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La direttiva Frankenstein

Con l’accordo per annacquare la direttiva sui servizi, l’Europa ha perso un’altra occasione per svegliarsi dal torpore determinato dalla sclerosi burocratica e fiscale che attanaglia molti paesi. E sembra impiegare le maggiori energie a contrastare, invece che a favorire, le liberalizzazioni. La “nuova” Bolkestein è una norma monstre, dove le eccezioni sono più numerose delle regole. Scomparso il principio del paese di origine, gli Stati nazionali avranno in mano armi potenti per depotenziare anche le poche libertà previste.

A furia di ripetere che l’Europa non deve essere solo uno spazio economico e di libero scambio, ma anche una comunità culturale, sociale e politica, nell’impossibilità di raggiungere quest’ultima , burocrati, sindacalisti e politici di varia estrazione stanno cercando di eliminare il libero scambio. Almeno, in nome dell’uguaglianza, faranno fallire tutti gli obiettivi. L’accordo tra socialisti, popolari e alcune frange dei liberal democratici (tra cui la Margherita, che curiosamente si colloca tra i liberali) per annacquare la direttiva Bolkestein sui servizi ne è solo il più recente esempio.

Addio al principio del “paese d’origine”

La direttiva, che prende il nome dal commissario al Mercato interno, l’olandese Frits Bolkestein, ha il fine di eliminare gli ostacoli alla libertà di stabilimento e alla libera circolazione dei servizi all’interno dell’Unione Europea: una condizione fondamentale per rilanciare produttività, competitività e occupazione in Europa, come dimostrato da sempre più numerosi studi.
In particolare, la direttiva prevedeva il “principio del paese di origine” in base al quale il prestatore di servizi era sottoposto unicamente alla legislazione del paese in cui è stabilito e di conseguenza non poteva essere sottoposto a restrizioni da parte dello Stato ospitante ove decideva di svolgere temporaneamente la sua opera. In altre parole, per riprendere la metafora dell’idraulico polacco (agli occhi dei liberali diventato il simbolo di una lotta di liberazione, quasi fosse un partigiano), se in Francia è necessaria una patente per riparare tubi e in Polonia no, l’artigiano di Varsavia avrebbe potuto esercitare tranquillamente a Parigi senza iter burocratici di nessun genere. Ora, grazie al compromesso storico raggiunto a Bruxelles, la direttiva Bolkestein sembra essere diventata una norma Frankenstein: le eccezioni sono più numerose delle regole.
Infatti, è vero che il nuovo articolo 16 prevede che ogni Stato membro “dovrà assicurare libero accesso ed esercizio di un’attività di servizio nel suo territorio”, non potrà obbligare all’apertura di una sede apposita o all’iscrizione in un albo professionale (salvo per le professioni protette) come condizione dell’accesso e i limiti cui l’esercizio potrà essere sottoposto dovranno rispettare i principi di non discriminazione, proporzionalità e necessità. Tuttavia, è altrettanto vero che gli Stati nazionali avranno in mano armi potenti per depotenziare sinanco queste nuove libertà.
Prima di tutto, è stato abolito il principio stesso del paese d’origine. La sua mera esistenza avrebbe consentito di interpretare anche le disposizioni restrittive di uno Stato membro ammesse dalla direttiva in un modo assai circoscritto: la Corte di giustizia ha una lunga tradizione in questo senso. Purtroppo, ciò non sarà più possibile.
Inoltre, alle numerose eccezioni già contenute nel testo originario se ne sono aggiunte tali e tante altre che a questo punto è difficile capire a quale servizio significativo si applicherà concretamente la presunta liberalizzazione. Andiamo con ordine.
La direttiva già prevedeva l’esclusione dal suo ambito dei servizi di interesse generale (essenzialmente non profit, l’istruzione pubblica, ad esempio), di quelli finanziari (banche, assicurazioni, pensioni private, eccetera), delle reti di comunicazione elettronica e dei trasporti già disciplinati da altre norme comunitarie. Fuori dalla gittata della proposta Bolkestein anche la distribuzione di elettricità, gas, acqua e i servizi postali.
Venivano poi fatti salvi i requisiti imposti da ciascuno Stato membro necessari per garantire l’ordine o la sicurezza pubblica, la protezione della salute o dell’ambiente.
Vediamo cosa succederà adesso dopo le modifiche del Parlamento europeo. Primo macigno: “la direttiva non concerne la liberalizzazione dei servizi di interesse economico generale (quindi non solo non profit) che gli Stati membri sono liberi di definire e organizzare come meglio credono”.
È un articolo pericoloso soprattutto ala luce di ciò che fanno i paesi peggiori, come la Francia, quando si tratta di definire cos’è “strategico”, di “interesse generale” e così via. Basti ricordare la recente legge transalpina che indica ben undici settori in cui il Governo si riserva di dire la sua in caso di Opa, oppure il patetico atteggiamento della classe politica parigina alla minaccia di take over dello yogurt Danone.
Salvati dai tentacoli liberalizzatori anche i servizi che mirano a un vagamente definito obiettivo di “benessere sociale“, intesi come manifestazione del principio di coesione sociale e solidarietà. Ebbene, quale servizio mira al “malessere sociale”?
Per buona misura si specifica che rimangono competenza degli Stati i servizi relativi all’edilizia popolare, l’assistenza familiare e all’infanzia, le agenzie di lavoro temporaneo e quelle di sicurezza privata (la terribile guardia giurata cipriota), i servizi sanitari (la malaccorta infermiera maltese) e farmaceutici (il sinistro farmacista lituano), i servizi audiovisivi, i giochi d’azzardo. Dulcis in fundo, l’esclusione dei trasporti include i trasporti urbani, i servizi portuali, le ambulanze e i taxi (niente maleodoranti tassisti sloveni).
Poiché è bene non fidarsi nemmeno dello zelo iper-protettivo di Bruxelles, tutte le norme a salvaguardia del consumatore anche non armonizzate a livello europeo rimangono comunque saldamente in vigore.
Infine, siccome non si sa mai, con la scusa di consolidare la giurisprudenza della Corte di giustizia europea, viene aggiunto un nuovo paragrafo (n. 7 dell’articolo 4) che definisce le “prevalenti ragioni di pubblico interesse” che possono essere invocate contro la liberalizzazione: politiche, salute, sicurezza e ordine pubblici, l’equilibrio finanziario del sistema di sicurezza sociale, incluso l’accesso libero alle cure mediche, protezione dei consumatori e lavoratori, equità degli scambi commerciali, lotta alle frodi, ambiente, proprietà intellettuale, salute degli animali, conservazione del patrimonio artistico e storico, obiettivi di politica sociale e culturale.
Con tutte queste eccezioni la direttiva Bolkestein, o quel che ne rimane, avrà vita grama e l’Europa avrà perduto un’altra buona occasione.

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Se i burocrati leggessero Tucidide

Preoccupa però il clima generale che stiamo vivendo nel Vecchio Continente: invece di svegliarci dal torpore determinato dalla sclerosi burocratica e fiscale che attanaglia molti paesi europei, sembra che le maggiori energie vengano impiegate a contrastare le liberalizzazioni. La colpa è soprattutto della Francia e delle sinistre continentali, ma nessuno può dirsi senza peccato. E perciò se Parigi si fa notare per la pervicacia con cui blocca le acquisizioni sgradite, emanando improbabili liste di settori strategici e reagendo furiosamente a qualsiasi iniziativa “straniera” (1), sono tutte e quattro libertà consacrate dal Trattato di Roma – di movimento, di capitali, di stabilimento e di beni – a essere continuamente sotto attacco, come è accaduto per gli accordi transitori che limitano in dodici Stati su quindici il flusso di lavoratori dai nuovi paesi comunitari dell’Est.
Ed è un peccato mortale non rendersi conto dell’antistoricità, dell’inefficienza e dell’iniquità di un tale atteggiamento, perché a noi piace pensare che l’Europa dovrebbe essere simile all’Atene che Pericle celebra nella sua orazione funebre riportata da Tucidide (unica figura ad avere l’onore di essere menzionata nella fallita costituzione europea): “la nostra città è così grande che da tutta la terra ci arrivano merci di ogni tipo (…). Offriamo la nostra città agli altri come un bene da godere in comune, e non accade mai che, decretando l’espulsione degli stranieri, allontaniamo qualcuno da un’occasione di apprendimento o da uno spettacolo”. Ma, come si suol dire, erano altri tempi.

(1) Come nel caso Arcelor. Ma sarebbe curioso vedere cosa direbbe de Villepin se l’Italia considerasse Bnp banca non grata a Roma.

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Il vento dell’Est sui servizi

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Clima di allarme

  1. Marco Palmieri

    A mio modesto avviso, la Direttiva Bolkenstein costituiva e continua a rappresentare un vero mostro giuridico, data la natura di mera scorciatoia alla creazione di un mercato solo sulla carta “unico”, in quanto governato nei fatti da 25 differenti ordinamenti. Più che sprecare tempo prezioso a limitare il diritto del famigerato idraulico polacco ad esercitare sugli Champs Elysées, il legislatore europeo poteva forse rendere un maggior contributo alla creazione di un effettivo ambito economico comune rafforzando il patrimonio delle regole sovranazionali. Il principio del Paese d’origine, o quel che ne resta, oltre che a minare la stessa idea di Unione fra Stati comunemente percepita, continua inoltre, a quanto mi consta, a non prendere in considerazione gli aspetti giurisdizionali, obbligando il magistrato localmente competente a dover applicare il diritto del Paese di provenienza del prestatore. È evidente che il serio pericolo di un ingolfamento delle aule giudiziarie del continente, potrebbe essere superato solo attraverso la creazione di un denso sostrato legislativo comune, sul quale si potrà basare anche il recupero della fiducia dei cittadini e delle imprese europee verso la stessa U.E., ora giustamente ai minimi storici.

  2. Marco Rossi

    Da modesto studente universitario, mi permetto di fare alcune riflessioni sulla bocciatura della proposta Bolkenstein… innanzitutto deve essere chiaro che è stata stravolta non tanto per quello che proponeva ma per quello che rappresentava: in effetti i gruppi politici che più si sono battuti contro di essa lamentavano il rischio che venissero liberalizzati servizi come l’erogazione dell’acqua, nonostante ciò fosse già escluso dalla direttiva (ma mi risulta fosse stato previsto nella stesura iniziare di 2 anni fa)… in sostanza la direttiva non è riuscita a scrollarsi di dosso la sua cattiva reputazione iniziale… il che insegna molto sul fatto che l’immagine, anche di una proposta di direttiva, spesso prevale sulla sua sostanza.
    Tuttavia sarebbe inopportuno dimenticare che non bisogna eccedere nel liberalizzare… non bisogna dare l’idea (ma neanche pensarlo, mi verrebbe da dire) che liberalizzare farmaci, taxi o altro (cosa legittima e opportuna) sia solo il primo passo per liberalizzare servizi come quello dell’acqua (sulla cui utilità per il consumatore mi permetto di esprimere seri dubbi, da consumatore).

  3. Riccardo Mariani

    Il lettore Marco Palmieri parla del “Principio del Paese d’origine” come di qualcosa che mina l’idea di Unione.
    Ma non dovevamo, attraverso l’Unione, mettere finalmente in competizione i legislatori? Non dovevamo rispolverare l’autentica radice europea, quella medioevale (pluralità delle giurisdizioni)?
    Oppure aveva ragione quel drappello di liberali che ha sempre visto l’UE come il novello leviatano?
    Saluti.

  4. Marco Palmieri

    Non credo si possa parlare di effettiva Unione di Stati a fronte del mantenimento di una sostanziale pluralità di ordinamenti, anche se resi applicabili oltre confine entro determinati limiti. Neppure credo che una race “to the bottom” fra gli stessi sistemi legislativi costituisca un fattore di sviluppo economico, all’opposto portando a pericolosi squilibri (c.d. effetto Delaware): se poi si intende una “pluralità di giurisdizioni” come il mantenimento di più iura civilia locali e la creazione effettiva di un comune ius mercatorum, non posso che essere d’accordo, vedendo in questo un fondamentale passo in avanti per la creazione di un prospero mercato unico. Al contrario ritengo che il progetto U.E., lungi dall’essersi realizzato, benché a molti appaia indigesto, costituisca una medicina purtroppo necessaria ed urgente a fronte della ormai aperta competizione globale. In tal senso occorre rilanciare la costruzione di un effettivo ordinamento comune nei ristrettissimi tempi concessi dalla profonda rivoluzione economica planetaria contingente, senza incorrere nella tentazione di imboccare rapide e pericolose scorciatoie quali l’applicazione del principio del Paese d’origine. In altri termini e riprendendo il richiamo storico offerto dal lettore Mariani, si potrebbe affermare che solo un fronte unitario e davvero coeso fra le nazioni, scevro da sterili localismi o deboli idee di Unione fra Stati, potrà sperare di reggere l’urto della nuova orda mongola, assicurandosi dal rischio di un inevitabile e rapido declino.

  5. Pierpaolo Sette

    Caro dott. De Nicola,
    Non posso che condividere pienamente quello che lei scrive. Sono anche io un ”vero” , come lei, sostenitore del libero mercato. In questo momento credo che si parli di libero mercato ma tutti utilizzano questa parola secondo il loro tornaconto personale. Tutti si professano liberisti, liberali, ma poi a conti fattii anche i principi dei pardi costituenti dell’Europa sono stravolti. Credo che i padri fondatori volessero davvero portare avanti l’idea di un’Europa incentrata sull’idea del libero scambio, ma a conti fatti si ritrovano con un’Europa ben diversa da quella che avevano immaginato. Spesso le persone usano la parola mercato e libero scambio a proprio piacimento e proprio tornaconto, e la modifica della direttiva Bolkeinstain ne è l’emblema. Spero che presto si possa ritornare allo spirito dei nostri padri fondatori europei, che certamente vedrebbero nell’Europa di oggi un vero Frankenstain per certi versi.
    Condivido la sua opinione e spero che attraverso questo spazio molti comprendano che è ora di tornare all’idea di Europa come un vero mercato e che rispetti le quattro libertà fondamentali.
    Cordiali saluti,
    Dott. Pierpaolo Sette

  6. Fabrizio Grandi

    Egregio Dottor De Nicola,
    leggo quest’articolo mentre infuria la polemica sul comportamento della Francia nell’Opa che Enel vorrebbe lanciare su Electrabel. Condivido pienamente quello che scrive in merito alla Direttiva Bolkenstein e aggiungo che l’Europa non può permettersi di avere membri come la Francia che ostacolano con il loro comportamento inqualificabile l’integrazione economica dei membri UE quando invece le sue imprese non vengono ostacolate quando si rendono protagoniste di fusioni ed acquisizioni come la BNP con Bnl. Questo è un duro colpo per l’Europa: si rischia di innescare una serie di provvedimenti protezionistici che ci porterebbero ai tempi precedenti la caduta del muro di Berlino.

  7. lucio gussetti

    un paio di punti dell’analisi mi sembrano non convincenti:

    1) la Corte di giustizia e la Commissione hanno da tempo posto limiti precisi alla nozione di servizio di interesse economico generale e non mi pare perciò corretto affermare che gli Stati membri la possano usare a piacimento al fine di aggirare le regole del mercato unico. Rinvio ad esempio alle sentenze 14 dicembre 1995, cause riunite C-163/94, C-165/94 e C-250/94, Sanz de Lera e a., Racc. pag. I-4821, punto 23, e 14 marzo 2000, causa C-54/99, Église de scientologie, Racc. pag. I-1335, punto 18.

    2) concordo sul fatto che il principio del paese d’origine debba essere il punto d’arrivo di un mercato europeo funzionante dei servizi . Tuttavia, come non constatare con rammarico che si è proceduto alla proposta Bolkestein in coincidenza temporale con l’allargamento a 10 paesi con redditi e salari a volte 3 a 4 volte inferiori alla media dei 15 originali, senza che questo sia stato preceduto da un ben che minimo tentativo di armonizzazione. Il solo precedente di un allargamento di questa natura e dimensione (spagna e portogallo, 50 milioni di abitanti da comparare ai 74 di questa tornata) si è giustamente inserito in un contesto di diffusa armonizzazione delle legislazioni nazionali in vista del traguardo del 1.1. 1993. Fu errore grave a mio parere avere sottovalutato questo aspetto nel 2004. Il metodo comunitario non si può limitare ideologicamente alla applicazione sic et simpliciter del mutuo riconoscimento di legislazioni e realtà nazionali divergenti. Essa si deve fondare innanzitutto sulla convergenza prodotta dalle armonizzazioni europee, fossero anche a minimis. Si può allora proporre l’applicazione della regola del paese d’origine attendendosi resistenze politiche e sindacali senza dubbio inferiori.

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