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La lezione di Melfi

Il caso Melfi segnala il fallimento dell’esperienza dei contratti di programma, un tentativo di decentrare la contrattazione salariale con accordi territoriali incentivati da iniezioni di denaro pubblico. Per legare il salario alle condizioni del mercato del lavoro meglio affidarsi a fattori automatici, come l’aggancio delle retribuzioni a indici del costo della vita regionali e ridurre il prelievo fiscale e contributivo sui salari più bassi, in ingresso. Tanto più che presto le Regioni del Sud non avranno più accesso ai fondi strutturali Ue.

A Melfi si è consumato il fallimento di un progetto coltivato non solo dalla Fiat, ma soprattutto da chi ha gestito le politiche nel Mezzogiorno in questa legislatura e sul finire di quella precedente: l’idea di decentrare la contrattazione salariale con accordi a livello territoriale, anziché azienda per azienda. Un sogno nutrito troppo a lungo e responsabile anche di molti sprechi. Perché un ingrediente base di questi “contratti di programma” è stata anche l’iniezione di denaro pubblico, messo di volta in volta a disposizione dal Governo per incentivare gli accordi.
Non consola certo sapere che parte di questo denaro veniva dalle casse dell’Unione europea. Sempre di soldi dei contribuenti si è trattato.

Differenziali fra aziende più che all’interno delle aziende 

Anche in paesi con bassi livelli di sindacalizzazione e una forte dispersione nel ventaglio retributivo, i differenziali salariali sono molto contenuti all’interno di ciascuna azienda.
La dispersione nei livelli salariali si genera soprattutto con divari fra aziende diverse, anche se appartenenti allo stesso settore. Vi sono diverse ragioni per questo.

Primo, forti differenziali nella stessa azienda possono scatenare rincorse salariali interne, minare la coesione nell’impresa e la cooperazione fra i dipendenti. È molto difficile che un’organizzazione sindacale possa interiorizzare retribuzioni diverse per persone che timbrano lo stesso cartellino e sono addette alle stesse mansioni. Ci vorrebbero più sindacati, in forte competizione fra loro, nella stessa azienda. Un incubo.
Secondo, per imporre trattamenti diversi a lavoratori della stessa azienda occorrono più fasi di contrattazione, con costi di negoziazione elevati anche per il datore di lavoro. Terzo, spesso è l’intera azienda a contribuire alla produttività di alcuni reparti o impianti del gruppo, concentrando i propri investimenti in fasi strategiche del processo produttivo. Giusto che questi guadagni di efficienza vadano dunque a vantaggio di tutti, non solo dei lavoratori nei reparti “avanzati”. A Melfi, invece, si è voluto creare un divario nel gruppo, per giunta al contrario.

Il nuovo stabilimento, quello più efficiente e cruciale per la produzione nel gruppo, quello con manodopera più giovane e qualificata e, per tutti questi motivi, in grado di raggiungere livelli di produttività superiori che in tutti gli altri stabilimenti del gruppo (a partire da Mirafiori), ha per ben dieci anni (!) pagato i propri dipendenti circa un quinto in meno dei lavoratori degli impianti meno efficienti del gruppo.

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Si dirà che è un differenziale contenuto quando si tenga conto delle differenze nel costo della vita fra Torino e Melfi. Ma negli accordi della Fiat non è previsto alcun aggiustamento per il costo della vita a livello locale. E anche i lavoratori di Termini Imerese guadagnano di più di quelli di Melfi, nonostante il costo della vita in Sicilia sia anche più basso che nel centro lucano. Inoltre, il taglio delle retribuzioni a Melfi è stato ottenuto togliendo ai dipendenti del gruppo proprio quella componente delle retribuzioni che, in linea di principio, potrebbe giustificare differenziali retributivi all’interno della stessa azienda, vale a dire il premio di produttività.

Date queste premesse, è davvero sorprendente che l’accordo abbia retto così a lungo. Quando i lavoratori di Melfi hanno, dalla loro, anche il forte potere contrattuale derivante dalla possibilità di bloccare la produzione nel resto del gruppo. In dieci giorni di picchetti hanno ritardato la produzione di ben 21mila vetture.

Retribuzioni, produttività e disoccupazione

Mentre a Roma si cerca faticosamente di trovare un accordo, per fortuna lontani dai riflettori e dalla politica, è bene guardare più in là del gruppo Fiat.
La ragione per cui il nostro mercato del lavoro ha bisogno del decentramento della contrattazione è che bisogna generare più occupazione al Sud, incentivando al contempo una maggiore produttività del lavoro. Questo significa permettere al salario, al contempo, di essere più basso dove c’è carenza di lavoro e più alto dove mancano i lavoratori e di premiare al contempo miglioramenti della produttività del lavoro. 

In Italia, a differenza che negli altri paesi Ocse, i salari sono poco rispondenti alle condizioni del mercato del lavoro locale: non sono marcatamente più bassi nelle regioni ad alta disoccupazione che in quelle vicino al pieno impiego (vedi Hernanz Pellizzari).  Al contempo, la componente delle retribuzioni legata alla produttività è molto contenuta (attorno al 3% del salario viene determinato con premi di produttività) e presente quasi solo nelle grandi imprese del Nord.  Solo la contrattazione aziendale può tenere conto delle condizioni del mercato del lavoro locale e, al tempo stesso, premiare incrementi di produttività. Perchè nel caso della produttività i divari Nord-Sud non operano a senso unico. Se la produttività del lavoro è mediamente più bassa al Sud che al Nord, non è infatti detto che la produttività debba essere in tutti gli stabilimenti del Mezzogiorno più bassa che in tuttigli stabilimenti del Nord. Melfi docet.

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E’ inoltre sbagliato pensare che possano essere gli aiuti di Stato a  far sì che la contrattazione salariale tenga conto del fattore disoccupazione, come nella logica dei contratti di programma. Si tratta di interventi selettivi e transitori.  Invece del fattore “d”, si finirà per riflettere solo il fattore “p”, la politica, fonte di distorsioni, iniquità e divisioni fra gli stessi lavoratori perchè alimentano gruppi di pressione locali e burocrazie che hanno l’unico scopo di procacciarsi gli aiuti.  Per legare il salario al territorio meglio affidarsi a meccanismi automatici, tipo l’aggancio delle retribuzioni a indici del costo della vita regionali (quando l’Istat si deciderà a pubblicarli?) e alla competizione sul versante delle assunzioni, che potrebbe essere favorita introducendo sgravi fiscali e contributivi per i salari più bassi. La riduzione del costo del lavoro e l’aumento dei salari netti per chi entra nel mercato del lavoro incentiverebbe infatti l’emersione di attività sommerse e una maggiore partecipazione al mercato del lavoro, riducendo al contempo il potere contrattuale di chi un lavoro ce l’ha già.

A pensarci bene, questa è una scelta obbligata. Le Regioni del nostro Mezzogiorno, la Basilicata in primis, si avviano a perdere l’accesso a quei fondi strutturali della UE in nome dei quali era stata lanciata l’operazione dei contratti di programma e dei patti territoriali.  Se non vogliamo aggiungere miopia a miopia, bene allora pensare all’unico modo di decentrare la contrattazione, azienda per azienda, e spingere le organizzazioni dei lavoratori e dei datori di lavoro a prepararsi a gestire le nuove forme di contrattazione, cercando a livello locale occasioni per riunire ciò che la politica ha diviso.

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10 commenti

  1. Giovanni Scopa

    Egregio Professor Boeri,

    ho letto con molto interesse il suo articolo su una realtà che mi riguarda geograficamente molto da vicino. Condivido la sua preoccupazione per la perdita dell’accesso ai fondi strutturali della Regione Basilicata e il senso d’urgenza nel trovare una soluzione al problema del Mezzogiorno. Tuttavia, temo che legare il salario agli indici del costo della vita regionale possa essere controproducente per la nostra realtà. Credo che la reintroduzione di meccanismi di indicizzazione dei salari, simili alla scala mobile, arrecherebbe danni rilevanti ai salari reali dei lavoratori del Sud, erosi come quelli del Nord dall’inflazione. Naturalmente, i sindacati non starebbero a guardare, le aziende finirebbero prima o poi per accontentarne le richieste, scaricandone i costi sui consumatori con un aumento dei prezzi dei beni finali. E prima o poi, per arginare questa spirale inflazionistica, qualcuno si nasconderà dietro l’Europa per introdurre dolorose politiche restrittive, a tutto svantaggio dell’occupazione al Sud. Non sarebbe meglio indirizzare i soldi dei contribuenti italiani ed europei verso la creazione di infrastrutture che creino un ambiente favorevole allo sviluppo e riducano il gap con il Centro-Nord piuttosto che introdurre misure ulteriormente divisive?

    • La redazione

      Grazie per i suoi commenti. Non propongo di indicizzare i salari al costo della vita locale, ma semplicemente di pubblicare i dati sul costo della vita a livello regionale (che vengono già raccolti dall’Istat) permettendo ai lavoratori e alle loro organizzazioni di meglio valutare il potere d’acquisto dei loro salari in diverse regioni. Poi dovrebbe essere la contrattazione decentrata a tenere conto di queste informazioni, in modalità che potranno essere decise autonomamente, azienda per azienda. Ad esempio, le organizzazioni dei lavoratori di un gruppo che ha sedi in diverse parti d’Italia potranno accordarsi per offrire a tutti i dipendenti la stessa retribuzione a parità di potere d’acquisto. Simili aggiustamenti potrebbero essere praticati anche nel settore pubblico. Il potere d’acquisto dello stipendio di un insegnante a Milano è molto più basso di quello di un insegnante a Reggio Calabria. Perchè non tenerne conto?

      Cordiali saluti

      Tito Boeri

  2. Luigi Cannella

    Finalmente aria nuova in un dibattito davvero stantio, dominato più dalle contrapposte logiche di parte che da una visione «illuminata» della realtà. Ora l’auspicio è che il caso Melfi serva a dare la stura ad un dibattito serio ed approfondito sulle politiche di sviluppo per il Mezzogiorno. Perché, eccezion fatta per il polo metalmeccanico di Melfi (circa 10 mila gli occupati tra Sata ed indotto), il quadro occupazionale della Basilicata e del Mezzogiorno intero non è certo roseo. E, soprattutto, che sia l’occasione per avviare un confronto sereno e scevro dai fondamentalismi sulla contrattazione decentrata.

  3. Anna Giunta

    A mio avviso, la lezione di Melfi è di tutt’altro segno e conduce a valutazioni diverse, da quelle da lei avanzate nell’articolo, sull’efficacia dei contratti di programma.
    Io credo che Melfi insegni piuttosto che:
    a) la produttività in una grande impresa localizzata al Sud è comparabile a quella di uno stabilimento del Centro-Nord. Anzi di più, segna un record in Europa: 1200 vetture prodotte al giorno;
    b) a somiglianza di quanto avviene nelle altre aree più sviluppate del paese, a Melfi si è innescato un processo di divisione del lavoro tra imprese. L’impianto Fiat “fertilizza” attraverso i rapporti di subfornitura (l’indotto, circa 3300 dipendenti) quello che era, fino a 10 anni fa, un immenso “campo verde” in una zona depressa. Si sono messi in moto, grazie alla mano visibile della Fiat (generosamente incentivata, senza dubbio), meccanismi di diffusione delle conoscenze tra imprese e processi di spin off;
    c) si è creato un mercato del lavoro specializzato, laddove prima c’era manodopera non qualificata.
    Questi erano gli obiettivi del contratto di programma: “acquistare” dalla Fiat sviluppo locale, cioè crescita, occupazione, formazione, investimenti, indotto e progresso tecnico. E’ a questi risultati che bisogna guardare per decidere se la politica ha fallito. Mi chiedo allora: non è piuttosto il balzo di produttività del greenfield in questi dieci anni la principale e più importante lezione di Melfi?
    Tanto più che la compressione salariale (e altre condizioni di minore favore per gli operai di Melfi), ovviamente centrale nei disegni di delocalizzazione della Fiat, non costituisce però il principale ingrediente del contratto di programma. E’ piuttosto un altro lo strumento che fa leva sul minor costo del lavoro, si tratta del contratto d’area, e nulla ha a che vedere con l’esperienza di Melfi.
    Saluti cordiali
    Anna Giunta

    • La redazione

      Grazie per il suo acuto commento. Certo che è possibile anche al Sud raggiungere livelli di produttività elevati. Ci mancherebbe. Ci sono anche altri esempi. Ma la ragione per cui gli operai di Melfi hanno accettato in tutti questi anni salari più basi degli altri lavoratori del gruppo FIAT, nonostante la maggiore produttività dello stabilimento lucano, era il fatto che non solo FIAT, ma anche lo Stato avesse pesantemente investito (quasi 2 miliardi di euro) in questo insediamento. Non può essere questo il modo di far sì che la contrattazione tenga conto delle condizioni del mercato del lavoro locale. Lo stesso discorso si applica, a fortiori, ai contratti di programma, dove non c’è neanche la giustificazione per il sostegno ad un insediamento in una impresa che può creare indotto.

      Cordiali saluti

  4. paolo podda

    Come d’abitudine,Prof.Boeri, ho trovato di grande interesse il suo articolo sull’argomento di Melfi.
    Chi scrive abita in Sardegna,terra come di certo sa, non priva di contraddizioni e similitudini con la Lucania. Ho l’impressione,invero, che la politica salariale decentrata, sia assolutamente ovvia e naturale, atteso che prender casa a Milano costa 10 volte più che prenderla a Quartu (la mia città di residenza). Che fare? Meglio pagare il prezzo del solito esodo verso lidi lontani, in presenza di affitti stellari e simili, sebbene con stipendi più alti? Il saldo non sarebbe pari a zero? Soggiungo, non si ignora la iper-abusata e, a un tempo, ignorata, questione del lavoro nero meridionale? Da ultimo, non si mette in conto il bilancio affettivo, minacciato, direi compromesso, da viaggi interminabili spesso alla ricerca di un benessere illusorio, di fatto assente. Mi dica, con la consueta competenza, cosa pensa in merito, non prima di aggiungere la presenza di reti socio-economiche di protezione per chi sceglie di lavorare a Melfi non invocando i salari di Torino. Con stima.

    Paolo Podda

    • La redazione

      In tutti i paesi Ocse esiste una cosidetta “curva dei salari”: nelle regioni ad alta disoccupazione i salari sono più bassi. Da noi no. Più che la mobilità del lavoro e l’emigrazione, la relazione inversa fra salari e disoccupazione incentiva le imprese a investire nelle regioni a più alta disoccupazione. E questo porta progressivamente a ridurre gli squilibri nel mercato del lavoro e, dunque, gli stessi divari salariali. In altre parole, i divari regionali nei salari servono proprio a creare le condizioni per il loro superamento. Imponendo gli stessi salari in tutto il paese, invece si condannano le regioni verso cui affluisce poco capitale a rimanere in condizioni di disoccupazione cronica. Per questo il decentramento della contrattazione è utile. Oltre a essere in parte giustificato, sul piano dell’equità, dai differenziali nel costo della vita, cui faceva riferimento nel suo commento.

      Cordiali saluti

  5. Marco Campedelli

    Egr. prof. Boeri
    Nella parte iniziale del suo articolo lei scrive:
    “… È molto difficile che un’organizzazione sindacale possa interiorizzare retribuzioni diverse per persone che timbrano lo stesso cartellino e sono addette alle stesse mansioni. Ci vorrebbero più sindacati, in forte competizione fra loro, nella stessa azienda. Un incubo.”
    Forse sara’ un incubo, anzi, certamente lo e’, ma purtroppo questo incubo e’ quantomai reale, visto che molti dei lavoratori (di Melfi e non solo, anche di Alitalia ad esempio) sono impiegati con contratti precari, sottopagati, privi di diritti e tutele anche minimi, e con un costo per l’azienda infinitamente minore rispetto ad un lavoratore subordinato tradizionale, pur avendo mansioni simili. Questo spiega
    probabilmente lo scollamento tra i sindacati “tradizionali” ed i
    lavoratori, specialmente tra i piu’ giovani, che non solo non si
    sentono rappresentati dalla triplice, ma addirittura vedono un
    conflitto di interesse tra “stabili” e “precari” che il sindacato
    ora come ora non riesce a sanare. Ricordo infatti che le proteste di Melfi sono nate spontaneamente dalla forza lavoro, e solo in un secondo tempo una categoria sindacale (FIOM-CGIL) ha deciso di intervenire. Saluti, Marco.

    • La redazione

      Mi riferivo a lavoratori con contratti permanenti. I lavoratori con contratti flessibili hanno meno potere contrattuale degli altri. Questo può portarli ad accettare salari più bassi degli altri. Ed è obiettivamente più difficile per loro trovare rappresentanze dei loro interessi.
      Cordiali saluti

  6. Francesco Parini

    Egregio prof.Boeri,
    la lucidità dei suoi articoli conferma,una volta di più,che in Italia ci sono,anche,le persone che pensano.
    La indicizzazione delle retribuzioni a livello regionale,l’introduzione di alcune detrazioni a livello fiscale,sarebbero,a mio giudizio i mezzi per ottenere una effettiva riduzione dei costi sociali e del costo del lavoro.
    La trasmissione striscia la notizia,criticabile per certi aspetti,ha evidenziato la furbizia diffusa tra gli artigiani per spennare,in modo indegno,gli utenti a reddito fisso.
    Introduciamo le detrazioni per determinate spese e per miracolo crescerà la base imponibile.
    Cordiali saluti.

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