Il sistema finanziario e industriale italiano è al centro di un importante sforzo riformatore, attraverso la riforma del diritto fallimentare, del risparmio, e del Codice Preda. Dalla crisi asiatica degli anni Novanta possono venire interessanti insegnamenti. Intanto che si tratta di questioni interdipendenti. Poi che la legislazione fallimentare deve riservare ai creditori poteri direttivi nella procedura. Mentre va limitato l’interventismo delle autorità governative nelle crisi d’impresa. Ma il punto decisivo è la governance bancaria.

Le istituzioni del nostro sistema finanziario e industriale sono al centro di un importante sforzo riformatore: il Consiglio dei ministri ha approvato il progetto di decreto legislativo per la riforma del diritto fallimentare, mentre la Commissione Preda sta continuando i propri lavori sulla revisione del codice di corporate governance e infine, la riforma del risparmio continua il suo iter faticoso in Parlamento. L’esempio della crisi asiatica degli anni Novanta mostra per altro come i vari fronti aperti di riforma siano strettamente interdipendenti, e che miglioramenti sensibili dell’efficienza del nostro sistema industriale e finanziario potranno venire soltanto una volta che tutti questi temi avranno trovato una risposta.

Le riforme dell’Asia

Le iniziative assunte nei vari paesi asiatici per rispondere alla crisi creditizia che ha colpito la regione negli anni Novanta sono state di due tipi: di breve periodo, volte a prevenire una crisi sistemica, e di lungo periodo, volte a introdurre incentivi per i creditori a sorvegliare l’operato dei debitori. In realtà, gli interventi del primo tipo, concretizzatisi in operazioni di “salvataggio” nella maggior parte dei casi, hanno avuto l’effetto di ostacolare un risanamento strutturale del rapporto tra debitori e creditori, di fatto rinviando i problemi. Spesso le autorità di governo si sono infatti limitate a finanziare il condono del debito o la mera dilazione delle scadenze, disincentivando i creditori dall’esercitare una sorveglianza più attenta della loro clientela. Si sono così in parte vanificate le potenzialità delle riforme del diritto fallimentare, incentrate in primo luogo sull’attribuzione ai creditori di poteri direttivi nel fallimento.
Il caso italiano può dunque ricavarne un insegnamento: un sistema fallimentare efficiente presuppone che i creditori non siano soltanto nelle condizioni di potere esercitare il loro ruolo di sorveglianza sui debitori, ma che siano anche disposti a farlo veramente. Il primo aspetto chiama in causa la riforma del diritto fallimentare. Il secondo rivela l’importanza di un efficiente governo societario dei creditori stessi.

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Legislazione fallimentare orientata al mercato ed efficienza della giustizia civile

L’esperienza dei paesi asiatici nella ristrutturazione del portafoglio crediti delle loro istituzioni finanziarie conferma l’importanza di porre in relazione analisi teoriche talvolta slegate tra di loro, segnatamente le riflessioni svolte in materia di procedure fallimentari, efficienza della giustizia e corporate governance. Ne emerge, in primo luogo, la convinzione che la legislazione fallimentare debba essere orientata al mercato, debba cioè riservare ai creditori poteri direttivi nella procedura. Ciò a prescindere dal tipo di procedure che si vogliano adottare, siano queste procedure di liquidazione dell’impresa insolvente o di ristrutturazione finanziaria, volte a favorire il recupero di imprese in difficoltà. Sotto questo profilo, il confronto con i paesi asiatici appare particolarmente severo per il nostro paese, che rimane uno dei pochi al mondo a non garantire poteri direttivi ai creditori.
Ma una riforma del solo diritto fallimentare può non essere sufficiente. Un’altra condizione necessaria è rappresentata dall’efficienza della giustizia, vale a dire dalla garanzia che le procedure fallimentari (e i processi civili che spesso le accompagnano) si svolgano in tempi ragionevoli nel rispetto dei diritti delle parti interessate.
La presenza di queste prime due condizioni conferisce ai creditori gli strumenti per sorvegliare l’operato delle imprese debitrici al fine di prevenirne le difficoltà finanziarie nonché, se queste si manifestano, di poterle affrontare nella maniera più efficiente. I problemi della giustizia civile in Italia riguardano perciò direttamente anche il nostro diritto fallimentare.

Limitare l’interventismo delle autorità governative nelle crisi d’impresa

Un altro punto di interesse riguarda il mancato utilizzo delle procedure fallimentari in Asia, spesso dovuto alla circostanza che la gestione dell’insolvenza viene assunta direttamente dalle autorità governative, le quali impongono (e in parte finanziano) soluzioni al di fuori delle procedure.
Nel nostro paese, l’intervento delle autorità governative avviene all’interno delle procedure. (1) Ciò contribuisce a spiegare, almeno in parte, perché le spinte a riformare le procedure fallimentari in un senso compatibile con le esigenze di mercato siano meno forti che nei paesi asiatici. (2)
Tuttavia, la crisi asiatica insegna che, anche e soprattutto quando la gestione dell’insolvenza viene assunta dalle autorità governative, il problema resta sempre di dare una risposta ai creditori. L’intervento pubblico si risolve invariabilmente nell’alterare i termini del rapporto tra debitori e creditori, imponendo a questi ultimi ulteriori costi oppure finanziandone la cancellazione dei debiti, o ancora con una combinazione delle prime due misure. Sono interventi ispirati alla volontà delle pubbliche autorità di perseguire disegni di politica industriale. Hanno avuto un effetto gravemente depressivo sull’efficienza delle imprese e sulla crescita economica di questi paesi.

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Importanza della governance bancaria

Dal confronto tra i casi del Giappone e della Corea, emerge infine la necessità che i creditori siano interessati a esercitare il loro ruolo di sorveglianza sui propri debitori, e questo a sua volta richiede che il loro processo decisionale risponda a moderni criteri di corporate governance.
In ultima analisi, il fattore decisivo sembra essere il governo societario delle istituzioni creditizie, gli intermediari in grado di prevenire le crisi anche in paesi caratterizzati da una scarsa efficienza del diritto fallimentare. È infatti nella governance bancaria che i temi precedenti si ritrovano: il perseguimento di politiche industriali presuppone inevitabilmente l’esercizio da parte delle pubbliche autorità di un’influenza sul processo decisionale delle istituzioni creditizie; in via diretta, nei confronti di intermediari sotto il controllo dell’azionista pubblico; in via indiretta, attraverso vari processi di “moral suasion”.

Per saperne di più

Paolo Santella, “Diritto fallimentare, corporate governance e attivismo dei creditori: riflessioni dall’esperienza dei paesi asiatici”, Bancaria, dicembre 2004.


* Banca d’Italia e Commissione europea. Le opinioni qui espresse sono esclusiva responsabilità dell’autore e non impegnano in alcun modo la Banca d’Italia o la Commissione europea.

(1) Ci riferiamo qui alla legge 18 febbraio 2004, n. 39 sulla ristrutturazione industriale di grandi imprese in stato di insolvenza, la quale rafforza i già ampi poteri governativi nella gestione dell’insolvenza delle grandi imprese italiane previsti dalla “Legge Prodi” del 1999.

(2) Ne sono testimonianza le difficoltà incontrate dalla Commissione Trevisanato nel delineare una proposta univoca di riforma “compatibile con il mercato” alla presente legislazione fallimentare.

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