Troppi luoghi comuni animano il dibattito sulla globalizzazione. Benessere, democrazia e libertà personale sono variabili che si rinforzano reciprocamente. Per battere disuguaglianza e povertà, allora, di integrazione economica ne serve di più e non di meno. E può essere utile uno sguardo alla percentuale di popolazione mondiale che vive con meno di un dollaro al giorno, anche per capire a che punto siamo con il raggiungimento dei Millennium Goals. E poi una analisi sull’intreccio tra mafia, legalità debole e sviluppo del Mezzogiorno; infine una riflessione sul significato della democrazia, sul suo legame con la natura dell’uomo e della società umana. Quattro letture estive suggerite da Luigi Cavallaro, Jacopo Allegrini, Amy Heyman e Stefano Tasselli.

Quando la legalità è debole, di Luigi Cavallaro

Dati essenziali

Antonio La Spina, Mafia, legalità debole e sviluppo del Mezzogiorno, Il Mulino, 2005, pp. 242, 18,50 euro.

L’opera

“Questo è un libro sulla mafia, ma non soltanto. Diciamo che è un libro su alcuni aspetti della situazione attuale del Mezzogiorno e su alcuni specifici ostacoli che si frappongono al suo sviluppo. Di questi ostacoli, la perturbazione della vita economica, politica e civile attuata dalle organizzazioni criminali di stampo mafioso è uno dei più rilevanti. […] La presenza delle organizzazioni mafiose è tuttavia una faccia della medaglia. L’altra, come già chiaramente comprese Franchetti, ma anche qualcun altro dopo di lui, è la debolezza delle istituzioni pubbliche, e in particolare la loro scarsa credibilità come produttrici e applicatrici di regole di condotta tali da costituire premesse adeguate e affidabili dei calcoli di convenienza degli operatori economici e in genere dei cittadini (in ambiti come il lavoro, il territorio, l’ambiente, l’energia, le infrastrutture, la salute, e così via)”.
È qui il nocciolo delle riflessioni che Antonio La Spina, sociologo dell’università di Palermo, ha raccolto nel volume edito dal Mulino: rispetto allo sviluppo mancato (e dove non mancato, distorto) del Mezzogiorno, mafia e “legalità debole” costituiscono due facce di un unico problema. Un esempio potrà forse aiutare a chiarire in che senso.
Uno dei più universali principi pedagogici consiste nell’essere coerenti verso i bambini. I quali, fin da piccoli, chiedono regole semplici e chiare. Ci possono, certo, essere delle eccezioni e delle deroghe, ma il significato generale del principio deve restare immutato, dal momento che dalla sua costanza il bambino ritrae la propria capacità di orientarsi e prevedere le conseguenze delle proprie azioni, dunque la propria sicurezza. Se gli atteggiamenti dei genitori rispetto alla regola sono cangianti, i bambini diventano insicuri: tutto diventa oggetto di contrattazione, lamentele, suppliche, capricci, ricatti. Le conseguenze sono spesso assai negative, giacché l’impossibilità di prevedere cosa seguirà al loro comportamento espone i bambini a una dipendenza durevole dai genitori, i quali, dal canto loro, non comprendono che la congiunzione dell’indulgenza all’arbitrio ostacola in modo decisivo la possibilità che il bambino interiorizzi delle norme etiche.
Qualcosa del genere accade quando nella collettività si diffonde la previsione che le politiche pubbliche saranno inefficaci o, peggio, connotate da un’applicazione distorta o particolaristica, o magari ritardataria e inaffidabile, perché soggetta a revisioni. In casi del genere, secondo La Spina, le prescrizioni legali non possono razionalmente formare le premesse di calcoli finalizzati all’adozione di decisioni economiche. Ciò, d’altra parte, mette capo a un difficile problema: come si può dar vita a una stabile cooperazione intersoggettiva quando si vive in un sistema contrassegnato da “legalità debole”? Come si investe, come si produce, come si scambia in un sistema in cui non esistono istituzioni efficienti e credibili?
Tradizionalmente, si ritiene che le infrastrutture necessarie per fare impresa siano “beni materiali”: ponti, strade, ferrovie, aeroporti, eccetera. Osservatori più attenti vi aggiungono una burocrazia efficiente. Se però riflettiamo sul fatto che il mercato scaturisce dalla generalizzazione di relazioni di cooperazione fra individui che non si conoscono reciprocamente e che, dunque, possono cooperare l’uno con l’altro solo se si “fidano” l’uno dell’altro anche senza conoscersi, comprendiamo che, per potersi estendere oltre i confini delle relazioni parentali e di vicinato, la cooperazione necessita di un’infrastruttura del tutto “immateriale”: la fiducia, o più precisamente quel tipo di fiducia che i sociologi chiamano “fiducia sistemica” (o “impersonale”) e il codice penale chiama “fede pubblica”.
Ma la fiducia non è qualcosa che cade dal cielo: è appunto il frutto di scelte legislative e consequenziali comportamenti da parte dei pubblici poteri. Invece, proprio su questo versante, il Sud (e in particolare la Sicilia, che nel libro di La Spina gioca da idealtipo del “Mezzogiorno bloccato”) ha fatto registrare i deficit più significativi. Nel Meridione non si è (quasi) mai avuta una struttura amministrativa e burocratica adeguata ai compiti di promozione dello sviluppo economico e civile. Al contrario, le Regioni e gli altri enti locali, come del resto partiti e sindacati, hanno (quasi) sempre agito come generatori di “legalità debole”, nel cosiddetto recepimento delle normative nazionali dettate in settori di competenza legislativa regionale, avvenuto con ritardo, con sostanziali travisamenti della ratio e con la previsione di eccezioni significative quanto ingiustificate. E più in generale, nell’attuazione delle politiche pubbliche, manifestando lentezza burocratica e inefficacia nei controlli e nella sanzione dei comportamenti devianti.

Orizzonti critici

Qui entra in gioco “l’altra faccia della medaglia” di cui si diceva all’inizio. La criminalità di stampo mafioso svolge un’importante funzione di mediazione sociale e di composizione delle controversie nel territorio in cui opera. Anzi, su tale ruolo fonda quel consenso sociale diffuso che è indispensabile per la buona riuscita delle proprie attività criminali. La mafia offre lavoro ai disoccupati, regola le vertenze tra lavoratori e datori di lavoro, dirime le liti tra commercianti e acquirenti, svolge azione di recupero crediti per conto proprio e per conto terzi, mantiene l’ordine attraverso il controllo sulla piccola criminalità, eccetera. Si potrebbe dire che contende allo Stato quella funzione di “protezione” degli interessi e delle transazioni individuali che, in una società moderna, rappresenta la premessa indefettibile per lo stabilirsi di relazioni di cooperazione e di scambio, sia pure nell’unico modo in cui un’istituzione privata può procurare un servizio a chi ne faccia richiesta: vendendolo. E ci riesce talmente bene che Giovanni Falcone, in quel testamento spirituale che è la conversazione con Marcelle Padovani (Cose di Cosa Nostra), ebbe a dire che, essendo in Sicilia la struttura statuale del tutto deficitaria, la mafia aveva saputo riempire questo vuoto a suo vantaggio, ma tutto sommato aveva contribuito a evitare per lungo tempo che la società siciliana sprofondasse nel caos.
Sta qui, allora, il motivo per cui in Sicilia (ma anche in Calabria, Campania e Puglia, seppure con peculiarità di cui qui non si può dire) si è formata una vera e propria “industria della protezione privata“, esercitata da numerose imprese – le varie famiglie mafiose – con cui moltissimi agenti economici e politici hanno da sempre dovuto (ma non di rado anche voluto) entrare in affari. E sta qui, probabilmente, la ragione di quella singolare sottovalutazione che del problema-mafia hanno dato gli imprenditori in un sondaggio promosso alcuni anni fa da Confindustria: molte imprese, infatti, hanno imparato a “convivere con la mafia” prima ancora che qualche ministro le esortasse in tal senso, mettendo a punto opportune strategie al fine di internalizzare i costi della protezione privata e massimizzare comunque i profitti. Del resto, non bisogna nemmeno biasimarle troppo: in una situazione di “legalità debole”, sussistono forti ostacoli al dispiegarsi di un efficace meccanismo concorrenziale e la sopravvivenza delle imprese dipende in misura crescente dalla possibilità di creare intese collusive volte a restringere il mercato e di ottenere aliunde quella garanzia delle transazioni che lo Stato non è in grado di assicurare.

Giudizio del recensore

Questo, in sintesi, pare a me il succo del ragionamento di La Spina, di cui i lettori addentro a queste tematiche riconosceranno facilmente gli ascendenti teorici, da Max Weber a Diego Gambetta. Va aggiunto, peraltro, che l’argomentazione dell’autore non è così esplicita, per la scelta di raccogliere nel volume saggi scritti in epoche e per occasioni differenti, piuttosto che rifonderli ex novo in modo da comporre un tutto organico. D’altra parte, è proprio questa scelta a consentire al lettore un più ampio grado di libertà nell’interpretazione del testo. Chi scrive ne ha fatto l’uso che qui si è proposto; non è l’unico possibile, ma – per la società civile e la società politica meridionali – è certo il meno consolatorio: se davvero il “pizzo” fosse una banale estorsione e non il prezzo di un servizio che i pubblici poteri non sanno offrire altrimenti, ce ne saremmo sbarazzati già da un pezzo.

Perché la globalizzazione funziona, di Jacopo Allegrini

Dati essenziali

Martin Wolf, Why Globalization Works, New Haven and London, Yale University Press, 2004, pag. 396, 25.92 dollari.

Il libro è acquistabile on line su www.amazon.co.uk, www.ibs.it.

Autore

Martin Wolf è chief economics commentator e associate editor del Financial Times. Alterna al giornalismo economico l’insegnamento e la ricerca: è visiting fellow al Nuffield College e special professor all’università di Nottingham. Durante gli anni Settanta ha lavorato come economista alla World Bank in Kenya, Zambia e India. Tra i temi focali della sua attività spiccano il commercio internazionale e l’Unione monetaria europea.

Opera

L’opera rappresenta un esemplare apologo della globalizzazione. Secondo un percorso logico in cinque atti, l’autore ne confuta le critiche e dimostra i vantaggi in maniera incontrovertibile. Fin dall’esordio Wolf manifesta l’intenzione di superare il populismo con il quale troppo spesso la tematica è affrontata, dà una propria una definizione di globalizzazione e spiega chi siano i detrattori più radicali del fenomeno: oltre a organizzazioni non governative e lobby protezionistiche, come agricoltori, l’opposizione può contare su uno schieramento trasversale in continua crescita di neomarxisti, socialisti classici, mercantilisti e anti-liberali di destra.
Nella seconda parte l’autore tratteggia i vantaggi principali di un’economia aperta secondo tre dimensioni: benessere, democrazia e libertà personale. Dopo aver dimostrato che la dinamica attuale è di rinforzo reciproco tra queste variabili, analizza il processo nel suo divenire storico, evidenziandone i confini e i fallimenti. La difficile trasmissione di capitale sociale al mondo in via di sviluppo, il mancato aumento di integrazione economica in molti settori nonostante un progresso sostanziale della tecnologia, dettano le priorità della agenda prossima ventura.
La quarta sezione è dedicata alla confutazione delle critiche antiglobalist. Le inflazionate affermazioni riguardo all’aumentata disuguaglianza mondiale, all’indebolimento dello Stato democratico e alla liberalizzazione smodata nella regolamentazione ambientale e sociale sono smontate con chirurgica lucidità.
Nell’ultima parte, Wolf chiarisce i perché della sua visione ottimistica: la causa primaria dell’ineguaglianza mondiale non è nell’integrazione economica, ma nella frammentazione politica e nella diversa qualità delle istituzioni. La sfida futura è rendere globali e trasmissibili i beni pubblici. Il punto non è che ci sia troppa globalizzazione, ma che ce ne sia troppo poca.

Orizzonti critici

Why globalization works s’inserisce nella traccia lasciata da “In defense of globalization” di Bhagwati, e “Globalization and Its Discontents” di Joseph Stiglitz. Rappresenta un ideale punto di non ritorno per chi si confronta su questo tema: un vero dibattito, secondo l’autore, può scaturire solo dalla coscienza che l’integrazione economica è condizione necessaria, ma non sufficiente per la riduzione dell’ineguaglianza mondiale.
Le argomentazioni mosse dai critici sotto l’usbergo di un apparente idealismo, sono strumentalizzate dalle lobby e dai “nemici della società aperta” per giustificare i propri interessi protezionistici. Solo il crollo dei luoghi comuni e la svelata capziosità di tali argomenti, permette di cogliere che gli insuccessi più rilevanti si sono verificati laddove l’integrazione economica è stata minore. Le pesanti responsabilità che gravano sulle istituzioni internazionali, come World Bank e Imf, soprattutto nella condotta sui mercati finanziari, sono un monito delle vere sfide che si stagliano oltre il populismo e la frammentazione politica del nostro “evoluto” sistema.

Guida alla lettura

Il libro è scritto con chiarezza e segue un filo logico semplice e stringente. Grafici e tabelle supportano le argomentazioni dell’autore, accompagnate da un’esauriente raccolta di note e riferimenti.

Link utili

Recensione Foreign Affairs

http://news.ft.com/comment/columnists/martinwolf: sito di Martin Wolf su Financial Times con l’archivio dei suoi editoriali.

www.imf.org/external/np/tr/2004/tr040922a.htm: trascrizione di un forum all’Imf sul libro cui hanno partecipato lo stesso Wolf, Rajan e Forbes.

Le ragioni del più forte, di Stefano Tasselli

Dati essenziali

Jacques Derrida, Stati canaglia (Voyous), Raffaello Cortina Editore, 2003, pgg. 224, euro 19.

Autore

Jacques Derrida (1930-2004), padre del decostruzionismo, è considerato uno dei più grandi filosofi francesi del Novecento. Insieme a Heidegger e Husserl ha rivisitato in chiave contemporanea le categorie della filosofia occidentale. Ha insegnato negli Stati Uniti a Yale ed Irvine. Dal 1983 è stato Directeur d’Etudes presso l’Ecole des Hautes Etudes en Sciences Sociales di Parigi.

Opera

Introdotta da una prefazione dal titolo di ovidiana memoria, “Veni!”, l’opera è la trascrizione integrale di due conferenze tenute dal filosofo francese nel corso del 2002, accomunate dall’esigenza di una doppia riflessione, storica e al contempo semantica, sul significato della democrazia, sul suo legame con la natura dell’uomo e della società umana, e sul suo effettivo compimento oggi e nel corso dei secoli.La prima conferenza, “La ragione del più forte”, è stata tenuta a Cerisy nel luglio 2002 e riprende già dal titolo la frase di La Fontaine “La raison du plus fort est toujours la meilleure“, tratta dalla celebre favola “Il lupo e l’agnello”. Si articola infatti in dieci sviluppi tematici, in cui l’argomento della democrazia come “forza debole” scivola disinvoltamente nell’amara constatazione della reale natura della forza, mai dimenticata, come vis normativa ipsistica ed auto-giustificante.
Questi i dieci capitoli di cui si compone: 1. La ruota libera; 2. Licenza e libertà: lo spregiudicato; 3. L’altro della democrazia, il “di volta in volta”: alternativa ed alternanza; 4. Padronanza e metrica; 5. Libertà, uguaglianza, fraternità, ovvero come non far motto; 6. La canaglia che sono (seguo); 7. L’ultimo degli stati canaglia: la “democrazia a venire”, apertura a doppio giro; 9. Più stati canaglia; 10. Invio.
La seconda conferenza “Il mondo dei lumi a venire (Eccezione, calcolo e sovranità)” è stata tenuta a Nizza nell’agosto 2002 e si suddivide in due paragrafi: 1. Teleologia e architettonica: la neutralizzazione dell’evento; 2. Arrivare alle fini dello Stato (e della guerra e della guerra mondiale).

Guida alla lettura

Derrida usa un linguaggio proprio e complesso: ipertestuale, polisemantico, innovativo, volto a ri-stabilire nessi nuovi tra parola e significato. L’opera ha il pregio della modularità: la struttura a sviluppi tematici, o capitoli, consente una lettura selezionata, che pur non distoglie dal quadro d’insieme del pensiero dell’autore.

Orizzonti critici

“Ecquis adest?” et “adest” responderat Echo….il richiamo di Echo, sospeso nella sua eleganza aerea a ritornare solo la coda dell’informazione, “adest”, preannuncia il significato della democrazia in Derrida, la sua circolarità asimmetrica, e la figura che la incarna: la ruota.
Ruota come ideogramma stilizzato dell’antico strumento di tortura, azione ossia della torsione, di un’indagine che si inviluppa e si annoda circolarmente, all’interno, a inquisire la ragione; ma ruota anche come movimento regolare e rotondo, mezzo principe del progresso, quiete perfetta del cerchio, rassicurante inquietudine, perché asimmetrica, dell’ellisse.
L’intero percorso di Derrida cammina intorno a questi due fuochi: la circolarità del movimento, ora compiuto e perfetto nella sua simbologia divina e razionale, ora asimmetrico, ellittico, ruota che gira ma che non torna al punto di origine, motore primo aristotelicamente nato da sé, con l’uomo, ma di un moto inconoscibile, dalla meta auto-nomica, a noi ignota, e segretamente terribile.
Alla prima visione, quella di un universo razionale con la democrazia a faro, appartengono Kant e De Tocqueville: il secondo utilizza il lessico religioso della luce e del cosmo, dicendo che il “dogma” della sovranità del popolo è giunto “alla luce del sole” dopo essere rimato a lungo “nascosto nell’oscurità” e che “il popolo regna nel mondo politico americano come Iddio nell’universo. Esso è la causa e il fine di ogni cosa: tutto esce da lui e tutto finisce in lui.”
Per Kant l’Idea regolatrice ci sospinge all’approssimazione del tendere ad una ragione suprema, all’universalità dei legami razionali tra l’uomo ed il cosmo, a patto di un “come se”, l’als ob kantiano per cui la certezza tocquevillana diventa ipotesi, e quindi speranza.
Dal tratto foscoliano dell’illusione come ragione, alle tarde reminiscenze romane di un ordine, sia pure combinatorio, della Rota Virgili, la democrazia prevale nella circolarità per l’indefinitezza della sua collocazione, che pur tiene in sé una pretesa panteistica, per l’abilità della sua fuga camaleontica, e sempre circolare: la ruota variopinta del pavone, richiamo erotico e a un tempo ingannatorio, arlecchinesco mantello di carnevalesca memoria, riassume l’effimera costanza del capovolgimento democratico, inevitabile, verso la natura (subdola) della forza: canagliacrazia e libertinaggio, la doppia uguaglianza apparente (di potere e di numero), l’incomunicabilità di diritto e giustizia, dipanano il suo volto segreto: la capacità della democrazia di insinuarsi ovunque e di confondersi con tutto, in una difesa autoimmunitaria che trabocca nell’ipocrisia del suo auto-riconoscersi, auto-proclamarsi ed auto-giustificarsi tramite i suoi nessi istituzionali.
È per questo che democrazia è, per Derrida, nient’altro che promessa, in un “a venire” bellissimo perché infinito, e non degli uomini.

Link utili e bibliografia

Per quanto riguarda l’autore e le scuole in cui ha insegnato:

www.ehess.fr (Ecole des Hautes Etudes en Sciences Sociales, Paris)

www.yale.edu/philos (Yale University, dipartimento di filosofia)

www.humanities.uci.edu/philosophy (Irvine University, California, dipartimento di filosofia)

Per quanto riguarda le opere citate nella recensione:

A. De Tocqueville, De la démocratie en Amérique, Garnier-Flammarion, Paris, 1981.

I. Kant, “Critica della Ragione pura”, Adelphi, Milano, 1999.

Le sfide per lo sviluppo, di Amy Heyman

Dati essenziali

Banca Mondiale, World Development Indicators 2005

Opera

The World Development Indicators è l’elaborazione annuale dei dati sullo sviluppo preparata dalla Banca Mondiale. L’edizione 2005, la nona, include approssimativamente ottocento indicatori in quasi cento tabelle, organizzati in sei sessioni: World View, People, Environment, Economy, States and Markets, e Global Links. Le tabelle includono dati per paesi in via di sviluppo e per paesi ricchi, come anche per gruppi regionali ed economici. È anche disponibile il database del World Development Indicators aggiornato, che contiene più di 550 indicatori per il periodo dal 1960 al 2003.

Orizzonti critici

The World Development Indicators mostra in modo analitico e completo i progressi nel perseguire i Millennium Development Goals, approvati dai 189 governi che nel 2000 sottoscrissero la United Nations Millennium Declaration.
La percentuale di persone che vivono in estrema povertà (con meno di un dollaro al giorno) in paesi in via di sviluppo si è quasi dimezzata fra il 1981 e il 2001 scendendo dal 40 per cento al 21 per cento dell’intera popolazione mondiale. La rapida crescita economica in Asia dell’Est e del Sud ha fatto sì che, solo in queste regioni, oltre cinquecento milioni di persone uscissero dallo stato di povertà. In Cina tali cambiamenti sono stati radicali: la percentuale di persone che vivevano con meno di un dollaro al giorno è scesa da 63,8 per cento a 16,6 percento, con un calo pari a circa 422 milioni di persone. Al contrario, in molti paesi dell’Africa, dell’America Latina e nell’area euro-asiatica, la percentuale di poveri è addirittura cresciuta, o diminuita di poco.
Questo trend disuguale suscita preoccupazione. Il primo dei Millennium Development Goals prevedeva di dimezzare entro il 2015 la percentuale di poveri nel mondo. Si teme ora che alcuni paesi possano non raggiungerlo.
Solo due regioni, l’America Latina e Caraibica e l’area euro-asiatica, sembrano essere in grado di centrare il quarto obiettivo: ridurre la mortalità al di sotto dei cinque anni d’età entro il 2015.
La sfida più difficile si gioca nell’Africa sub-sahariana, dove il tasso di mortalità dei bambini è sceso solo marginalmente da 187 morti su mille nel 1990 a 171 su mille nel 2003 (ultimo anno di dati disponibili). L’obiettivo per l’Africa sub-sahariana è di ridurre questo tasso a 62 morti su mille.
Altri obiettivi includono l’uguaglianza di genere, l’educazione primaria per tutti, il miglioramento della salute delle puerpere, debellare le malattie quali Hiv/Aids e malaria. I dati dimostrano che, mentre alcuni paesi non riusciranno a raggiungere tutti questi obiettivi, molti altri stanno facendo notevoli progressi. La crescita economica nei paesi in via di sviluppo, che ha raggiunto il 6,6 per cento nel 2004, dà speranze. Il commercio in questi paesi (misurato come la somma di importazioni più esportazioni) è cresciuto dell’11 per cento, cioè quasi il doppio del 6 per cento della crescita globale. La continua espansione della Cina sul mercati mondiali ha trainato il commercio nell’Asia dell’Est dal 47 per cento del prodotto interno lordo nel 1990 al 71 per cento del 2003.

Guida alla lettura

La pubblicazione di quest’anno presenta alcuni nuovi indicatori. I dati sull’investment climate provengono dall’Investment Climate Surveys della Banca Mondiale e riguardano oltre 26mila aziende in cinquantatre paesi in via di sviluppo per il periodo 2001-2004. In più, sono inclusi nuovi dati sulla migrazione: net migration, migration stock, rifugiati, rimesse. I dati finanziari governativi rivisti e aggiornati si basano sul nuovo manuale Government Finance Statistics 2001.

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