inoltre, i dati aggregati nascondono l’eterogeneità sottostante. Lo stesso sondaggio mostra, e non sorprende, che le opinioni divergono lungo lo spettro politico: i Democratici sono quasi il doppio più propensi rispetto ai Repubblicani a sostenere che negli Stati Uniti vi sia troppa disuguaglianza (78 per cento contro 41 per cento). Un altro risultato prevedibile è che l’accettazione della disuguaglianza varia in base al reddito. Sebbene una percentuale simile di persone di ogni fascia di reddito (alta, media e bassa) concordi sul fatto che la disuguaglianza negli Stati Uniti sia eccessiva, la loro percezione su quanto sia accettabile varia sensibilmente. Tra chi riconosce il problema, l’85 per cento degli adulti con redditi alti giudica accettabile un certo grado di disuguaglianza, una percentuale che cala al 72 per cento per i redditi medi e scende ulteriormente al 59 per cento per quelli bassi.
I dati dicono anche che queste prospettive divergenti non sono un fenomeno esclusivamente statunitense. All’inizio di quest’anno, il Pew ha pubblicato i risultati di un’indagine condotta in trentasei paesi. I risultati mostrano che una mediana del 54 per cento degli adulti ritiene che la disuguaglianza economica sia un problema molto grave nel proprio paese, mentre il 30 per cento la considera moderatamente grave. Anche in questo caso, le convinzioni politiche e il livello di reddito influenzano significativamente la percezione della sua tollerabilità, accentuando la divergenza delle opinioni.
Un’interpretazione è che la tollerabilità della disuguaglianza dipende dalle cause che la generano. Ma non esiste un accordo condiviso neanche sulle cause, anche per via della loro varietà e della complessità del fenomeno. Per esempio, una persona di successo tende a essere più meritocratica di un povero il quale, tra l’altro, può dare più peso al ruolo della fortuna. In ogni caso, le persone sembrano percepire e giudicare in modo difforme la medesima disuguaglianza che esiste nella società in cui vivono.
Anche a livello intrapersonale possono esserci elementi che rendono variabile la tollerabilità della situazione. Chi è moralmente turbato dalla disuguaglianza può provare lo stesso disagio qualora i propri sforzi e risultati non vengano riconosciuti in modo equo. Eppure, quel riconoscimento finisce inevitabilmente per generare disuguaglianze.
Divergenze tra economisti
Pure il quadro internazionale riflette la complessità della questione. L’Obiettivo di sviluppo sostenibile (Sdg) n. 10 dell’Onu, “Ridurre le disuguaglianze”, denuncia disparità legate a reddito, genere, età, disabilità, razza e altro ancora. Il messaggio è chiaro: uno sviluppo sostenibile deve essere inclusivo. Ma la scelta delle parole è altrettanto significativa: si usa “ridurre” senza specificare meglio, forse perché non c’è sufficiente consenso sul tema della disuguaglianza. Probabilmente per via del maggior consenso sui problemi creati dalla povertà, per dire, l’Sdg n. 1 parla di “Sconfiggere la povertà”, ovvero di eliminarla totalmente.
Due economisti, ampiamente riconosciuti come esperti in materia di disuguaglianza, sottolineano l’importanza del tema.
Anthony B. Atkinson scrive: “Non cerco di eliminare tutte le differenze nei risultati economici. Non miro a una totale uguaglianza. In effetti, alcune differenze nelle ricompense economiche possono essere del tutto giustificabili. Piuttosto, l’obiettivo è ridurre la disuguaglianza rispetto al livello attuale, nella convinzione che l’attuale grado di disuguaglianza sia eccessivo”.
Joseph Stiglitz sostiene la necessità di una maggiore uguaglianza rispetto a quella attualmente presente negli Stati Uniti, affermando: “Noi (o almeno la maggior parte di noi) crediamo nell’uguaglianza, non in una uguaglianza assoluta, ma in una molto più ampia rispetto a quella che caratterizza l’economia odierna”.
Come nel caso delle analisi del Pew, anche qui ciò che viene considerato “eccessivo” o “maggiore uguaglianza” rimane indefinito. Un possibile motivo è che se molti economisti (e non solo) sono d’accordo sull’inaccettabilità di certe cause di disuguaglianza (come discriminazione e segregazione), su altri meccanismi le opinioni restano divergenti.
Non c’è accordo neanche tra i filosofi
Ma è la mancanza di consenso tra i filosofi a destare ancor più preoccupazione poiché, data l’alta astrazione teorica dei loro ragionamenti, ci si aspetterebbe che tale accordo emergesse con più facilità. Invero, essi devono convergere “solo” sulla questione di fondo: “Esiste una disuguaglianza moralmente accettabile?” Eppure, anche qui le posizioni sono piuttosto eterogenee. Poiché è questo il punto cruciale del presente articolo, vale la pena soffermarcisi un po’ di più.
Il “sufficientarismo” punta a garantire che tutti abbiano “abbastanza”; il “limitarianismo” sostiene che sarebbe moralmente inaccettabile possedere risorse superiori a quelle necessarie per condurre una vita piena e soddisfacente.
Un altro nodo è la fortuna dietro il successo personale. Ronald Dworkin distingue tra “fortuna bruta” – condizioni fuori dal nostro controllo – e “fortuna d’opzione”, cioè scelte volontarie dal risultato incerto. In letteratura, c’è un certo accordo sull’idea di compensare gli effetti della fortuna bruta, mentre le opinioni sulla fortuna d’opzione sono più eterogenee.
Gli utilitaristi tollerano la disuguaglianza solo se aumenta la felicità (utilità) collettiva o soddisfa le preferenze della maggioranza. Per John Rawls, una certa disuguaglianza è moralmente giustificata se migliora la condizione dei più svantaggiati in termini di “beni primari”. Concentrandosi su poveri e svantaggiati, Amartya Sen dice che il reddito non dovrebbe essere uguale tra due persone con diverse abilità psicofisiche.
Sebbene tutte queste (come anche altre) teorie di giustizia distributiva riconoscano che qualche disuguaglianza può essere accettabile, divergono profondamente sul “perché”. Per dire, due situazioni che materializzano due identici indici del Gini possono essere lette in modi molto diversi dai vari teorici. L’egualitarismo radicale allarga il campo delle differenze. Sostiene che le differenze tra individui non giustificano alcuna – o, al più, una minima – disuguaglianza, poiché tutti i bisogni e gli interessi meritano pari considerazione morale.
I pro e i contro
A impedire la convergenza verso un approccio assolutamente superiore c’è anche il fatto che tutti questi principi distributivi hanno dei pro e dei contro.
Il “sufficientarismo” e il “limitarianismo”, benché presentino un certo richiamo teorico, non hanno ancora risolto il problema del significato preciso di queste soglie. Anche allocare i beni a chi li preferisce di più, come suggerito dall’utilitarismo, appare accettabile. Ma non sempre è così. Robert Nozick, immagina un utility monster, cioè un essere che trae molta più utilità da ogni unità di risorsa rispetto agli altri. Secondo il principio utilitarista dovremmo dare tutte le risorse a questo mostro, perché ciò massimizza la felicità totale. Per Nozick, però, questa distribuzione sarebbe immorale. Ronald Dworkin ha sollevato il problema degli expensive tastes per criticare il riferimento alla soddisfazione delle preferenze come criterio distributivo. Si pensi al caso di un individuo che trae piacere solo da cibi pregiati o automobili di lusso: sarebbe davvero giusto, sul piano morale, assegnargli maggiori risorse per soddisfare simili preferenze? Se l’approccio delle capacità di Sen si occupa validamente dei più vulnerabili, esso trascura altri gruppi che, però, sono la maggioranza. La meritocrazia si concentra proprio su questi gruppi e ha dei vantaggi, ma vale solo sotto certe condizioni e, appunto, non può applicarsi, per esempio, ai disabili. L’egalitarismo radicale ha un suo fascino teorico, ma rischia di indebolire gli incentivi, frenare la mobilità sociale, ridurre la partecipazione attiva delle persone alla società, alimentare la loro dipendenza dall’assistenza e di mettere a rischio l’assetto democratico di un paese.
Si potrebbe continuare, ma il punto rimarrebbe: non c’è sufficiente consenso su ciò che è considerabile una disuguaglianza moralmente accettabile, neppure a livello di principi filosofici. Con tutte le implicazioni che ne derivano sul piano dell’interpretazione delle misure, dell’implementazione delle norme e delle dinamiche sociali.
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Savino
Il disaccordo, tutto egoistico, rende le disuguaglianze non riconosciute. Il più grave errore di questa classe dirigente è il non riconoscere e far finta di non vedere quello che, quantisticamente, succede nelle nostre città, nelle nostre comunità, nelle nostre strade, nel nostro mare. Quanta difficoltà c’è, quanta umanità ha bisogno e quanto bisogno di umanità sussiste, fino alla beffa di quanto merito è negato e sprecato (proprio da chi parla impropriamente di merito) insieme alla negazione dei diritti e del pane. E’ una vergogna che sussistano concezioni filosofiche e stili di vita propensi a pensare altrove.