Cosa dobbiamo aspettarci dall’eventuale approvazione del compromesso sulla direttiva servizi? Avremo un’apertura, seguita in alcuni paesi da nuovi freni alla concorrenza. Molte disposizioni saranno annullate dalla Corte di giustizia. Ma lo shock concorrenziale sarà reale e duraturo, anche se minore rispetto alla Bolkestein. E’ una soluzione equilibrata. Che soddisferà chi temeva l’adozione indiscriminata della nozione di paese d’origine. Piacerà meno invece ai contrari all’idea stessa di estendere il principio della concorrenza al settore dei servizi.

Nella scorsa primavera il progetto di legge quadro sull’organizzazione del mercato europeo dei sevizi, conosciuto sotto il nome di direttiva Bolkestein, ha sollevato in Francia una fiera opposizione.
Adottato senza grande dibattito dalla Commissione europea (non si trattava forse di perseguire la costruzione del mercato unico?), il progetto faceva emergere crudamente i timori suscitati dall’intensificazione della concorrenza, in un’Unione con 25 membri. Coloro che si accingevano a fare campagna elettorale contro la costituzione europea proclamarono che la direttiva era l’emblema di un’Europa senza regole, in cui la concorrenza avrebbe inevitabilmente affossato le norme sociali. I dirigenti politici di destra e di sinistra che, per contro, si apprestavano a lottare a favore dell’approvazione della Costituzione, presero le distanze dalla direttiva, affermando che non coincideva con la loro concezione di Unione. Nel marzo 2005, infine, il Consiglio dei capi di Stato la accantonò, nella speranza di rassicurare i francesi. Il resto è noto.

I tre punti in discussione

Un anno più tardi, dopo un lungo lavoro parlamentare, la direttiva è di nuovo in ballo. Reca significativi emendamenti, frutto di compromessi tra Ppe e Pse, ma persegue sempre lo stesso obiettivo: organizzare e rendere sicura l’apertura di un mercato, ancor oggi frammentato da una miriade di regolamenti internazionali, onde promuovere la concorrenza in seno ai 25.
Fin dall’inizio il dibattito sulla direttiva servizi ha visto intersecarsi litigi tecnici con compromessi politici. La discussione di fondo verte principalmente su tre questioni. Bisogna aprire il mercato dei servizi alla concorrenza? Su quali basi organizzare la competizione tra prestatori, appartenenti a paesi con livelli di sviluppo assai differenziati? L’unificazione del diritto si fonda sul principio del paese d’origine? Cerchiamo di rispondere a questi tre interrogativi.

Gli obiettivi

Il settore dei servizi, protetto per lungo tempo dalla concorrenza internazionale, è spesso ancor oggi considerato un rifugio. Nella distribuzione o nelle banche non sono i produttori cinesi a dettare il prezzo, e la pressione per ridurre i costi è meno forte che nell’industria. Intensificare la concorrenza intraeuropea significa intraprendere, anche in questo settore, la corsa verso la produttività e il profitto. È opportuno procedere in questa direzione?
La risposta è nei numeri. Da dieci anni a questa parte la produttività del lavoro è nettamente diminuita in Europa (di circa un punto all’anno), mentre negli Stati Uniti è aumentata, proprio di un punto all’anno. Ciò ha creato un netto divario di crescita tra i due continenti. E la forbice si è allargata proprio nel settore dei servizi.
È perfettamente legittimo considerare positiva tale evoluzione. L’obiettivo della politica economica non è certo quello di massimizzare la crescita, bensì il benessere, il che può implicare scelte sociali non-produttive. Tuttavia, nei prossimi decenni l’aumento della produttività dovrà finanziare la crescita del potere d’acquisto e l’aumento degli oneri delle pensioni. Restare inchiodati sui livelli attuali significa quindi non solo accettare che il nostro reddito pro-capite sia inferiore a quello degli Stati Uniti; significa anche rassegnarsi a una crescita quasi nulla del nostro potere d’acquisto.
La concorrenza internazionale non è il solo o il più importante strumento per incrementare la produttività nei servizi. In molti settori produrrebbe lo stesso effetto l’eventuale intensificazione della concorrenza interna (per esempio, una modifica delle regole sugli insediamenti commerciali).
Gli studi di Marc Melitz di Harvard ci hanno però detto che l’apertura verso l’esterno è una macchina di produttività: quando vengono soppresse le barriere agli scambi le aziende più produttive e più innovative si rafforzano, le meno innovative e le meno produttive spariscono. Mantenere sotto protezione un settore che potrebbe invece essere stimolato dall’integrazione del mercato significa privarsi di uno strumento importante, capace di far ripartire la crescita europea.
Non è quindi in nome di un principio astratto che l’Europa necessita di una legge-quadro sui servizi: la costituzione di un mercato unico sarebbe foriera di crescita anche in questo settore.

Le condizioni della concorrenza

Nello scambio dei beni ci siamo abituati al fatto che il mercato internazionale metta in comunicazione paesi con livelli di sviluppo assai differenziati. E consideriamo accettabile, o perlomeno inevitabile, che un operaio ungherese costi, e quindi guadagni, circa un quarto del suo omologo francese. In effetti, da una parte la produttività del lavoro è bassa più della metà in Ungheria rispetto alla Francia. Dall’altra, la qualità e la notorietà dei prodotti francesi permettono che questi siano venduti a un prezzo più elevato.
In Europa centrale, dove il livello di formazione della mano d’opera è molto elevato, queste differenze non derivano solo dalle caratteristiche dei lavoratori. Sono gli impianti, l’organizzazione delle imprese, le infrastrutture che, per lo più, limitano la produttività del lavoro. È il ritardo nell’innovazione o l’assenza di marchi conosciuti che impediscono ai produttori di valorizzare i loro prodotti negli scambi.
Queste differenze non riguardano d’altronde tutti i lavoratori: gli operai cechi della Volkswagen producono tanto valore quanto quelli di Wolfsburg. Ma, anche in questo caso, consideriamo auspicabile che le remunerazioni di una multinazionale non superino troppo quelle delle imprese locali. Questo è ciò che ci sembra più giusto (in virtù del principio ” a lavoro uguale, uguale salario”) e più opportuno, onde attirare capitali e promuovere lo sviluppo.
Trasferiamo questo ragionamento al settore dei servizi. Non cambia niente…a parte che bisogna trasferire il lavoratore perché presti servizio. In questo modo entrano in diretto contatto due mercati del lavoro. Quali norme applicare? Quelle del paese d’origine o quelle del paese di destinazione?
Tutto dipende dal mercato del lavoro a cui appartiene il lavoratore. C’è il caso dell’immigrato residente che appartiene totalmente al mercato del lavoro del paese di accoglienza. Non vi sarebbe motivo per trattarlo in maniera diversa dagli altri salariati. Ma c’è anche il caso di colui che lavora all’estero in trasferta e che dipende completamente dal mercato del suo paese d’origine, per cui sarebbe assurdo indicizzare la sua remunerazione o le sue condizioni di lavoro a quelle del paese in cui va a operare. Tra questi estremi ci sono molte situazioni intermedie: ma la legislazione deve necessariamente tracciare una frontiera, forzatamente arbitraria. È ciò che ha fatto la direttiva del 1996 sui lavoratori in trasferta, secondo la quale, al di là delle missioni di brevissima durata, si applica la normativa sociale del paese di accoglienza.
Questa distinzione si basa su una preoccupazione di equità – sarebbe forse possibile che due salariati, che effettuano lo stesso lavoro nello stesso posto, dipendano da regolamenti sociali diversi? Ma ha la sua ragion d’essere anche sotto il profilo economico. L’azienda che opera in un paese avanzato ha in questo modo accesso a tutto il sistema di produttività del paese stesso. In contropartita è logico che essa applichi le sue norme sociali.
In conclusione, l’applicazione di questi principi è in un certo qual modo un rompicapo. Il caso degli operai lettoni in Svezia, con l’azienda che non si riteneva obbligata da convenzioni collettive non previste dai contratti, ne è l’esempio probante. Casi di questo tipo si moltiplicheranno, senza alcun dubbio. La legislazione deve pertanto essere il più precisa possibile.

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I princìpi

In questo contesto su che basi organizzare la concorrenza? Dalle sue origini il diritto comunitario riposa su un principio di non-discriminazione, che vieta a uno Stato di ostacolare l’offerta di un servizio, per il solo motivo che l’azienda prestataria provenga da un altro paese. Questo in teoria.
In pratica, però, gli Stati hanno trovato mille strumenti per ostacolare la concorrenza, imponendo obblighi, come la registrazione o l’apertura di una sede nel paese. Queste disposizioni vengono regolarmente annullate dalla Corte di giustizia, caso per caso. È per questo motivo che la Commissione europea aveva proposto un testo generale, destinato a eliminare in un colpo solo tutti gli intralci che la Corte doveva annullare uno per uno. Pensava di risolvere il problema prevedendo che ogni azienda, già stabilita in uno qualsiasi dei 25 paesi membri, avrebbe ipso facto potuto prestare i suoi servizi negli altri 24 paesi: è quel che viene definito principio del paese d’origine.
Vi è tuttavia un’enorme differenza tra non-discriminazione e principio del paese d’origine. Nel primo caso, per esempio per motivi di sicurezza dei consumatori, lo Stato può fissare obblighi regolamentari a tutte le aziende prestatarie, nazionali o straniere. Nel secondo caso, non può farlo.
Ovviamente, molti di questi regolamenti non proteggono tanto i consumatori dai difetti di fabbricazione, quanto le aziende prestatarie dalla concorrenza interna o estera. Non sempre, però. Il rischio di un’applicazione diretta del principio del paese d’origine era che – così come avviene per le finanziarie offshore – certi paesi adottassero normative lassiste, per facilitare l’istallazione di imprese di servizi nel loro territorio.
Il compromesso raggiunto la settimana scorsa da Evelyne Gebhardt e Malcom Harbour, rispettivamente portavoce di Pse e Ppe, cambia l’ottica del problema. I due parlamentari europei propongono di riaffermare il principio di non-discriminazione, sostituendo però al principio del paese d’origine una lista di disposizioni e divieti. Sarebbe per esempio vietato imporre alle aziende prestatarie l’apertura di una sede o la procedura di registrazione. In compenso, gli Stati conserverebbero il diritto di fissare obblighi generali, applicabili a tutte le aziende prestatarie sul loro territorio, il che eliminerebbe il rischio di “concorrenza sulle regole”.
Cosa ci si può aspettare da questo compromesso? Se viene adottato, cadranno di un solo colpo un insieme di norme protezionistiche… e una parte di loro sarà probabilmente reintrodotta sotto mentite spoglie. Si creerà un’apertura, seguita in alcuni paesi dall’instaurazione di freni alla concorrenza. Nel contempo, molte di queste disposizioni saranno denunciate alla Corte di giustizia, che le annullerà. Nel complesso lo shock concorrenziale sarà minore di quello che avrebbe apportato la direttiva Bolkestein, però sarà reale e duraturo.
Il compromesso Gebhardt-Harbour offre quindi, su un terreno molto controverso, una soluzione equilibrata che concilia intensificazione della concorrenza e protezione contro i rischi di una concorrenza sulle regole. Coloro che temevano l’adozione indiscriminata del principio del paese d’origine approveranno senza alcun dubbio. Coloro che invece sono ostili alla idea stessa di estendere il principio della concorrenza al settore dei servizi non saranno certo soddisfatti. Ma almeno diverranno più evidenti i motivi della loro riserva mentale.

Du bon usage de la directive services, version française

Au printemps dernier, le projet de loi-cadre sur l’organisation du marché européen des services connu sous le nom de directive Bolkestein rencontrait, en France, une opposition quasi-unanime. Alors qu’il avait été adopté sans grand débat par la Commission européenne – ne s’agissait-il pas de poursuivre la construction du marché unique ? – il cristallisait brutalement les craintes suscitées par l’intensification de la concurrence au sein de l’Union à vingt-cinq. Ceux qui s’apprêtaient à faire campagne pour le non à la constitution en faisaient, efficacement, le symbole effrayant d’une Europe dérégulée où la concurrence entraînerait inexorablement les normes sociales vers le bas. A la manière de pompiers incendiaires, les dirigeants politiques de gauche et de droite qui s’apprêtaient à défendre le oui s’empressaient quant à eux de rallier le mouvement et d’affirmer crânement que cette directive n’avait rien à voir avec l’idée qu’ils se faisaient de l’Union. En mars 2005, enfin, le Conseil des chefs d’Etat écartait temporairement la directive dans l’espoir de rassurer les Français. La suite est connue.
Un an plus tard, au terme d’un long travail parlementaire, la directive est de retour. Significativement amendée par un accord de dernière minute entre le PPE et le PSE, elle vise cependant toujours le même objectif : organiser et sécuriser l’ouverture d’un marché aujourd’hui encore fragmenté par une myriade de réglementations nationales – et donc promouvoir la concurrence au sein de l’Europe des vingt-cinq.
Dès l’origine, le débat à propos de la directive services n’a cessé d’entremêler chicaneries de techniciens et controverses sur les principes. La discussion de fond peut cependant se ramener à trois questions : faut-il ouvrir les marchés des services à la concurrence ? Selon quelles bases organiser la compétition entre prestataires appartenant à des pays de niveaux de développement très distants ? L’unification du droit doit-elle reposer sur le principe du pays d’origine ? Reprenons-les successivement.
L’objectif, d’abord. Longtemps abrité de la concurrence internationale, le secteur des services est encore souvent vu comme un refuge. Dans la distribution ou la banque, ce ne sont pas les producteurs chinois qui dictent les prix, et la pression à la réduction des coûts est moindre que dans l’industrie. Intensifier la concurrence intra-européenne, c’est engager là aussi la course à la productivité et à la rentabilité. Le faut-il ?
La réponse est dans les chiffres. Depuis dix ans, la productivité du travail en Europe a nettement ralenti – d’environ un point par an en moyenne – alors qu’elle accélérait aux Etats-Unis – d’environ un point aussi. C’est de là qu’est venu l’écart de croissance qui s’est creusé entre les deux continents. Or la plus grande part de ce ciseau s’est jouée dans le secteur des services.
Il est parfaitement légitime de tenir cette évolution pour bienvenue. L’objectif de la politique économique n’est certainement pas de maximiser la croissance, mais le bien-être, ce qui peut impliquer des choix sociaux non-productivistes. Mais au cours des prochaines décennies, les gains de productivité vont devoir financer à la fois la progression du pouvoir d’achat et l’accroissement de la charge des retraites. Rester sur les tendances actuelles, ce n’est donc pas seulement accepter que notre revenu par tête continue de décrocher de celui des Etats-Unis ; c’est aussi se résigner à une progression quasi-nulle du pouvoir d’achat des actifs.
Pour réveiller la productivité dans les services, la concurrence internationale n’est ni le seul moyen, ni même toujours le plus important. Dans bien des secteurs, une intensification de la concurrence interne (par exemple, une modification des règles de l’urbanisme commercial) produirait le même effet. Les travaux de Marc Mélitz, de Harvard, nous ont cependant appris que l’ouverture extérieure est une machine à productivité : lorsque les barrières aux échanges sont levées, les entreprises les plus productives et celles qui proposent de nouveaux produits grandissent, les moins productives et celles qui ne se renouvellent pas disparaissent. Maintenir sous protection un secteur qu’un marché intégré pourrait aiguillonner, revient ainsi à se priver d’un instrument important pour redresser la croissance européenne.
Ce n’est donc pas au nom d’un principe abstrait d’intégration que l’Europe a besoin d’une loi-cadre sur les services, c’est parce que la constitution d’un marché unique serait, dans ce domaine aussi, porteuse de croissance.
Les conditions de la concurrence, ensuite. Dans l’échange des biens, nous nous sommes habitués à ce que le marché international mette en communication des pays de niveaux de développement très différents. Et nous considérons comme acceptable, ou du moins inévitable, qu’un ouvrier hongrois coûte, et donc à peu de choses près gagne, le quart de son homologue français. D’une part, en effet, la productivité du travail est de plus de moitié plus faible en Hongrie qu’en France. D’autre part, la qualité et la notoriété des produits français permettent qu’ils soient vendus plus cher.
En Europe centrale, où le niveau de formation de la main d’œuvre est très élevé, ces écarts ne proviennent pas, ou pas principalement, des caractéristiques des travailleurs. Ce sont l’équipement, l’organisation des entreprises, ou les infrastructures qui, pour l’essentiel, limitent la productivité du travail. Ce sont le retard d’innovation ou l’absence de marques reconnues qui empêchent les producteurs de valoriser leurs produits dans l’échange.
Ces écarts ne touchent d’ailleurs pas tous les travailleurs : les ouvriers tchèques de VW produisent autant de valeur que ceux de Wolfsburg. Mais ici encore, nous considérons comme souhaitable que les rémunérations d’une multinationale n’excèdent pas trop celles des entreprises locales. C’est ce qui nous paraît le plus juste (en vertu du principe « à travail égal, salaire égal ») et aussi le plus propice à attirer des capitaux et à promouvoir le développement.
Transposons maintenant ce raisonnement dans le domaine des services. Rien ne change… sauf qu’il faut désormais déplacer le travailleur pour qu’il preste le service. Sont ainsi mis en contact deux marchés du travail, directement cette fois. Quelles normes faut-il alors appliquer ? Celles du pays d’origine ou celles du pays de destination ?
Tout dépend du marché du travail auquel appartient ce travailleur. A un extrême, l’immigrant résident appartient totalement au marché du travail de son pays d’accueil. Rien ne justifierait de le traiter différemment des autres salariés. A l’autre, celui qui effectue une mission ponctuelle à l’étranger relève intégralement du marché de son pays d’origine et il serait absurde d’indexer sa rémunération ou ses conditions de travail sur celles du pays où il intervient. Entre les deux, il y a quantité de situations intermédiaires au milieu desquelles la législation trace une frontière, nécessairement quelque peu arbitraire. C’est ce que fait la directive de 1996 sur les travailleurs détachés, selon laquelle au-delà de missions de très courte durée, le droit social du pays d’accueil s’applique.
Par delà une préoccupation d’équité (imagine-t-on possible que deux salariés effectuant durablement le même travail au même endroit relèvent de deux systèmes de normes sociales distincts ?) cette distinction se justifie d’un point de vue économique. L’entreprise qui opère dans un pays avancé a, de ce fait, accès à tout ce qui fait la productivité de ce pays. Il est logique qu’en contrepartie elle applique ses normes sociales.
Reste que l’application de ces principes a nécessairement tout du casse-tête. L’affaire des salariés lettons en Suède, dont l’entreprise ne se disait pas tenue par des conventions collectives qui n’avaient pas fait l’objet d’extension, en est l’illustration. Nul doute que ces cas vont se multiplier. C’est pourquoi la législation doit être aussi précise que possible.
Les principes, enfin. Dans ce contexte, sur quelle base organiser la concurrence ? Depuis l’origine, le droit communautaire repose sur un principe de non-discrimination qui interdit à un Etat de faire obstacle à l’offre d’un service au seul motif que l’entreprise prestataire provient d’un autre pays. En pratique, cependant, les Etats ont trouvé mille moyens de restreindre la concurrence en imposant des obligations telles que l’enregistrement ou l’ouverture d’un bureau dans le pays. Ces dispositions sont régulièrement annulées par la Cour de justice, mais au cas par cas. C’est pour cette raison que la Commission européenne avait proposé un texte de portée générale destiné à éliminer d’un coup toutes les entraves que la Cour abattait une par une. En prévoyant que toute entreprise régulièrement établie dans l’un quelconque des vingt-cinq Etats membres pourrait ipso facto prester ses services dans les vingt-quatre autres – c’est ce qu’on appelle le principe du pays d’origine – elle pensait ainsi résoudre le problème.
Il y a cependant une différence notable entre non-discrimination et principe du pays d’origine. Dans le premier cas, un Etat peut, par exemple pour des motifs de sécurité des consommateurs, fixer des obligations réglementaires à toutes les entreprises prestataires, nationales ou étrangères. Dans le second, il ne le peut pas. Bien entendu, beaucoup de ces obligations protègent moins les consommateurs des malfaçons que les prestataires en place de la concurrence interne ou externe – mais pas toujours. Le risque d’une application directe du principe du pays d’origine était qu’à la manière des centres financiers offshore, certains pays adoptent des réglementations laxistes pour favoriser l’installation d’entreprises de service sur leur territoire.
Le compromis intervenu la semaine dernière entre Evelyne Gebhardt et Malcom Harbour, les porte-parole du PSE et du PPE sur le sujet, change de logique. Les deux parlementaires européens proposent de réaffirmer le principe de non-discrimination, mais de substituer au principe du pays d’origine une liste de dispositions interdites, parce qu’elles en constitueraient à l’évidence une violation directe. Il serait ainsi interdit d’imposer aux entreprises prestataires l’ouverture de bureaux dans le pays ou une procédure d’enregistrement auprès des autorités. En revanche, les Etats conserveraient le droit de fixer des obligations générales applicables à l’ensemble des prestataires sur leur territoire, ce qui éliminerait le risque de concurrence réglementaire.
Que peut-on attendre de ce compromis ? S’il est adopté, un ensemble de réglementations protectionnistes tomberont d’un seul coup… et une part d’entre elles seront vraisemblablement recréées sous une forme déguisée. Il y aura donc un effet d’ouverture, suivi par l’instauration, dans un certain nombre de pays, de freins à la concurrence. Toutefois beaucoup de ces nouvelles dispositions seront portées devant la cour de justice, qui les annulera. Au total, le choc concurrentiel sera amoindri au regard de celui qu’aurait provoqué la directive Bolkestein, mais il sera réel et durable.
Le compromis Gebhardt-Harbour offre ainsi, sur un terrain très controversé, une solution équilibrée qui concilie intensification de la concurrence et protection contre les risques de la concurrence réglementaire. Ceux qu’inquiétait l’adoption sans précaution du principe du pays d’origine s’y rallieront sans doute. Ceux qui sont en réalité hostiles à l’idée même d’étendre la concurrence au domaine des services ne seront évidemment pas satisfaits. Mais au moins les motifs de leur réserve seront-ils désormais apparents.

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