L’Ocse rimprovera alla comunita’ internazionale ritardi e limiti nelle politiche di cooperazione allo sviluppo. Ma l’esperienza del paese africano, uno dei piu’ poveri al mondo e per dieci anni devastato da una guerra civile, dimostra le potenzialita’ e i limiti della “generosita’” dei paesi ricchi verso le nazioni piu’ povere. Spesso il problema non e’ la disponibilita’ di risorse finanziarie quanto la capacita’ di assorbirle e la volonta’ politica di farne un uso efficiente ed equo.

Alla fine di gennaio, il Development Assistance Committee (Dac) dell’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (Ocse) ha pubblicato l’annuale rapporto sulle politiche di cooperazione allo sviluppo (Pcs) dei paesi industrializzati.

Dichiarazioni d’intenti e fatti

Nel 1998, la comunità internazionale ha preso l’impegno di dimezzare la povertà nel mondo. È uno dei cosidetti Millenium Development Goals, riaffermato in occasione dei vertici di Monterrey e di Johannesburg del 2002, ma secondo l’Ocse lo sforzo messo in atto rimane insufficiente. La reazione immediata dell’opinione pubblica, e in particolare delle eterogenee componenti del movimento antiglobal, è di puntare il dito verso le responsabilità dei governi occidentali, magnanimi quando si tratta di dichiarazioni di intenti, ma reticenti al momento di pagare la fattura. Resta una lettura riduttiva, anche se c’è un fondo di verità in queste affermazioni, soprattutto per certi paesi: di fronte a un impegno a destinare alla Pcs lo 0,7 per cento del Pil, lo sforzo finanziario nel 2002 è andato dallo 0,96 per cento della Danimarca allo 0,13 per cento degli Stati Uniti. (1)

In realtà negli ultimi anni la comunità internazionale, sotto l’egida delle Nazioni Unite, si è ripetutamente assunta l’onere e l’onore di gestire la transizione dalla guerra civile alla pace in paesi eterogenei di tutti i continenti. Si pensi al Salvador, a Timor Orientale e a varie nazioni dell’ex-Jugoslavia ma anche, a contraris per la polemica che ha suscitato, alla decisione americana di governare l’Iraq senza ricorrere all’Onu. Analizzare un’esperienza specifica serve per identificare sia i risultati che questo tipo di intervento può conseguire, sia le enormi contraddizioni cui la Pcs non può sfuggire.

L’esperienza della Sierra Leone

La Sierra Leone è uno dei paesi più poveri al mondo, con indici di povertà, analfabetismo e incidenza dell’Hiv/Aids che hanno pochi uguali. In un paese che conta meno di cinque milioni d’abitanti, tra il 1991 e il 2001 una guerra civile di rara ferocia ha causato 75mila morti, un numero incalcolabile di stupri e mutilazioni e oltre tre milioni di persone costrette ad abbandonare il proprio domicilio. La guerra ha avuto molteplici cause, ma le principali sono state il conflitto in Liberia, la caccia alle risorse minerarie del paese (i diamanti in particolare) e l’assenza di prospettive per una popolazione penalizzata dal malgoverno fin dall’indipendenza dalla Gran Bretagna nel 1961 e segnata negli anni Ottanta dalle severe conseguenze sociali dei piani d’aggiustamento strutturali della Banca mondiale e del Fondo monetario internazionale.

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Dopo il fallimento dei tentativi, non sempre disinteressati, della Comunità economica dell’Africa Occidentale (Ecowas), nel 1999 il Consiglio di sicurezza dell’Onu ha deciso l’invio di una forza di pace, forte di oltre 17mila uomini e di un bilancio di 600 milioni di dollari, di pochissimo inferiore al Pil della Sierra Leone.

La presenza dell’Unismil (Un Mission to Sierra Leone) ha consentito di svolgere elezioni democratiche e di portare a termine la smobilitazione delle forze ribelli protagoniste della guerra, tra cui migliaia di bambini e adolescenti. In più, un accordo tra l’Onu e il Governo ha portato alla creazione del Tribunale speciale per la Sierra Leone, composto da magistrati locali e stranieri e finanziato dai paesi occidentali, che ad aprile inizierà a giudicare gli imputati di crimini di guerra. Dopo le devastazioni del conflitto, preceduto da decenni di investimenti insufficienti in istruzione, sanità e infrastrutture, la reazione dell’economia al ritorno della pace non è stata spettacolare, ma neppure disprezzabile. Negli ultimi tre anni, il Pil è complessivamente cresciuto di più del 20 per cento, una performance certo insufficiente per eliminare la povertà, ma capace di assorbire almeno una parte della forza lavoro.

Restano però ostacoli fenomenali, per sormontare i quali la buona volontà non basta.

La Sierra Leone è uno dei paesi più corrotti al mondo. I salari dei dipendenti pubblici sono risibili, mentre il costo della vita è fortemente aumentato, gonfiato dalla circolazione di valuta forte in mano a soldati e funzionari internazionali. Non sorprende quindi che nell’amministrazione pubblica e nelle imprese di Stato tutto sia in vendita. Così l’ammissione nelle scuole elementari, teoricamente un diritto costituzionale per il quale i paesi donatori sono disposti a investire, dipende di fatto dalla capacità di acquistare il benvolere dei presidi.

Ma è soprattutto la corruzione nel Governo che limita l’attrattività del paese, malgrado l’istituzione di una speciale commissione con poteri investigativi. Investimenti avvengono, ma sono esclusivamente nel settore minerario, con modeste ricadute sul resto dell’economia, e ne sono protagonisti investitori il cui pedigree non è sempre al di sopra di ogni sospetto. Le privatizzazioni languono, anche perché il Governo mantiene un atteggiamento vagamente ondivago, in cui coesistono l’intenzione di cedere tutte le imprese pubbliche in meno di quattro anni – anche se nessuna di esse ha mai pubblicato un bilancio – con quella di mantenere partecipazioni di minoranza per creare successivamente un indefinito pubblico di piccoli risparmiatori locali.

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Secondo il calendario originario, le truppe dell’Unismil si dovrebbero ritirare alla fine dell’anno. A Freetown, si pensa che il Consiglio di sicurezza rinnoverà il mandato ancora per qualche mese, visto che sono ancora molte le incertezze sulla stabilità politica del paese. Quello che è sicuro è che lo sforzo finanziario dei paesi industrializzati, che attualmente contribuiscono per più della metà al finanziamento del bilancio pubblico, non è destinato a esaurirsi. Ma perché la Sierra Leone possa avviarsi su un sentiero di crescita sostenibile, sono necessarie riforme strutturali che rimangono embrionali.

Trasferire velocemente al Governo del paese una gamma crescente di responsabilità appare senz’altro desiderabile per non trasformare la Pcs in una forma di protettorato. Sarebbe però ancor più grave se, per non incorrere nelle accuse di neo-colonialismo, i paesi Ocse lasciassero che élite corrotte si approprîno del denaro dei contribuenti.

Insomma, l’esperienza delle Sierra Leone mostra le potenzialità e i limiti della “generosità” dei paesi ricchi verso le nazioni più povere. Spesso il problema non è la disponibilità di risorse finanziarie quanto piuttosto la capacità di assorbirle e la volontà politica di farne un uso efficiente ed equo. Nei primi mesi dell’anno i paesi industrializzati hanno promesso quasi un miliardo di dollari per finanziarie la ricostruzione della Liberia ed hanno deciso di sostenere l’invio di truppe in Costa d’Avorio sotto l’egida delle Nazioni Unite. La sfida rimane la stessa.

 

(1) Nel caso dell’Italia si è passati dal 0,32 per cento del 1991-92 allo 0,13 del 2000 prima del modesto recupero a 0,2 nel 2002. Nel quadro del “peer review mechanism”, l’Ocse esaminerà la Pcs italiana nel 2004.

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