I rapporti pubblicati in occasione della Cop30 indicano un calo della proiezione di crescita della temperatura, ma l’obiettivo di +1,5°C appare lontano. Le azioni per ridurre le emissioni rallentano e andrebbero favoriti accordi tra i principali emettitori.
I tanti temi di Cop30
La Cop30 si è conclusa il 22 novembre scorso. Se ne è scritto e letto tantissimo per cui non v’è molto da aggiungere circa l’esito, se è stato all’altezza delle attese o se ha deluso e in che misura. Diremo solo che le Cop davvero significative, se ci guardiamo indietro, si contano ancora sulle dita di una mano.
Non parleremo dunque qui di abbandono delle fonti fossili, di forestazione, di finanza del clima, di adattamento, di misure commerciali unilaterali, di transizione giusta, di perdite e danni, di Articolo 6, di agricoltura e sicurezza del cibo, di Cina e Stati Uniti, di Unione europea e Brasile o di “gender”. Sono tutti aspetti importanti di cui si parla alle Cop a conferma che il cambiamento climatico è un fenomeno dalle mille sfaccettature.
Se è sacrosanto che tutti questi temi trovino spazio di discussione e trattativa in un contesto come le Cop, dove il multilateralismo è il tratto fondamentale e distintivo, è altrettanto vero che assorbono tempo ed energie che vengono sottratti al vero tema centrale, e cioè la mitigazione, la riduzione delle emissioni di gas serra – di qualunque tipo siano, dovunque siano generate, in qualunque modo siano prodotte, da chiunque siano prodotte – al fine di stabilizzare le concentrazioni in atmosfera e contenere l’aumento della temperatura terrestre.
I paesi e gli impegni dell’Accordo di Parigi
Progressi veri su questo fronte sono stati ottenuti da poche Cop e spesso sono stati propiziati da accordi tra due grandi paesi, o tra pochi paesi, raggiunti prima del loro svolgimento. E dunque noi oggi ci troviamo ancora “dentro” gli Accordi di Parigi del 2015. Quegli accordi prevedono l’impegno dei paesi firmatari a contribuire con le loro azioni a contenere l’aumento della temperatura globale entro i +2°C (rispetto all’era preindustriale ed entro il 2100), facendo del proprio meglio per scendere a +1,5°C. A questo fine essi predispongono dei piani volontari – i contributi determinati a livello nazionale (Ndc) – che dettagliano le azioni di mitigazione che ciascun paese si impegna a realizzare e che vengono sottoposti alla Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici (Unfccc) per poi essere discussi alle Cop. L’Onu li esamina e valuta complessivamente la distanza dall’obiettivo di temperatura. Sono previsti aggiornamenti ogni cinque anni degli Ndc, che devono essere progressivamente più ambiziosi al fine di avvicinare sempre più l’obiettivo di temperatura prefissato.
Il 2025 e Cop30 erano rilevanti, in quanto cadeva il termine per i paesi di sottoporre i propri Ndc terza edizione con scadenza 2035. Alla scadenza del 10 febbraio 2025 il 95 per cento dei paesi non aveva presentato alcunché. Alla fine della conferenza, tuttavia, erano 122 i paesi ad avere sottoposto i propri nuovi Ndc, nonostante un grande assente come l’India che l’avrebbe promesso per dicembre. Gli Usa non hanno prodotto un nuovo più ambizioso Ndc, un riflesso del nuovo clima di Washington e del ritiro dall’Accordo di Parigi voluto da Donald Trump che diventerà operativo il 27 gennaio 2026. Ciò creerà un “ambition gap”, un buco di mancate riduzioni di emissioni che dovrà essere colmato. Anche l’Unione europea è arrivata tardi con il proprio Ndc3, a conferma della nuova aria che si respira a Bruxelles sul fronte delle politiche del clima. Il piano è stato presentato il 5 novembre, quando finalmente il Consiglio europeo ha approvato i nuovi obiettivi di riduzione delle emissioni nette al 2040 (-90 per cento sul 1990) e al 2050 (-100 per cento), inserendo un nuovo forte obiettivo al 2035 (tra il 66,25 e il 72,5 per cento in meno).
Un bicchiere mezzo pieno e mezzo vuoto
Poco prima dell’inizio di Cop30 il Programma Ambiente dell’Onu (Unep) ha presentato il suo Emissions Gap Report 2025 contenente l’analisi dei piani aggiornati presentati fino a quel momento. Il titolo del rapporto è chiaro: “Off target”, a indicare che il superamento del target di +1,5 °C si verificherà “molto probabilmente” entro il prossimo decennio dal momento che il “carbon budget” corrispondente è ridotto e va rapidamente esaurendosi. Questo nonostante che la prospettiva sia comunque migliorata rispetto al 2015. Se questa è l’evidenza, il target di crescita della temperatura resta raggiungibile ma solo al prezzo di un sempre più probabile “overshoot” – uno sforamento del target – che Unep esorta i paesi a rendere “temporaneo e minimo”. Nella comunità scientifica è un tema caldo: un “overshoot” della temperatura comporterebbe danni rilevanti per le persone e gli ecosistemi, alcuni dei quali potrebbero essere non reversibili, e costringerebbe al ricorso “rischioso e costoso” a metodi di rimozione del carbonio, sia di tipo naturale che tecnologico.
Il problema è che l’azione climatica dei paesi firmatari dell’Accordo di Parigi mostra una sostanziale stagnazione che prosegue ormai da quattro anni. Lo rappresenta bene la figura 1 presa dal Climate Action Tracker, uno dei principali think tank che si occupa del problema. Si vede una sostanziale stabilità nelle proiezioni di temperatura con un valore centrale di +2.6°C sulla base sia delle politiche attuali che di quelle degli Ndc presentati (anche se il campo di variazione scende da +3,3-/+2,1 a +3,2/2,0).
Figura 1

Appena più ottimista è il rapporto Unep che prevede un valore centrale di aumento della temperatura di +2,8°C nel caso di prosecuzione delle politiche attuali, di +2,3/2,5°C nel caso di piena attuazione degli attuali Ndc e di +1,9°C nello scenario più ottimistico di realizzazione di tutti gli impegni Nze (zero emissioni nette).
Insomma, un vero e proprio bicchiere mezzo pieno – l’Accordo di Parigi ha fatto abbassare la proiezione di crescita della temperatura di 1°C nei dieci anni passati – e mezzo vuoto – il grado di ambizione delle politiche climatiche si è andato attenuando e l’obiettivo di +1,5°C diventa sempre più improbabile. Infatti, la figura 2 mostra l’appiattimento del progresso durante gli ultimi cinque anni.
Figura 2

Serve un G10 del clima?
In conclusione, quanto visto rappresenta chiaramente il nocciolo del problema e viene da chiedersi in che misura il meccanismo delle Cop sia (ancora) idoneo a costituire il forum più appropriato per cercare di comporre i divergenti interessi e addivenire ad accordi che vadano oltre le promesse e i propositi. Si tratta forse di pensare a un momento distinto dove probabilmente restringere la rappresentanza ai principali paesi emettitori – un G10 del clima? – dove discutere e cercare accordi sulla base anzitutto dei fatti e dell’evidenza scientifica e dove obiettivi e impegni siano basati sui numeri. Assolutamente non facile, ma sicuramente in linea con l’emergenza crescente. E allora perché non provare a chiudere con una nota di ottimismo? Se in dieci anni, dal 2015 a oggi, la proiezione di aumento della temperatura a fine secolo da +3,4°C è scesa a +2,8°C o addirittura a +2,3/2,5°C, perché non credere possibile potere centrare l’obiettivo +1,5°C entro i prossimi 75 anni?
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Professore ordinario di Economia politica presso il Dipartimento di Scienze e Politiche Ambientali dell’Università degli studi di Milano. Dopo la laurea in Discipline economiche e sociali presso l’Università Bocconi di Milano ha conseguito il dottorato in economia (Ph.D.) presso la New York University di New York. È Direttore della ricerca scientifica della Fondazione Eni Enrico Mattei, dopo essere stato in passato coordinatore del programma di ricerca in modellistica e politica dei cambiamenti climatici. È Fellow del Centre for Research on Geography, Resources, Environment, Energy & Networks (GREEN) dell’Università Luigi Bocconi e Visiting Fellow presso il King Abdullah Petroleum Studies and Research Center (KAPSARC). È Review Editor del capitolo 4 (“Mitigation and development pathways in the near- to mid-term”), Sixth Assessment Report (AR6), IPCC WGIII, 2021. È stato fondatore e primo presidente dell’Associazione italiana degli economisti dell’ambiente e delle risorse naturali, è membro del comitato scientifico del Centro per un futuro sostenibile e della Fondazione Lombardia per l’Ambiente. È componente del comitato di redazione de lavoce.info.
Direttore della Fondazione Eni Enrico Mattei, ha conseguito il Ph.D in Economics presso l’University College of London. È stato Chief Economist dell’Eni, amministratore delegato di Eni Corporate University e Principal Administrator dell’International Energy Agency (Energy and Environment Division). È stato consigliere di amministrazione dell’ENEA in rappresentanza del ministero dello Sviluppo economico. Autore di molte pubblicazioni su temi legati ad energia e ambiente è stato anche Autore principale (Lead Author) per il Third Assessment Report ed il Fifth Assessment Report per conto del IPCC (Intergovernamental Panel on Climate Change). Docente all’Università Luiss e alla Luiss Business School. Membro dell’Editorial Board de lavoce.info. Socio Fondatore dell’Associazione Italiana degli Economisti dell’Ambiente e delle Risorse Naturali e della Società Italiana per le Scienze del Clima (SISC).
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