L’Italia mette pochi soldi negli aiuti allo sviluppo, tra lo 0,07 e lo 0,35 per cento del Pil negli ultimi anni. Ma abbondanza di contributi non è sempre sinonimo di aiuti efficaci. Più preoccupante l’esiguità complessiva delle risorse finanziarie che destiniamo ai paesi in via di sviluppo. E’ un altro sintomo della perdita di competitività del nostro paese. Perché invece di distribuire spiccioli in modo bilaterale, l’Italia non si fa promotrice di uno sforzo europeo di finanziamento di progetti in campo sanitario per curare l’Aids o la malaria?

Più aiuti o una migliore strategia?

Negli ultimi anni l’Italia ha speso in aiuti allo sviluppo tra lo 0,07 e lo 0,35 per cento del proprio Pil. Sono pochi soldi, si dice, di fronte agli obiettivi di politica estera del nostro paese e alle necessità dei destinatari. Ma più soldi pubblici in questo campo servono solo se non sono sprecati.

Più aiuti uguale aiuti più efficaci?

Maggiori flussi di aiuto non implicano una loro maggiore efficacia. Negli anni Ottanta, quando la cooperazione italiana è decollata finanziariamente, in aiuti pubblici veniva spesa una proporzione maggiore di quelle sperimentate oggi (lo 0,4 per cento del Pil e più). Erano gli anni in cui la maggior parte degli aiuti andava a due dei paesi più poveri dell’Africa a sud del Sahara, Etiopia e Somalia. Se dare soldi ai paesi poveri è l’obiettivo principale e ultimo degli aiuti, bisogna però sempre ricordare che si tratta di trasferimenti unilaterali di denaro da governo a governo. L’inconveniente di destinare tanti soldi a Somalia ed Etiopia era, infatti, che al potere, nei due paesi, c’erano dittatori (prima di tutto il somalo Siad Barre) in grado di dirottare facilmente i fondi in direzioni differenti rispetto a quelle desiderate dai cooperanti italiani. Gli aiuti italiani di quegli anni hanno così contribuito a mantenere in piedi regimi corrotti e dittatoriali. Si può anche aggiungere che, come accertato dalla magistratura, una frazione consistente dei flussi di aiuto si perdeva per strada, nelle tasche di alcuni politici (con qualche grado di imprecisione, si può dire che l’Etiopia era “della Dc” e la Somalia “del Psi”). Ecco un esempio concreto e specifico di ciò che gli economisti intendono quando sostengono che l’efficacia degli aiuti dipende dal cosiddetto “policy environment“. E’ pur vero che, dagli anni Ottanta ad oggi, la comunità internazionale ha acquisito maggiore consapevolezza del rischio di sprecare i fondi. Ma l’insistenza su obiettivi puramente quantitativi (“l’Italia dovrebbe dare almeno il …% del PIL”) non contribuisce a migliorare l’efficacia degli aiuti.

Aiuti come flussi di capitale

La pretesa esiguità dei fondi per aiuti deve infatti essere valutata nell’ambito di tutti i flussi di capitale che vanno verso i paesi poveri. Se si guarda ai flussi netti complessivi verso i paesi in via di sviluppo, si scopre che l’Italia trasferisce poco capitale – pubblico e privato – verso i paesi poveri. Dai dati pubblicati dall’Ocse, emerge che, nel 2000-04,(1) l’afflusso netto di capitale (2) da tutti i paesi ricchi verso quelli in via di sviluppo (comprese Cina e India) è stato mediamente di 120 miliardi di dollari l’anno, la metà dei quali in aiuti pubblici e il 40 per cento circa in flussi privati (investimenti delle multinazionali, prestiti obbligazionari e bancari e crediti privati alle esportazioni). Più del 50 per cento dei flussi complessivi (circa 67 miliardi l’anno) è venuta dall’Europa, per metà circa in aiuti pubblici e per l’altra metà in flussi privati.
Tra i paesi europei, l’Italia ha erogato aiuti per 2 miliardi di dollari circa l’anno, poco più della Spagna e un terzo circa di quanto hanno dato Francia, Germania e Regno Unito. Quindi è vero che l’Italia dà meno soldi, ma solo dei paesi che hanno un reddito pro-capite superiore al nostro. Il dato che più colpisce è però quello dei flussi privati. I flussi complessivi provenienti da aziende e banche italiane sono stati pari a 1,9 miliardi di dollari l’anno – poco meno di quelli della Germania (2,1 miliardi) e della Francia (2,7 miliardi), ma solo un quinto di quelli del Regno Unito e della Spagna. Se si mettono insieme aiuti pubblici e flussi privati, viene fuori che l’Italia ha trasferito circa 4 miliardi di dollari l’anno nei paesi in via di sviluppo, meno della metà della Germania e della Francia, un terzo della Spagna e un quarto del Regno Unito. Dato che i flussi di capitali sono ormai complementi della competitività estera di un paese (quasi metà del commercio mondiale ha luogo intra-firm, cioè all’interno delle imprese multinazionali), non ci si può meravigliare che un’Italia che non investe all’estero abbia continuato a perdere quote di esportazione in questi anni.

L’altra faccia della medaglia

L’esiguità dei fondi italiani per lo sviluppo è semplicemente l’altra faccia della medaglia della scarsa consapevolezza – condivisa da banche, imprese e politici italiani – dell’importanza di essere presenti all’estero con capitale italiano, a supporto dello sviluppo dei paesi poveri, ma anche della nostra economia.
Fissare obiettivi quantitativi non risolve il problema per il futuro. Perché, invece di distribuire briciole di aiuti bilaterali, l’Italia non si fa promotrice di uno sforzo europeo di finanziamento di progetti in campo sanitario che, senza duplicare gli attuali sforzi multilaterali nella stessa direzione, aumentino la probabilità di trovare un vaccino contro l’Aids o un rimedio contro la malaria? Se a noi europei non piace, per fortuna, fare la guerra e siamo invece più disponibili a essere tassati per finanziare spese associate allo stato sociale, non si capisce perché i governi europei non sfruttano questa opportunità investendo più soldi nello sviluppo di progetti di eccellenza in campo sanitario, con la prospettiva di coinvolgere (e, perché no, incentivare) le imprese europee di punta in questo campo.

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Tavola 1: Flussi finanziari netti verso i paesi in via di sviluppo

Miliardi di dollari, media 2000-04

 

Flussi totali

Aiuti pubblici

Flussi privati

Totale OCSE

119.1

62.6

49.0

USA

31.7

14.1

11.7

EU -15

66.9

32.3

32.1

— Italia

3.9

2.0

1.9

— Germania

8.6

5.9

2.1

— Francia

9.2

5.9

2.7

— Regno Unito

14.6

5.6

8.6

— Spagna

12.5

1.8

10.6

Fonte: OECD, Geographical Distribution of Financial Flows data base, 17 novembre 2006

 

* Nello scrivere questo articolo, non posso fare a meno di ricordare con commozione Enzo Grilli, con cui ho avuto la fortuna di lavorare proprio su questi temi (e di discutere su tanti altri). Il suo contributo a riformulare le linee guida della politica di cooperazione allo sviluppo dell’Italia sarebbe ora semplicemente inestimabile. Ci mancherà molto.

(1) È utile considerare dati medi relativi a un quinquennio perché i flussi netti di capitale privato sono piuttosto variabili di anno in anno.
(2) L’afflusso netto di capitale in un paese è costituito dalla differenza tra l’afflusso di nuovi capitali (in forma di investimenti diretti, prestiti bancari e obbligazionari, crediti alle esportazioni) e il loro deflusso dovuto per esempio agli investimenti all’estero degli abitanti dei paesi in via di sviluppo e alla restituzione dei debiti passati.

Una buona idea dell’Italia per salvare milioni di vite umane, di Carlo Monticelli *

In un recente contributo su La Voce, Francesco Daveri auspica che l’Italia non solo destini maggiore risorse per l’aiuto allo sviluppo, ma promuova il finanziamento di progetti in ambito sanitario. Sono obiettivi entrambi lodevoli, che certamente condivide chiunque abbia a cuore i più poveri del mondo. L’articolo lascia però intendere che nulla si sta muovendo su questo fronte.

Gli impegni dell’Italia in campo sanitario

Così non è. La legge Finanziaria per il 2007 compie un primo passo in questa direzione, pur in presenza di risorse molto limitate e in un contesto generale di riduzione delle spese.
L’Italia è infatti tra i sei paesi fondatori dell’International Financial Facility for immunization (Iffim) – un meccanismo, lanciato pochi giorni or sono, che “cartolarizza” il flusso di contributi futuri dei donatori in modo da rendere immediatamente disponibili le risorse per l’acquisto di vaccini, da destinare ai paesi più poveri, contro malattie, come la difterite e la poliomielite, che l’immunizzazione ha permesso di debellare nei paesi avanzati.
Sempre nel campo dei vaccini, ma di quelli che non sono ancora disponibili, anche in relazione agli insufficienti investimenti nel settore, l’Italia si è inoltre resa promotrice, a livello internazionale, di un importante progetto: Advance Market Committment (Amc); un’iniziativa innovativa, che sfrutta la sinergia tra settore pubblico e settore privato, oltre a essere coerente con le priorità che si sono dati i paesi in via di sviluppo.

Il progetto Amc

L’idea di Amc, nella sua sostanza, è semplice. L’industria farmaceutica investe relativamente poco per la ricerca e lo sviluppo di vaccini contro le malattie infettive che mietono vittime soprattutto nei paesi più poveri, come la malaria, il pneumococco o la tubercolosi. Alle difficoltà di natura scientifica se ne aggiunge una economica: non c’è garanzia, al momento di effettuare l’investimento, che i paesi potenzialmente beneficiari del vaccino abbiano le risorse per acquistarlo nel caso in cui la ricerca abbia successo e ne renda disponibile uno efficace, capace di salvare milioni di vite.
Il progetto Amc affronta direttamente questo “fallimento del mercato” e prevede la creazione di mercati “futuri” per i vaccini da parte dei donatori, che si impegnano in modo legalmente vincolante con l’industria farmaceutica all’acquisto di un certo numero di dosi, una volta che questi sono scoperti, certificati come efficaci da un panel di esperti e domandati dai paesi in via di sviluppo in coerenza con le proprie strategie nel settore sanitario. Si crea così un mercato profittevole che motiva le imprese a compiere investimenti in ricerca e sviluppo che altrimenti non effettuerebbero.
In questo modo intervento pubblico e iniziativa privata si alleano nella lotta contro le malattie che colpiscono i più poveri. La scelta del metodo di ricerca più promettente non viene fatta dal settore pubblico, ma dai ricercatori stessi, che, come avviene in altri campi, possono intraprendere anche strade diverse, mentre il finanziamento pubblico diretto alla ricerca inevitabilmente privilegia solo pochi approcci, non necessariamente i più innovativi.
Dal punto di vista del contribuente, poi, c’è la garanzia che le risorse impiegate vadano a buon fine, perché il denaro pubblico è utilizzato solo quando vaccini efficaci sono effettivamente disponibili. Inoltre, risorse addizionali private, motivate dalla creazione di un mercato che altrimenti non esisterebbe, vengono mobilitate nella ricerca che beneficia soprattutto i paesi più poveri subito, prima ancora dell’esborso di finanziamenti pubblici.
L’idea di Amc per i vaccini è stata avanzata già alcuni anni fa in ambito accademico, soprattutto da Michael Kremer di Harvard. Nel febbraio 2005 è stata inserita nell’agenda politica dall’Italia, che l’ha proposta agli altri paesi G8 come meccanismo innovativo per accelerare la scoperta di nuovi vaccini e contribuire allo sviluppo economico dei paesi più poveri. L’Italia, con la collaborazione tecnica di Banca Mondiale e Global Alliance for Vaccines and Immunization (Gavi), ha poi presentato nel dicembre 2005 un Rapporto al G8 dove si è illustra una proposta operativa di Amc. Il G8 lo ha accolto positivamente e ha dato a Banca Mondiale e Gavi, sotto la guida di Italia e Regno Unito, il mandato di elaborare un progetto pilota da lanciare entro il 2006.
Il progetto pilota riguarda il vaccino contro il pneumococco: la causa maggiore, tra le malattie infettive, di mortalità infantile, con un milione di vittime sotto i cinque anni, e più di uno e mezzo in totale, ogni anno. Gavi e Banca Mondiale stimano che la più rapida introduzione del vaccino, determinata dall’Amc possa salvare oltre cinque milioni di vite entro il 2030.
Il progetto pilota è stato presentato al vertice G8 di San Pietroburgo, dove ha incontrato il pieno appoggio di Regno Unito e Canada e si è deciso di aprire l’iniziativa anche ad altri paesi. In settembre e novembre sono state organizzate due riunioni a livello tecnico, a Roma e a Londra, rispettivamente, cui hanno partecipato rappresentanti di Australia, Brasile, Canada, Cina, Francia, Giappone, Italia, Norvegia, Olanda, Regno Unito, Russia, Spagna, Stati Uniti, Svezia e Svizzera, oltre che della Commissione europea e della Gates Foundation.
Le due riunioni sono state proficue e hanno permesso di finalizzare i vari dettagli operativi per consentire l’avvio dell’iniziativa. In questo momento sono in corso contatti tra i paesi e gli organismi interessati per definire le modalità di ripartizione del sostegno finanziario. Italia, Regno Unito e Canada si sono impegnati a provvedere a due terzi delle risorse necessarie, quantificabili complessivamente in 1,5 miliardi di dollari. Il lancio pubblico dell’iniziativa è previsto nei primi giorni del 2007.
Amc rappresenta un approccio innovativo alla lotta contro la povertà e le malattie nei paesi in via di sviluppo che può essere preso ad esempio anche per interventi in altri campi.

* Ministero dell’Economia e delle Finanze

La replica di Francesco Daveri

Dall’utile intervento di Carlo Monticelli ho appreso che l’attenzione del governo italiano è già focalizzata sullo sviluppo di progetti multilaterali simili a quelli di cui suggerivo l’importanza nel mio articolo, come la promozione di progetti di vaccinazioni nei paesi in via di sviluppo, attraverso accordi come IFFIm, AMC e l’Alleanza GAVI (http://www.gavialliance.org/). Come gentilmente comunicatomi da Claudio Tanca, responsabile per le Relazioni Esterne di GAVI, l’Alleanza GAVI è una partnership pubblico-privata che include tra i suoi partner i paesi in via di sviluppo, governi donatori dei maggiori paesi industrializzati, l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), l’UNICEF, la Banca Mondiale, l’industria dei vaccini sia nei paesi industrializzati che in quelli in via di sviluppo, gli istituti di ricerca e salute pubblica, organizzazioni non governative e la Fondazione Bill & Melinda Gates.

Al sito http://www.iff-immunisation.org/02_financial_background.html si apprende che l’Italia si è impegnata ad erogare 473 milioni di euro per sostenere l’iniziativa su un periodo di 20 anni. E Carlo Monticelli, nel suo intervento, va oltre e ricorda che Italia, Canada e Regno Unito si sono impegnati a provvedere a più breve scadenza a due terzi del miliardo di euro circa necessario per far partire il progetto pilota dell’AMC (Advance Market Commitment) contro lo pneumococco.

Bene. I programmi futuri ci sono. Rimane il fatto che, se non ho interpretato male le informazioni disponibili e malgrado gli sforzi profusi fino a questo momento, nel bilancio 2007 come in quello degli anni precedenti, non c’è un solo euro dedicato a queste iniziative. Per questo, sollecitare il governo italiano a produrre risultati tangibili (per i destinatari – gli unici che contano!) non è irrilevante né ingeneroso nei confronti di chi sta provando a mettere in pratica questi progetti.

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