Come previsto il G-8 ha lanciato un forte messaggio politico perché il negoziato, incagliato da tempo a Ginevra, riprenda nei tempi strettissimi imposti dalla scadenza all’inizio del 2007 dell’autorizzazione del Congresso USA al Presidente Bush per approvarne i risultati con la procedura spedita del fast track . Basterà questo impulso, che Pascal Lamy, il dinamico direttore generale dell’Organizzazione Mondiale del Commercio (WTO), ha subito raccolto convocando una serie di riunioni a livello di ministri entro metà agosto?

Come previsto il G-8 ha lanciato un forte messaggio politico perché il negoziato, incagliato da tempo a Ginevra, riprenda nei tempi strettissimi imposti dalla scadenza all’inizio del 2007 dell’autorizzazione del Congresso USA al Presidente Bush per approvarne i risultati con la procedura spedita del fast track. Basterà questo impulso, che Pascal Lamy, il dinamico direttore generale dell’Organizzazione Mondiale del Commercio (WTO), ha subito raccolto convocando una serie di riunioni a livello di ministri entro metà agosto?

Due protezionismi fanno uno stallo

Le ragioni dello stallo sono molteplici e raggiungere una convergenza su un nocciolo di soluzioni bilanciate che accontentino i maggiori protagonisti non sarà facile. E l’Italia dove sta in questo complesso gioco di dare per ottenere?
Il negoziato in corso, lanciato a Doha a fine 2001, vuole dare una risposta collettiva a due sfide: la prima quella del terrorismo senza frontiere volta a minare la stabilità delle relazioni internazionali anche economiche; la seconda, quella di fare fronte alle esigenze dei paesi più poveri di crescere tramite le esportazioni soprattutto agricole (trade not aid o aid for trade). Ma all’insegna della reciprocità tutti i protagonisti devono trovare un ragionevole tornaconto.
Due forme di protezionismo rischiano di far fallire il negoziato. Il primo, quello agricolo dei paesi ricchi, USA e Europa ma anche Giappone, e Corea. Non solo questi Paesi sussidiano a pioggia i loro agricoltori, nonostante rappresentino una percentuale inferiore al 5-10% della loro popolazione attiva; allo stesso tempo sovvenzionano numerose esportazioni e restringono l’accesso ai loro mercati, così deprimendo i prezzi mondiali (vedi il caso del cotone sollevato con forza dai paesi africani che ne dipendono).
E’ davvero ancora giustificato un regime speciale per l’agricoltura? In effetti non è chiaro perchè se la FIAT, per fare un esempio, fosse rimasta ancora fuori mercato sarebbe prima o poi fallita; perché l’Alitalia, se non è competitiva, possa ricevere secondo le regole europee solo aiuti pubblici limitati che vanno poi restituiti; mentre invece produzioni agricole non efficienti possono godere di protezioni strutturali a spese dei consumatori/contribuenti con danno dei produttori più poveri, che vivono nei paesi più poveri.
La seconda forma di protezionismo è quella che nasce dal timore della concorrenza globale ad opera dei nuovi protagonisti economici: Cina, India, Brasile. Invece di delocalizzare, sviluppare le nuove tecnologie ed entrare risolutamente nei nuovi mercati, molti settori dei paesi sviluppati chiedono barriere protettive, invocando, spesso a sproposito, l’interesse nazionale o esigenze sociali.
Chi ne fa le spese sono anche qui i consumatori e i settori più dinamici dell’economia, compresa l’agricoltura a più alto valore aggiunto: quella nostra di nicchia, per fare un esempio, che non dipende dagli aiuti ma che punta piuttosto sulla protezione delle denominazioni d’origine su scala mondiale, una istanza negoziale che stenta a decollare.

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Gli accordi bilaterali sono illusori

Se i negoziati falliscono, anche i poveri dei Paesi poveri ne soffriranno alla lunga. Davanti alla incapacità di trovare una intesa multilaterale, si accelererà la corsa agli accordi bilaterali e regionali, non come elemento di ulteriore liberalizzazione ma come alternativa second best. I vantaggi di questi accordi sono per lo più illusori: distorcono artificialmente i flussi di scambio e mascherano un nuova forma di neocolonialismo nei rapporti Nord-Sud: pur di accedere ad un importante mercato di un paese ricco il partner del terzo mondo sarà disponibile ad accettare in sede bilaterale vincoli che avrebbe respinto con successo nei negoziati multilaterali.

E l’Italia in tutto questo?

Nell’ambito della Comunità Europea, rappresentata ai negoziati nella persona del commissario Peter Mandelson, il nostro paese stenta, a prescindere dei cambi di governo, ad individuare quale sia il nostro vero interesse di medio lungo periodo. Questo dovrebbe consistere nel tutelare la stabilità del sistema multilaterale e l’apertura dei mercati dei nostri partner ai prodotti e operatori italiani. Quanto al nostro mercato interno, dovremmo essere a nostra volta aperti alla concorrenza straniera, sia nei beni che nei servizi, quelli innovativi ma anche quelli tradizionali, i più ingessati e bisognosi di liberalizzazione anche internazionale e transfrontaliera. La nostra politica tende invece troppo spesso ad essere ostaggio dei gruppi e categorie che più contano e si agitano per difendere il proprio particolare a scapito dell’interesse generale. Così finiamo per accodarci ai paesi comunitari che più frenano, i cui interessi però non coincidono a ben vedere con i nostri.
Il rischio per la sesta economia del mondo è di non tutelare efficacemente le nostre posizioni , anche particolari quando ciò sia giustificato, e di contare poco nella elaborazioni delle strategie globali.

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