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Il nuovo articolo 18 alla prova del tribunale

La prima pronuncia sul nuovo articolo 18 dello Statuto dei lavoratori fa presagire una stagione giurisprudenziale piena di incertezze. Se, come ha osservato il tribunale di Bologna, la reintegrazione si applica non solo quando il fatto materiale non sussiste, ma anche quando il giudice lo ritenga non idoneo a giustificare il licenziamento, resta sostanzialmente esclusa la possibilità di applicare la sanzione economica. Un risultato paradossale per una riforma che si proponeva di semplificare l’apparato sanzionatorio del licenziamento e di renderne i costi certi ex ante.

La prima pronuncia in tema di nuovo articolo 18 dello Statuto dei lavoratori riporta la reintegrazione al centro della disciplina dei licenziamenti, sbarra la strada alla liquidazione soltanto economica del licenziamento e, di fatto, pone un serio interrogativo sulla stessa tenuta del sistema uscito dalla riforma del mercato del lavoro.

LA PRONUNCIA DEL TRIBUNALE

Il caso discusso davanti al tribunale di Bologna riguardava un lavoratore che, a una mail del proprio superiore gerarchico che gli chiedeva una più precisa pianificazione delle sue attività, aveva risposto: “parlare di pianificazione (in azienda, n.d.r.) è come parlare di psicologia ad un maiale, nessuno ha il minimo sentore di cosa voglia dire”. La replica dell’azienda non si è fatta attendere: licenziato per giusta causa. Ma il lavoratore non ci sta, impugna il licenziamento e chiede la reintegrazione nel posto di lavoro.
Arriva così il momento di chiamare al debutto l’articolo 18 nella sua nuova veste. C’è però da risolvere un problema: per applicare la sanzione prevista dall’articolo 18 bisogna prima qualificare come illegittimo il licenziamento. A quel punto – dice la nuova legge – il giudice potrà ordinare la reintegrazione nel posto di lavoro solo se il fatto contestato non sussiste oppure non è considerato dal contratto collettivo o dal codice disciplinare come meritevole del licenziamento. In tutti gli altri casi in cui il giudice accerti che non ricorrono gli estremi del giustificato motivo soggettivo o della giusta causa, potrà essere comminata soltanto una sanzione economica, da 12 a 24 mensilità. Meccanismo semplice, si potrebbe pensare: la colpevole condotta del lavoratore o c’è o non c’è e il contratto collettivo o la prevede o non la prevede. Ma, alla prova del giudizio, la realtà si rivela ben più complessa. Perché – ha osservato il tribunale di Bologna – la insussistenza del fatto non si riferisce alla condotta materiale, bensì al “fatto giuridico”. In altri termini, è il giudice che deve valutare se un determinato comportamento del lavoratore, che pur lo abbia materialmente tenuto, sia giuridicamente rilevante per le conseguenze che la legge a esso riconduce. Dunque, venendo al caso in esame, se non v’era dubbio che il lavoratore avesse scritto la mail contestata, al giudice spettava comunque il giudizio circa la sua rilevanza giuridica in funzione della configurabilità di una giusta causa di licenziamento. Valutando le risultanze istruttorie e documentali, il tribunale ha osservato che “da una serena e complessiva valutazione del fatto storico che ha dato luogo al presente procedimento, emerge con evidenza la modestia dell’episodio in questione, la sua scarsa rilevanza offensiva e il suo modestissimo rilievo disciplinare”. Insomma, per il giudice bolognese l’insussistenza del fatto come condizione necessaria per l’ordine di reintegrazione si può configurare anche se il fatto c’è effettivamente stato, ma giuridicamente non è tale da giustificare il licenziamento. A questo argomento, già di per sé decisivo per risolvere il caso, il tribunale aggiunge quello basato sulla diversa qualificazione operata daicontratti collettivi. Così, dato che il Ccnl metalmeccanici, applicato nel caso di specie, prevedeva solo sanzioni conservative per i casi di “lieve insubordinazione nei confronti dei superiori”, il tribunale, nell’esercizio del suo potere qualificatorio, ha ritenuto che la mail spedita dal lavoratore licenziato rientrasse “palesemente” nella fattispecie di lieve insubordinazione e pertanto, anche sotto questo profilo, il licenziamento meritasse la sanzione reintegratoria.

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ADDIO AI COSTI CERTI

Senonché il risultato di questa interpretazione della riforma è quello di cancellare dall’articolo 18 la sanzione meramente economica prevista dal quinto comma per le altre ipotesi in cui il giudice accerti che non ricorrono gli estremi del giustificato motivo soggettivo o della giusta causa. Se, infatti, la tutela reintegratoria si applica non solo quando il fatto materiale non sussiste, ma anche quando il giudice ritenga il fatto non idoneo a giustificare il licenziamento, resta sostanzialmente esclusa la possibilità di applicare la sanzione economica. È, questo, un risultato evidentemente paradossale per una riforma che ha nel suo statuto costitutivo l’aspirazione disemplificare l’apparato sanzionatorio del licenziamento e di renderne i costi certi ex ante. E, soprattutto, per una riforma che si era riproposta di superare il monopolio della reintegrazione come unica conseguenza del licenziamento illegittimo nelle imprese sopra i quindici dipendenti. Né è in grado di mitigare il senso di frustrazione degli obbiettivi riformatori la circostanza che questo primo processo si sia concluso in tempi rapidi: si tratta, in realtà, della sola fase d’urgenza, oggi diventata un passaggio obbligato e prodromico all’accesso ai tradizionali tre gradi di giudizio.
L’aspetto positivo è che si tratta solo di una primissima ordinanza e che, dunque, ben potrà essere superata da orientamenti giurisprudenziali differenti. Ma è un precedente che svela la fragilità di un testo di legge che lascia al giudice un margine discrezionale ben più ampio di quello che gli affidava il vecchio articolo 18 e che proietta sul futuro preoccupanti ombre di incertezza.

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  1. Franco

    Gentilissimo, ho una lettura differente da quel ha scritto nell’articolo e vorrei una sua opinone. Sebbene sperassi anch’io in una riduzione dell’incertezza sui costi di licenziamento, tuttavia in questo caso ho alcuni appunti. Se da contratto, Ccnl, sono consentite “lievi insuburdinazioni” e se il contratto è stato firmato da entrambi i contraenti, non vedo molti problemi circa la legge Fornero. Trovo maggiori problemi nella relazione tra la stessa e il livello contrattuale odierno. Se avessimo contratti aziendali, ogni imprenditore produrrebbe il contratto, in comune con i sindacati, che meglio crede.
    Secondo lei, se nel contratto non fossero previste lievi insuburdinazioni, il giudice farebbe comunque una valutazione giuridica(la prima) in disaccordo con una valutazione contrattuale? Non sono nella coerenza del giudice legate?

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