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Dalla Cina senza quote

Sono giustificate le misure di salvaguardia a difesa dell’industria tessile-abbigliamento europea dopo la fine del regime di quote sulle importazioni di prodotti cinesi, peraltro programmata da dieci anni? Chi lo sostiene “dimentica” che la Cina non è il solo protagonista in questo mercato. E che aumento dei volumi e caduta dei prezzi dei prodotti importati nella Ue non sono una prova di dumping. Mentre la reazione iniziale dei governanti europei alla proposta cinese di imporre un tributo sulle esportazioni tessili mostra che i nostri leader sono pronti a tassarci pur di proteggere un’industria in declino.

L’industria tessile-abbigliamento dell’Unione europea sembrerebbe sul punto di essere travolta dalla Cina. Politici di molti Stati membri chiedono misure di salvaguardia da imporre al più presto su molti dei prodotti che erano soggetti a quote fino al gennaio 2005. In questa atmosfera infuocata si tende a dimenticare alcuni fatti.

I fatti dimenticati

Il primo è che la quota cinese sulle importazioni complessive di abbigliamento dai paesi (extra Unione Europea) è del 20 per cento: la Cina è dunque un protagonista in questo settore, ma certamente non l’unico.
Un secondo aspetto che si tende a dimenticare è che la fine del regime di quote nel gennaio 2005 era stata decisa dieci anni prima. Si sapeva benissimo che i prodotti soggetti alle quote ora rimosse, erano quelli sui quali la Cina aveva il maggiore vantaggio comparato, proprio perché allora i politici avevano voluto rimandare i problemi più grossi. Fino alla fine del 2004, semplicemente non si è permesso alla Cina di esportarne quantità significative in Europa. Un’impennata delle importazioni dalla Cina di questi prodotti era quindi programmata.
Si può perfino calcolare l’incremento nelle importazioni che avremmo dovuto attenderci. Basta mettere a confronto la dimensione il volume delle quote in vigore fino al 2004 con la fetta di mercato che i produttori cinesi avrebbero conquistato una volta liberati delle restrizioni. L’esperienza di casi precedenti suggerisce che in un libero mercato, le importazioni europee di questi prodotti dovrebbero essere da cinque a dieci volte maggiori rispetto alle magre quote che erano state assegnate alla Cina dieci anni fa (quando l’economia cinese era molto più piccola).

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L’inchiesta e il dumping

La Commissione ha giustificato l’apertura di un’inchiesta per l’eventuale applicazione delle clausole di salvaguardia con dati che mostrano come sia aumentato il volume delle importazioni, per esempio il numero delle t-shirt. Ma poiché i prezzi unitari sono caduti, in valore le importazioni dell’Unione Europea non sono cresciute nella stessa misura. La caduta dei prezzi dopo la scadenza delle quote non è un segno di dumping. Il regime delle quote limitava il numero di t-shirt che si potevano esportare, dunque i cinesi tendevano a esportare nell’Unione Europea gli articoli di maggior valore (e dai profitti maggiori). Una volta eliminate le quote, il mix di prodotti cambia a favore degli articoli di prezzo più basso (e presumibilmente di qualità inferiore). Non sorprende che i prezzi precipitino dopo la cancellazione delle quote: l’Unione europea importa ora prodotti diversi.
Tuttavia, quello che interessa di più all’industria tessile-abbigliamento europea è il valore delle importazioni, perché è il valore delle sue vendite a determinare quante persone possono essere impiegate in questo settore. È chiaro che per i prodotti per i quali le quote sono scadute, è aumentato anche il valore delle importazioni, ma molto meno dell’incremento percentuale dei volumi – di diverse centinaia di punti in alcune specifiche categorie. Tutto considerato, non è sorprendente che i volumi delle importazioni facciano un balzo in avanti quando si eliminano alcune quote su alcuni prodotti, con un ritardo di dieci anni. L’introduzione di clausole di salvaguardia non dovrebbe però basarsi sui dati registrati nei primi mesi del 2005. L’unica giustificazione per introdurre queste misure è la prova di dumping. Questa prova semplicemente finora manca.
Nelle ultime settimane il Governo cinese aveva annunciato l’intenzione di imporre tasse sulle esportazioni di un certo numero di prodotti tessili (ma la proposta è stata poi ritirata di fronte alla minaccia di misure dell’Unione Europea). Alcuni Governi europei hanno accolto questa proposta con grande favore: è il segno del clima che si è creato intorno al tema. Perché una tassa sulle esportazioni cinesi altro non è che una tassa sui consumatori europei.  Sarà interessante seguire nei prossimi mesi i prezzi al consumo per i prodotti tessili. Pare che per ora non siano scesi.
È un’indicazione del fatto che, come spesso avviene, il vero problema è la mancanza di concorrenza qui da noi.

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(1) Per ulteriori dettagli vedi “Trade Adjiustments following the Removal of Textile and Clothing Quotas”, Ceps Latest Publications.

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Sommario 30 maggio 2005

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Imposte, una questione di famiglia

  1. Mario Di Carlo

    Non essendo un economista mi scuso in anticipo per un lessico probabilmente innappropriato. Se il ragionamento sviluppato nell’articolo sull’applicabilità della clausola di salvaguardia solo in presenza di dumping è lineare, mi sembra meno convincente il ragionamento che dovrebbe indurre i produttori europei a non preoccuparsi dell’aumento quantitativo delle importazioni a valore complessivo invariato. Se infatti il consumatore può acquistare un prodotto a minor costo probabilmente dirotterà quanto risparmia su prodotti diversi. Se poi tutto ciò sia economicamente virtuoso è un altra questione.

  2. Giuseppe Gaggero

    Sono perfettamente d’accordo con l’analisi di Daniel Gros. Perché non si riesce a portare nella “prima pagina” dell’informazione televisiva e giornalistica una lettura meno demagogica e “politica” (nel senso peggiore del termine) di questi fatti. Non è forse un bene che milioni di consumatori possano spendere di meno per ottenere prodotti simili a quelli attualmente in commercio. L’ostinazione (finta) a conservare qualche decina di migliaia di posti di lavoro è anacronistica e destinare ad allargare il gap che ci separa dalle economie più vitali ed in grado di produrre ricchezza. Perché i nodi verranno comunque al pettine e non avremo più soldi per comprarci le forbici.
    Giuseppe Gaggero

  3. Pietro Della Casa

    Mi sembra che il dottor Gros ometta dalla Sua analisi un paio di elementi importanti. Il primo è che le produzioni cinesi sono caratterizzate da costi bassissimi soprattutto perché il costo del lavoro in Cina è irrisorio, e ciò a causa del mancato sviluppo sociale di quel paese. Qualcuno parla perciò di “dumping sociale”.
    Il secondo è il fatto che non è la Cina da sola a creare il problema, ma la combinazione Cina più aziende occidentali, che hanno portato un enorme know-how in quel paese azzerando il vantaggio competitivo dell’occidente.
    Personalmente non posso che augurare tutto il bene possibile ai Cinesi, sia per quanto riguarda la loro economia che per quanto riguarda i loro diritti.
    Credo però che quando le grandi trasformazioni socio-economiche sono pilotate solo dalla forza incosciente del mercato e non anche dalla ragione politica, le persone comuni tendano a diventare dei soggetti molto deboli, ed ad essere stritolate dal meccanismo.

    Cordiali saluti

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