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Come cambia la geografia degli investimenti internazionali

E’ naturale lo smarrimento di fronte al cambiamento nella geografia degli investimenti. L’attivismo delle società dei paesi emergenti è notevole, con motivazioni e tipologie d’impresa coinvolte assai eterogenee. L’irrompere di nuove multinazionali è una delle tante facce della globalizzazione. E’ lecito metterne in evidenza i rischi, ma sarebbe catastrofico non apprezzarne le opportunità. Soprattutto in un paese come l’Italia, che sconta tuttora il peso di una partecipazione insoddisfacente ai flussi globali di investimenti diretti.

Il tentativo dell’imprenditore indiano Lakshmi Mittal di acquistare il gruppo franco-spagnolo-lussemburghese Arcelor e dar vita alla principale impresa siderurgica mondiale ha suscitato un acceso dibattito in Francia e altrove in Europa. Molti vi vedono la prova che i “capitalisti del Sud” sono pronti a conquistare i gangli cruciali dell’industria occidentale. In realtà, Mittal Steel è un gruppo veramente globale, con un azionista di controllo che vive in Europa da più di venti anni, stabilimenti in quattordici paesi – ma non in India – e un management, questo sì, ancora fortemente indiano.

Dai dati aggregati alle case history

Se Mittal Steel non è pertanto una vera e propria multinazionale di un paese emergente, ma piuttosto un prodotto simbolico dell’attuale fase della globalizzazione, questo non vuol dire che gli equilibri del capitalismo mondiale non stiano cambiando.
Quest’inverno si è giocata un’altra battaglia borsistica che ben simboleggia questa rivoluzione. Gli operatori dei porti di Dubai e Singapore, ambedue controllati dai rispettivi governi, si sono contesi la Peninsular&Oriental, un gruppo britannico le cui origini risalgono al 1837. (1) L’esplosione del commercio con l’Asia, e con la Cina in particolare, ha spinto Dubai Ports World e Psa International a cercare di acquisire P&O, per poi competere con il maggior operatore portuario mondiale, Hutchinson di Hong Kong. Quando la società degli Emirati ha convinto gli azionisti di P&O ad accettare la sua offerta, si è trovata di fronte l’opposizione di membri influenti del Congresso americano, timorosi che a soffrirne fossero gli standard di sicurezza dei porti gestiti da P&O negli Stati Uniti e, soprattutto, decisi a far valere le proprie ragioni di fronte all’amministrazione.
Secondo le statistiche dell’Unctad, in aggregato gli investimenti esteri in uscita dai paesi emergenti (compresa la “Nuova Europa”) e in via di sviluppo sono in forte crescita. Da poco più di 53 miliardi di dollari nel 1992-98 sono passati a 85 miliardi nel 1999-2004, registrando un massimo storico nel 2000: 147 miliardi. La partecipazione di questi paesi allo stock degli investimenti esteri in uscita è passata dal 7 per cento nel 1990 all’11 per cento nel 2004. I flussi d’investimenti esteri in uscita rappresentano una percentuale considerevolmente superiore della formazione lorda di capitale fisso in territori come Hong Kong, Taiwan, Russia e Singapore in rispetto a molti paesi industrializzati.
Sfortunatamente, i dati aggregati soffrono di alcuni problemi, in particolare sono fortemente influenzati dalla volatilità dei trasferimenti tra Hong Kong e Cina – il problema del cosiddetto round-tripping. In Cina, infatti, gli investimenti esteri godono di una serie di vantaggi e di miglior protezione rispetto a quelli degli industriali locali. Che dunque preferiscono trasferire fondi verso Hong Kong e Macao, per poi farli ritornare in patria.
Per avere un quadro verosimile dell’importanza del fenomeno si può tentare di seguire le vicende delle imprese. Non c’è dubbio allora che le operazioni delle multinazionali emergenti stiano esplodendo. La stampa dà giustamente risalto a quelle maggiori – dall’acquisto della Rmc in Gran Bretagna da parte della Cemex messicana nel 2004, al trasferimento di intere divisioni di grandi multinazionali occidentali a gruppi asiatici (Ibm-Lenovo, Alcatel-Tcl, Thomson-Tcl e Siemens-BenQ, per non citare che le principali), al fallimento del tentativo di Cnooc di scalare Unocal.
Ma altrettanto interessanti sono i casi minori. Solo in Italia, nel 2005, una storica produttrice di motocicli, la Benelli, è stata salvata dalla chiusura definitiva da Qianjiang Group, società cinese costruttrice di motori per motocicli; gli impianti per i tubi catodici della Thomson ad Anagni sono stati rilevati dall’indiana Videocon. Tra le società di dimensioni superiori, la Lucchini è passata nelle mani del gruppo russo Severstal, mentre la Orascom egiziana ha indirettamente acquisito Wind.

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Perché e chi si muove

Dietro questi e altri casi ci sono motivazioni e tipologie d’impresa assai eterogenee.
Le multinazionali cinesi sono attori sempre più presenti e competitivi nella ricerca di risorse, in particolare in Africa, dove stanno prendendo piede nella gestione di concessioni per la ricerca e l’esplorazione di greggio, ma anche in Canada dove acquistano giacimenti di bitume trasformabile in petrolio.
In altri casi, gli investimenti sono motivati dalla conquista di mercati. Per esempio, l’Embraer brasiliana ha rilevato dal governo lusitano la società aeronautica Ogma per poter accedere a commesse pubbliche in Portogallo e altrove nell’Unione Europea. Sempre più comuni sono gli investimenti finalizzati alla ricerca di maggiore efficienza, come ha fatto la China International Marine Containers, che nel 2002 ha acquistato Hpa Monon (uno dei principali produttori americani di container) per accrescere le competenze e allargare la propria gamma a prodotti più sofisticati.
La tipologia di imprese coinvolte nel fenomeno rappresenta tutta la vera e propria “zoologia” che caratterizza il capitalismo moderno. Le imprese che abbiamo citato sono a controllo famigliare (Mittal e Cemex, anche se ambedue sono quotate), statale (Cnooc ma anche Psa, controllato da Temasek, l’Iri di Singapore) oppure ad azionariato diffuso (Embraer, dove il governo brasiliano aveva una golden share, cui ha recentemente rinunciato). Perché è importante dirlo? Perché suggerire un’omogeneità e sollevare il sospetto che queste imprese siano eterodirette fa spesso il gioco di chi vede con sospetto l’irrompere di nuovi attori e cerca di limitarne la libertà di manovra.
È naturale lo smarrimento di fronte a un cambiamento nella geografia degli investimenti come quello cui stiamo assistendo quotidianamente sulle schermate delle agenzie di informazione finanziaria. Colpevole è invece il protezionismo, che pure sembra dominare. La globalizzazione ha tante facce, e quella dell’irrompere di nuove multinazionali va ad aggiungersi alle molte altre, dal commercio alle migrazioni: è lecito metterne in evidenza i rischi, ma sarebbe catastrofico non apprezzarne le opportunità. Soprattutto in un paese come l’Italia, che sconta tuttora il peso di una partecipazione insoddisfacente ai flussi globali di investimenti diretti.

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(1) La Peninsular Steam Navigation Company assicurava i collegamenti marittimi tra l’Inghilterra, il Portogallo e la Spagna.

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Non solo greggio

  1. Matteo Olivieri

    Gentile dottore,
    le pongo una questione riflettendo sulle sue ultime considerazioni.
    Lo shopping worldwide delle aziende degli states hanno avuto ed hanno un’intensità tale che passeranno alcuni anni per vedere sul mercato i paesi emergenti fare qualcosa di paragonabile. Diciamo solo alcuni anni.
    Noi invece siamo bravi a comprare case ed automobili, barche, scarpe e tropical restores.
    Sarà per questo che non sappiamo sfruttare il mercato, i grandi flussi di merging, i benefici della competizione? Non sarà ora di aprire le braccia a indiani e cinesi, brasiliani e russi per far emergere chi nel nostro paese è capace di fare impresa, ma anche ricerca ed innovazione? Un giorno potremo forse avere una classe dirigente pronta a lanciarsi fuori ed acquisire il meglio che il mondo offre.

    • La redazione

      Caro Olivetti, certamente il sistema Italia negli ultimi anni non ha dato grandi prove di innovatività e il modesto entusiasmo che le imprese straniere mostrano per gli investimenti nel nostro paese lo dimostra (meno di 50 miliardi di dollari di investimenti esteri in entrata nel 2002-2004, secondo
      l’UNCTAD, contro quasi 130 in Gran Bretagna e 120 in Francia). Per questo l’arrivo di multinazionali emergenti è una novità benvenuta e non bisogna certo spaventarsi se società come Peroni, Benelli o Lucchini sono ora sotto controllo di questi investitori. Attenzione, però, a non passare con cadenza
      quinquennale dagli entusiasmi su un nuovo miracolo prossimo e venturo ad un eccessivo pessimismo — imprese italiane capaci di competere, anche con e nei BRICs — ce ne sono ancora parecchie!

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