TORNA A DELUDERE LA PRODUZIONE INDUSTRIALE
I dati sulla produzione industriale hanno ripreso a deludere. Fatto 100 l’indice della produzione industriale pre-crisi (quello dell’aprile 2008 quando si raggiunse il punto più alto della ripresa 2006-08), nel mese di maggio il dato della produzione industriale (depurato dalle componenti stagionali) ha fatto registrare un deludente 74,7, in calo dell’1,2 per cento rispetto all’aprile 2014 e dell’1,8 per cento rispetto al maggio 2013.
Mancano 25 punti di produzione rispetto a prima della crisi. Una voragine che non si chiude.
Figura 1 – Totale industria (escluse costruzioni)
Fonte dati: Istat
ALLE ORIGINI DEL CROLLO: BENI DUREVOLI E DELOCALIZZAZIONI
I dati non sono ugualmente negativi per tutti i tipi di produzione industriale (Figura 2)
Figura 2 – Il crollo di beni durevoli e beni intermedi, la tenuta dei beni non durevoli
Fonte dati: Istat
Le cose vanno particolarmente male per la produzione di beni di consumo durevole (le automobili e le lavatrici per intenderci; esempi non scelti a caso, vengono in mente i casi Fiat e Electrolux) che fanno segnare un 63,3, cioè quasi 38 punti in meno rispetto all’aprile 2008. In questi sei anni di buio a scendere più della media dell’industria è stata anche la produzione di beni strumentali (beni durevoli come le automobili e i furgoni acquistati da altre imprese, non da consumatori; insomma acquisti BtoB, non BtoC, come si dice in gergo). Come dire che in un paese che non investe più tutte le produzioni il cui acquisto poteva essere cancellato o rinviato al futuro è stato davvero cancellato e rinviato al futuro. Con drammatiche conseguenze per i lavoratori (una volta) attivi in questi settori.
Un altro tipo di produzione industriale che è scesa più della media è quella di beni intermedi. È la produzione di componenti, che fa segnare meno 29,7 rispetto ai massimi di aprile 2008. La storia sottostante a questi dati è quella di grande imprese che usano sempre meno l’indotto italiano e ricorrono invece alla delocalizzazione per la produzione di componenti (ecco cosa sono i beni intermedi).
Un po’ meglio della media se la passano solo i lavoratori attivi nei settori che producono beni di consumo non durevole (le cassiere dei supermercati e i laureati in marketing, per intenderci) , per i quali la perdita rispetto all’aprile 2008 è stata di “soli” 11,8 punti. L’industria di marca – soprattutto nel settore alimentare – ha provato a resistere, a partire dai suoi marchi più consolidati. Un sostegno importante alla produzione industriale dei beni di consumo non durevole è però venuto alla pratica delle industrie di marca e dei piccoli produttori di fornire prodotti privi del loro marchio di origine (unbranded) alla grande distribuzione che li ha commercializzati sugli scaffali dei supermercati con le etichette delle marche commerciali (i vari marchi dell’Esselunga o della Conad o della Coop, per intenderci).
Nel complesso, dalla produzione industriale continua a mancare il contributo sperato alla tanto auspicata ripresa dell’economia. Con pesanti conseguenze sull’occupazione e conseguenze un po’ meno pesanti per i fatturati aziendali che hanno comunque almeno parzialmente beneficiato della riduzione dei prezzi delle materie prime, delle riduzioni di costo consentite dalla delocalizzazione nell’est Europa e in Asia e, in alcuni casi, dell’apertura di nuovi mercati. Con questi chiari di luna, il ritorno di un tangibile segno più si allontana. E l’urgenza dell’azione da parte della politica diventa sempre meno rinviabile.
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Aldo Mariconda
Da uomo d’azienda, non da economista, condivido totalmente l’articolo. Aggiungerei due osservazioni:
1) L’industria a mio parere soffre non solo di una crisi congiunturale prolungata, ma di una strutturale
2) L’Italia da circa 20 anni ha un andamento del Pil di circa il -1% rispetto alla media della vecchia Ue dei 15 e anche del 2% rispetto ai Paesi più dinamici della stessa Ue.
Non ne usciremo se:
– Non si rende più competitiva l’industria abbassandone il peso fiscale. La fiscalità è materia di opzione politica se riguarda il cittadino, non per l’impresa che si confronta in un mercato globale
– Non s’imposta (dato e non concesso che sia possibile) una politica industriale. Abbiamo poche grandi aziende, poche medie, tante Pmi per non dire Vsme’s (quelle con meno di 10 addetti, le Very Small-sized Enterprises, troppo piccole nel confronto globale)
– Non si rende attraente il Paese per gli investitori italiani e stranieri con quelle riforme di cui ogni giorno si parla. Un sistema pubblico con governi forti e capaci di decidere on time, una legislazione snella, chiara, agire, ridotta di 2/3 rispetto all’attuale, una Pa efficiente e imperniata sulla meritocrazia, rapporti di lavoro tipo Danimarca, Università meritocratica, almeno alla francese se non si vuol imitare il pur variegato mondo anglosassone.
Last but not least: una giustizia che funzioni e sia tempestiva. Peggio di oggi non potrebbe essere! Qui ci vuole il coraggio di rompere le lobbies di magistrati e avvocati.
Per non fare affermazioni generiche: a Treviso ci vuole 1 anno per uno sfratto per morosità di un negozio e ufficio dove l’affittuario non ha pagato fin dal 1° mese e ha raccolto varie denunzie penali da suoi clienti che ha raggirato. Questo anche perché l’organico degli ufficiali giudiziari è sotto del 50%!
Non vedo alternativa.
MM
“Dalla produzione industriale continua a mancare il contributo sperato alla tanto auspicata ripresa dell’economia.” Professore, io direi che non c’è ripresa dell’economia pertanto abbiamo una produzione industriale depressa. Se manca la domanda, perché e, soprattutto, per chi dovrei produrre?
marco
“Dum Romae consulitur Saguntum expugnatur”. Nell’ambiente delle piccole e piccolissime imprese industriali del torinese da molti mesi per non dire da anni si ragionava sulle prospettive nerissime, mentre venivano annunciate iniziative fantasmagoriche dall’Europa, dalla Bce, dai governi. Quali altre dimostrazioni dovremo attendere prima di abbandonare l’Euro? Un ritorno a una moneta nazionale gestita ed una svalutazione competitiva ci potrebbero salvare.
Enrico
Tanto adesso faranno la riforma del Senato e ripartirà tutto. Scherzi (drammatici) a parte, la politica ha ormai dimostrato di non sapere e potere far fronte a questa crisi. Inoltre, la mia impressione è che Il 40% del Pd alle Europee non è un punto di forza per fare riforme, al contrario è un freno: adesso hanno paura di scendere nel consenso e non prenderanno alcun provvedimento impopolare anche se necessario (es. lo choc fiscale si può attuare solo a patto di ridurre drasticamente la spesa e questo impatterà intere categorie). Colgo l’occasione per porre una domanda all’autore (scusate in anticipo le inesattezze, non sono del mestiere): il rapporto deficit/Pil è al 130% circa, la situazione era di finta drammatica al 120% e da molte parti si diceva “non c’è più tempo”. Ora il tempo è passato, il rapporto è peggiorato, ma non c’è limite? C’è un punto di default?
Roberto Roscini
Nelle numerose discussioni e articoli inerenti il Pil, non appare mai una analisi un po’ attenta del calcolo relativo. Sommariamente questo dato esprime la somma del valore aggiunto della produzione di beni e servizi ai quali va sommato il valore dell’apporto della Pubblica Amministrazione basato sul costo. Se ciò è vero, l’auspicata riduzione del costo della Pa dovrebbe diminuire il valore del Pil. Ciò spiegherebbe gli ultimi dati negativi di Pil in concomitanza di lievi cenni di ripresa della produzione industriale. Le sarei grato di un suo apprezzatissimo parere.
lavoceinfo
Caro lettore,
ciò che dice è vero. Seguendo il suo ragionamento dovremmo solo aumentare la spesa pubblica e non ridurla per tenere su il Pil. Il problema però è che la spesa pubblica non si finanzia da sola ma richiede tassazione che a sua volta scoraggia consumi e investimenti. Quindi una riduzione della spesa ha prima un effetto negativo (fino a che le tasse non scendono) ma poi questo effetto dovrebbe azzerarsi e diventare positivo una volta che scendano le tasse. Se poi la riduzione della spesa pubblica riduce la probabilità di default del debito pubblico, questo potrebbe alimentare un ulteriore recupero di fiducia che fa bene a consumi durevoli e investimenti.
Grazie,
Francesco Daveri