La normativa sulla crisi di impresa fa sì che i costi dell’accesso al credito e il livello del premio di rischio siano più alti in Italia rispetto agli altri Paesi Ue e agli Stati Uniti. Sul primo pesa la lunghezza dei tempi delle procedure e la percentuale minima di recupero dei crediti. Sul secondo, regole molto restrittive che non danno all’imprenditore strumenti per il rilancio dell’azienda, ma solo la possibilità di rinegoziare le scadenze. E una responsabilità patrimoniale che sopravvive al fallimento.

La normativa italiana sul fallimento e sulla crisi d’impresa (1), in vigore dal 1942, è causa di disincentivi per la crescita dimensionale delle aziende, oltre a produrre altri rilevanti e più evidenti effetti. Infatti, questo insieme di regole influenza alcune variabili importanti nelle scelte d’investimento delle imprese.
In particolare, da un lato, incide sul livello del costo, e anche della pura disponibilità, del credito bancario, dall’altro, su quello del costo dell’insuccesso del progetto legato all’investimento (ossia sul livello del premio di rischio).
Se le regole sulla crisi d’impresa elevano entrambi, ferme restando tutte le altre variabili in gioco, è necessario che i nuovi investimenti garantiscano livelli di profitto più alti per essere convenienti e intrapresi.

L’influenza su costo e accesso al credito

La letteratura economica è ricca di contributi in cui si verifica analiticamente ed empiricamente la relazione tra limitazioni nella concessione del credito – razionamento e alti tassi di interesse – e qualità della normativa e dell’enforcement giudiziario sui quali può contare il creditore nel recupero di una somma prestata.
Anche se la scarsa disponibilità e omogeneità dei dati impongono cautela, emerge che l’Italia ha tempi di chiusura delle procedure fallimentari di gran lunga più lunghi degli altri Paesi UE, e degli Stati Uniti, e percentuali di recupero dei crediti minime (la metà, o anche meno, rispetto a Regno Unito, Svezia e Stati Uniti).
È l’efficienza generale della normativa la vera garanzia del creditore, e questa è il risultato del bilanciamento delle molte regole particolari che interessano le procedure concorsuali. Due però appaiono avere particolare rilievo: in caso di fallimento, l’ordine di priorità stabilito per la soddisfazione dei creditori al termine della liquidazione. E nel caso delle procedure di recupero, il conferire al creditore la possibilità di attivare la procedura qualora si avveda dell’imminenza di una crisi.
Su questi due punti esiste, peraltro, una notevole disomogeneità nei diversi ordinamenti. I Paesi che almeno sulla carta assicurano una maggiore tutela ai creditori garantiti sono Belgio, Finlandia, Grecia, Portogallo, Regno Unito e Stati Uniti. Italia e Francia sono quelli che offrono il grado di tutela più basso.
In Italia, infatti, solo l’impresa – e non anche i creditori – è legittimata ad avviare la procedura di recupero. Mentre, in caso di liquidazione, la normativa prevede che nella soddisfazione dei crediti precedenza assoluta vada data alle spese legate alla procedura e al compenso del curatore, solo successivamente verranno soddisfatti i creditori garantiti, seguiti da quelli chirografari. Le implicazioni di questa disciplina non sono di poco conto: negli ultimi anni, mentre la somma delle spese di procedura e di retribuzione del curatore è stata di una proporzione di circa 4 a 100 con il passivo dei creditori, il peso in termini di distrazione dell’attivo è stato in media del 22 per cento circa.

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L’influenza sul livello del premio di rischio

I costi sopportati dall’imprenditore in caso di crisi dell’azienda possono variare molto a seconda dell’ambiente normativo in cui ci si trova a operare. Anche per questo aspetto, sono più le combinazioni di regole che le singole norme a contare. Tuttavia, nel caso delle procedure di recupero dell’impresa, hanno un’importanza particolare le disposizioni che consentono, o meno, di rinegoziare i debiti con i creditori, permettendo al debitore di rimanere alla guida dell’impresa. Le regole adottate dagli Stati Uniti e dai Paesi Ue sono molto eterogenee sia rispetto allo spettro di possibilità che viene offerto all’impresa, sia rispetto all’autonomia di gestione che viene concessa all’imprenditore e/o al management.
Mentre in Italia al debitore è concessa soltanto una revisione delle scadenze di pagamento e, in alcuni casi, dell’importo dovuto (peraltro subendo la condizione di gestire l’impresa sotto la supervisione di un curatore nominato dal tribunale), altri ordinamenti propongono discipline assai meno restrittive e offrono all’impresa in crisi una gamma di strumenti molto più vasta. Tra i vari modelli, è in particolare quello statunitense il più efficace nel contenere il rischio d’impresa. Il “Chapter 11” della legge fallimentare (antesignano e ispiratore delle scelte normative adottate da gran parte dei Paesi Ue negli ultimi quindici anni) favorisce gli accordi tra creditori e debitore, lascia immutato e di norma senza la supervisione di un curatore il management, permette la rinegoziazione dei debiti sia per l’importo che per il contenuto, fino a consentire anche la conversione del debito in capitale di rischio da riallocare tra i creditori per dare modo all’impresa di ripartire alleggerita di tutti, o di buona parte, dei suoi debiti.

La responsabilità patrimoniale

A influenzare i costi del rischio d’impresa sono anche le regole in materia di liquidazione e la responsabilità patrimoniale per quei debiti che restino non soddisfatti una volta chiuso il fallimento. Nella normativa italiana vi è un rilevante discrimine tra fallimento di una società di capitali e fallimento di un imprenditore individuale, o di una società di persone. Mentre nel caso della società di capitali, il problema della sopravvivenza dei debiti generalmente non si pone perché è l’impresa stessa che di norma, o di fatto, si estingue al termine della procedura, nel caso di imprenditore individuale o di società di persone, la responsabilità per i debiti sopravvive e resta a erodere eventuali guadagni futuri dell’imprenditore che ha fallito. Poiché questa tipologia di aziende è tipicamente di piccole dimensioni, l’effetto di scoraggiamento sui nuovi investimenti finisce per essere più forte sulle piccole imprese che sulle grandi, di norma organizzate come società di capitali.
In altri Paesi, invece, con la chiusura della procedura di liquidazione viene meno anche l’esigibilità dei crediti che siano rimasti insoddisfatti. Così avviene in Austria, in Belgio, in Francia, in Germania, in Spagna, in Regno Unito e negli Stati Uniti dove nell’affrontare un investimento, l’imprenditore sa che se le cose vanno male, potrà sempre rincominciare daccapo, con una nuova impresa, senza che eventuali futuri guadagni siano assorbiti dal pagamento di vecchi debiti. E dunque in questi Paesi le imprese affrontano rischi più contenuti e hanno quindi una maggiore propensione a fare nuovi investimenti e a crescere..
Infine, l’Italia ha una delle discipline che più disincentivano rischi e investimenti anche rispetto alle sanzioni personali. Infatti, se non ottiene una riabilitazione attraverso un procedimento giudiziario, l’imprenditore fallito è iscritto in un apposito registro, con rilevanti conseguenze, come ad esempio la perdita del diritto di voto e il divieto di esercitare alcune professioni. In molti Paesi UE (Belgio, Danimarca, Finlandia, Francia, Germania, Regno Unito, Svezia) e negli Stati Uniti, invece, all’imprenditore fallito o al management, per le società di capitali, vengono imposte sanzioni solo al ricorrere di illeciti penali o di serie scorrettezze professionali.

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(1) Anche se con modalità assai diverse da ordinamento a ordinamento, all’insorgere della crisi dell’impresa possono aprirsi due diverse tipologie di procedura, definite rispettivamente “di liquidazione” e “di recupero” dell’impresa. A differenza delle procedure di liquidazione (alle quali appartiene, per il caso italiano, la procedura di fallimento) che sono volte appunto alla liquidazione coattiva dell’impresa per la soddisfazione dei creditori, quelle di recupero (delle quali fanno parte, per il caso italiano, il concordato preventivo e l’amministrazione controllata) sono concepite per dare all’impresa un periodo di respiro al fine di risolvere, se temporanei, i suoi problemi di liquidità, oppure, se necessario, per porre in essere una ristrutturazione dell’azienda, o, infine, ove consentito, una rinegoziazione delle obbligazioni con i creditori senza necessariamente liquidare, neppure parzialmente, il patrimonio.

 

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