La Corte Suprema Usa deve decidere sui dazi imposti da Trump. A far pendere la bilancia verso l’illegittimità delle tariffe potrebbe essere non tanto il giudizio sulla loro scarsa razionalità economica, quanto la strategia sbagliata degli avvocati federali.
Gli argomenti di Trump
Adam Liptak, autorevole giornalista con laurea in giurisprudenza a Yale, ha recentemente spiegato in modo brillante, sulle pagine del New York Times, un possibile errore tattico dell’amministrazione Trump nel difendere davanti alla Corte Suprema la competenza del presidente nell’introduzione dei ben noti dazi generalizzati, annunciati lo scorso aprile nel “Liberation Day”. Comprendere questo punto consente sia una interessante osservazione sulla vicenda e sul funzionamento del massimo organo giurisdizionale americano nei suoi complessi rapporti con la politica, sia una più ampia riflessione sui rapporti tra il diritto e la logica (o mancanza di logica) economica delle politiche commerciali trumpiane.
Per capire meglio, facciamo un passo indietro. Il presidente degli Stati Uniti ha giustificato le sue tariffe con affermazioni poco razionali e intrinsecamente contraddittorie, determinandone i livelli con una formula priva di senso: semplificando, tanto maggiore il disavanzo commerciale tra gli Usa e un dato paese, tanto maggiore il dazio. Gli stessi obiettivi appaiono in contrasto tra loro: aumentare le entrate fiscali, da un lato; indurre le imprese a produrre in America, dall’altro. È evidente che delle due l’una: o si continua a importare, e il gettito fiscale aumenta a prescindere da chi veramente ne sostenga il peso, più verosimilmente gli importatori e i consumatori americani. Oppure aumenta la produzione domestica, ma allora diminuiscono importazioni e dazi. Trump ha fatto anche appello a esigenze di sicurezza nazionale (Sezione 232 della Costituzione) come ragione per le sue scelte, ad esempio l’esigenza di forzare un maggior impegno dei governi stranieri nel combattere il contrabbando di droghe particolarmente dannose come il Fentanyl: si tratterebbe, allora, di uno strumento di pressione economica per perseguire scopi sociosanitari giustificati da una emergenza. In ogni caso, Trump ragiona in modo negoziale, senza troppo preoccuparsi né delle regole (si pensi al boicottaggio del World Trade Organization), né degli effetti sistemici e della razionalità economica delle proprie scelte, e quindi vede i dazi come un modo per mettere pressione su altri paesi e ottenere qualcosa con la forza.
Ne è subito nata una battaglia legale giunta fino alla Corte Suprema, che ruota intorno alla legittimità dei poteri del presidente. Comprendono anche quello di imporre tariffe come queste? La domanda – che tocca il cuore della separazione dei poteri – è ben esaminata in un recente articolo su lavoce.info di Giacinto della Cananea, al quale rinviamo, ma si può riassumere così: se in generale il potere di imporre tasse e dazi è attribuito dalla Costituzione al Congresso, il presidente può intervenire con quasi ogni possibile provvedimento in caso di necessità, per far fronte a una minaccia straordinaria all’economia o alla sicurezza nazionale. Le decisioni delle corti inferiori paiono escludere che sussista il presupposto della necessità, ma l’ultima parola spetta alla Corte Suprema, dove la scorsa settimana si sono ascoltati gli argomenti orali delle parti.
L’errore strategico
Veniamo così alla strategia processuale e al possibile errore dell’avvocatura federale che difende le tariffe di Trump. Semplificando un poco, oltre ai temi di sicurezza nazionale, la decisione della vicenda può dipendere anche da quale sia la finalità principale, e quindi la natura, delle tariffe: l’obiettivo è aumentare il gettito – e si tratta dunque di misure fiscali – oppure sono uno strumento diplomatico per raggiungere certi obiettivi di politica estera? Nel primo caso è più probabile la bocciatura del Presidente, perché la potestà impositiva è ben radicata nel Parlamento; mentre nel secondo caso le tariffe potrebbero rientrare nelle prerogative dell’esecutivo relative ai rapporti diplomatici. Per decidere simili questioni, la Corte non dà solitamente peso alle dichiarazioni pubbliche dei politici, comprendendo che possono essere imprecise. Tuttavia, gli avvocati di Trump – pur cercando in ogni modo di affermare che l’aumento delle entrate è solo un effetto indiretto dei dazi – hanno dato ampio spazio, negli atti formali presentati ai giudici, proprio alle enfatiche esternazioni del presidente, riportate testualmente e che esaltano gli effetti benefici sul bilancio federale delle misure tariffarie. Come ci ricorda il precisissimo Adam Liptak, da un punto di vista processuale, è un fatto molto importante, perché a questo punto la Corte non può ignorare le dichiarazioni dello stesso Trump sugli scopi perseguiti con le sue scelte.
Su che base sarà presa la decisione?
La Corte si trova quindi davanti a una decisione complessa sul piano tecnico-interpretativo e delicatissima su quello politico-istituzionale. Accettare la decisione di Trump significherebbe un enorme e innovativo ampliamento del potere esecutivo a scapito di quello legislativo, ma in parte anche giudiziario. Se tre dei nove giudici della Corte sono stati nominati proprio dall’attuale presidente e quindi, tralasciando ogni polemica o dietrologia sulla loro autonomia di giudizio, magari ne condividono l’impostazione di fondo, non mancano giudici “conservatori” ma più liberali in politica economica e sensibili alla separazione dei poteri, nominati da precedenti presidenti repubblicani.
In questo scenario, appigliarsi alle dichiarazioni dello stesso Trump per dichiarare i dazi illegittimi potrebbe essere una soluzione di compromesso politicamente più “digeribile”: non si starebbero infatti escludendo in via generale i poteri del presidente, ma più semplicemente si starebbe dicendo che, siccome la stessa amministrazione ha affermato che la finalità è prevalentemente fiscale, allora la decisione è di competenza dei parlamentari. La Corte sposerebbe una interpretazione del tutto plausibile, segnerebbe una certa sua indipendenza dall’esecutivo, ma allo stesso tempo non sconfesserebbe in modo radicale le scelte presidenziali.
Ma c’è un secondo punto che vogliamo sottolineare. Sarebbe da ingenui pensare che casi giudiziari di tale portata storica e istituzionale si risolvano in modo solo tecnico, applicando le norme: è inevitabile, e in certa misura persino opportuno, che abbiano anche una dimensione politica. Tanto più quando la Corte Suprema, come negli Stati Uniti, è di nomina politica. Non si può tuttavia nascondere un certo sgomento al pensiero che l’esito di una controversia così rilevante per gli Usa e tutto il mondo – anche qualora condivisibile – possa giocarsi sul peso dato ad alcune esternazioni, spesso caotiche, imprecise e poco razionali, di una singola persona e, forse, su una scivolata degli avvocati del governo federale. In un mondo meno confuso e imprevedibile, ci piacerebbe vedere simili questioni chiaramente risolte dalla Costituzione con una precisa distinzione di poteri, o almeno che la decisione fosse basata sulla completa irrazionalità e contraddittorietà dei fondamenti economici e di fatto dei provvedimenti impugnati.
Ma nel diritto e nella vita, piaccia o meno, come ci avvisava Nanni Moretti in Palombella Rossa, le parole sono importanti: «chi parla male, pensa male e vive male».
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Marco Ventoruzzo è professore ordinario di diritto commerciale all'Università Bocconi, dove in passato ha diretto il PhD in Diritto dell'impresa e il Dipartimento di Studi Giuridici; attualmente è Area Director Law della SDA Bocconi. Per molti anni è stato Full Professor of Law presso la Pennsylvania State University Law School. E' membro scientifico del Max Planck Institute on Financial Markets di Lussemburgo, dopo essere stato Direttore fondatore di tale Istituto, ed è Research Associate dello European Corporate Governance Institute dal 2009. Oltre che negli Stati Uniti e in Italia, ha insegnato in qualita' di visiting professor, tra le altre, in importanti università e facoltà di giurisprudenza in Cina, Germania, India, Cile, Spagna, Turchia, Giappone, Rwanda e Brasile. Autore di numerose pubblicazioni scientifiche in materia di società e intermediazione finanziaria, è membro dei comitati di direzione o redazione di diverse riviste scientifiche, tra cui Oxford Journal of Financial Regulation, European Company and Financial Law Review, Rivista delle società e Banca Impresa Società, ed è socio di uno studio legale. Dal giugno 2022 è Presidente della Associazione Intermediari Mercati Finanziari.
Giulio Enea Vigevani è professore ordinario di diritto costituzionale all’Università di Milano-Bicocca, dove insegna anche diritto dell'informazione e AI and the Media Law. Esercita la professione di avvocato, principalmente nelle medesime materie che insegna. Collabora dal 2012 con “Il Sole 24 ore” e con il supplemento culturale “La domenica de Il Sole 24 Ore”. È condirettore della “Rivista di diritto dei media” e membro del comitato di direzione di alcune riviste scientifiche. È autore di numerose pubblicazioni scientifiche su vari argomenti di diritto costituzionale, elettorale, europeo e dei media. È stato consulente presso il Ministero per le comunicazioni e componente del Gruppo di lavoro per la riforma della legislazione sui contributi all’editoria presso la Presidenza del Consiglio. È coordinatore dal 2023 dei Rapporti “Monitoring media pluralism in the digital era: Italy” dell’European University Institute - Centre for Media Pluralism and Media Freedom.
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