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Due binari per la riforma della Pa

Nel memorandum governo-sindacati sulla riforma della Pa si intende migliorare la qualità dei servizi pubblici e misurare, verificare e incentivare la qualità dei servizi. Tuttavia, riuscirà a tradurre le buone intenzioni in comportamenti virtuosi? La proposta di Authority afferma la cultura della valutazione. Ma dovrebbe spostare il raggio d’azione dai singoli lavoratori alle singole unità amministrative, perché agli utenti interessa misurare la qualità ed efficienza dei servizi. Occorre dare ai dirigenti gli strumenti per esercitare con responsabilità il loro ruolo, in una dialettica equa ed equilibrata fra Pa e sindacati.

Due binari per la riforma della Pa, di Carlo Dell’Arringa

Sui temi della pubblica amministrazione si assiste a una nuova fase di attivismo politico-sindacale. Evidentemente le polemiche di questi mesi, riguardanti sia il costo del lavoro (troppo alto), sia la produttività (troppo bassa) dei pubblici dipendenti, hanno indotto governo e sindacati a correre ai ripari. E, come la buona tradizione suggerisce di fare in circostanze di questo genere, la risposta consiste nella produzione di nuovi accordi e nuove leggi.

L’iniziativa corre su due binari distinti: quello del memorandum governo-sindacati e quello della proposta di legge sulla Authority (per la valutazione dei pubblici dipendenti). Per ora si tratta di “convergenze parallele”: per capire se vi sarà incontro (oppure scontro) delle due iniziative, occorre aspettare e vedere.

Sistema di contrattazione da rivedere

Nel frattempo anche il governatore della Banca d’Italia è entrato in modo deciso nel dibattito sul costo del lavoro: il 2007 sarà un anno di numerosi e importanti rinnovi contrattuali, compreso quello del pubblico impiego. Vi è il rischio – ammonisce Mario Draghi – che in questo settore si continui a pagare forti aumenti salariali senza ottenere, in cambio, maggiore produttività. Il governatore teme che il pubblico impiego trascini verso l’alto la dinamica salariale di tutta l’economia.
Segnali di questo tipo si sono già manifestati negli ultimi anni. Da un articolo di Leonello Tronti apparso su lavoce.info, risulta che dal 2002 al 2005 le retribuzioni pubbliche sono aumentate del 4,1 per cento all’anno , rispetto al 2,7 per cento dell’industria e al 2,2 per cento dei servizi privati. La Newletter dell’Aran, riporta che negli ultimi cinque anni le retribuzioni pubbliche sono aumentate, complessivamente, di quasi il 15 per cento più di quelle del settore privato. Gli aumenti maggiori sono stati ottenuti attraverso la contrattazione integrativa a livello di singola amministrazione.
Come avevo segnalato in un precedente articolo, gli aumenti sono stati concessi prevalentemente sotto forma di promozioni dei dipendenti. (1) Tutte contrattate col sindacato e decise, tranne alcune lodevoli eccezioni, con criteri basati poco sulla valutazione dei singoli e molto sulla semplice anzianità di servizio.
In un interessante articolo che Cesare Vignocchi ha scritto e che è pubblicato in una raccolta di saggi curata dal sottoscritto e da Giuseppe Della Rocca, si dimostra che gli aumenti retributivi di carattere integrativo non hanno mostrato alcuna correlazione con le condizioni dei mercati locali del lavoro e nessun riferimento alle retribuzioni pagate nel settore privato. Esiste solo una certa correlazione con le condizioni di bilancio degli enti in cui si è svolta la contrattazione. Cioè: dove le condizioni di bilancio erano migliori, le retribuzioni sono aumentate di più. Il che può sembrare giusto e in un certo senso, naturale, se non fosse che spesso le buone condizioni di bilancio sono state ottenute con maggiorazioni delle addizionali di imposta e con più elevate tariffe dei servizi pubblici. Dal canto loro, i contratti nazionali di questi ultimi anni, pur avendo rispettato i tetti di spesa imposti dalle Leggi finanziarie che si sono succedute nel tempo, hanno spesso indotto le amministrazioni a trasformare quote del salario variabile in quote fisse della retribuzione, a tutto svantaggio della flessibilità e della possibilità di legare, a livello locale, il salario con la produttività.
Se questi sono i risultati, è evidente la necessità di rivedere il sistema di contrattazione che sembra aver perso di vista gli obiettivi delle riforme del lavoro pubblico, quella del 1993 e quella del 1998. Da questo punto di vista il contenuto del memorandum sottoscritto da governo e sindacati è da condividere pienamente. Sottolinea la necessità di “migliorare la qualità dei servizi pubblici” per garantire la “crescita dell’economia” e afferma l’esigenza di “misurare, verificare e incentivare “la qualità dei servizi” e assume la qualità, i risultati e la produttività del lavoro come riferimento per le retribuzioni sia dei dirigenti che del personale. Tutto bene, quindi? Aspettiamo a dare una risposta definitiva. Una certa cautela è suggerita dal fatto che le cose scritte nel memorandum, possono essere ritrovate tali e quali in analoghi documenti del passato. Basterebbe rivedere le tante direttive impartite dai vari governi in occasione dei rinnovi contrattuali. Il problema è che tutte queste buone intenzioni non si sono mai tradotte (per lo meno in misura adeguata) in fatti concreti e in comportamenti virtuosi. La vera novità del memorandum non sta tanto negli obiettivi indicati, totalmente condivisibili. Sarebbe veramente innovativo se quegli obiettivi venissero effettivamente raggiunti. Chi può garantire che questa sarà la volta buona? La speranza è dura a morire, ma qualche dubbio rimane.

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L’Authority e la cultura della valutazione

Qui si può inserire il discorso sulla proposta di Authority. È il caso di chiedersi se questa iniziativa possa costituire uno strumento nuovo e valido per andare nella direzione auspicata dal memorandum e cioè di aumentare l’efficienza della Pa, e la qualità dei servizi pubblici.
Non entro nel merito della proposta, vi sarà tempo per discuterne. Vorrei solo mettere in luce un aspetto che è stato ben illustrato da un recente contributo di Carlo D’Orta che appare sull’ultimo numero della Newsletter dell’Arel. Il nucleo centrale dell’iniziativa si fa apprezzare per l’affermazione della cultura della valutazione nelle pubbliche amministrazioni e per la necessità che queste ultime siano pungolate a praticare la valutazione delle prestazioni e dei risultati dei loro dipendenti. Però, la costituenda autorità non può concentrarsi solo sulla valutazione dei singoli lavoratori. Anzi, sarebbe opportuno che spostasse il suo raggio di azione dai singoli lavoratori alle singole unità amministrative, prese però nel loro insieme. È essenziale, sostiene D’Orta, porre innanzi tutto l’accento sulla misurazione/valutazione di ciò che più interessa agli utenti e cioè la qualità ed efficienza dei servizi, ossia degli output delle amministrazioni che toccano direttamente cittadini e imprese. Partendo da queste valutazioni, verranno poi valutati i singoli lavoratori.
La valutazione dell’output è destinata a divenire la base naturale, nelle forme e procedure opportune, anche per quella dei risultati e delle prestazioni dei singoli, che gli interessati devono percepire come oggettiva ed equa. Alla fine resterebbe pur sempre alle singole Pa e ai sindacati, nelle rispettive funzioni e dialettica, il compito di attivare gli strumenti – incentivi, valutazioni, controlli e se del caso, sanzioni – idonei a trasferire sul personale la domanda di produttività e qualità espressa dai cittadini-clienti.
Certo, occorre che la dialettica fra Pa e sindacati sia equa ed equilibrata. Oggi è forse squilibrata, proprio per le carenze che i dirigenti delle Pa mostrano nei loro rapporti coi sindacati. Nel volume citato sopra sono contenuti due interessanti contributi di Giuseppe Della Rocca e di Valerio Talamo. Il primo mette in luce come spesso la contrattazione collettiva invada quelle che si definiscono “prerogative manageriali” e cioè le funzioni che i dirigenti devono svolgere per garantire efficacia ed efficienza alla attività delle amministrazioni. Il secondo mostra come la tanto auspicata separazione fra gestione e attività politica di indirizzo funzioni poco in quanto la “politica” non fornisce ai dirigenti gli strumenti e il sostegno di cui hanno bisogno per esercitare le loro funzioni con responsabilità. I “manager” della Pa sono quindi stretti in una morsa, fra i sindacati da un lato e i politici dall’altro, e sono ben lontani dalla possibilità di esercitare quel ruolo di “privato datore di lavoro” che la legge ha loro assegnato.


(1)
Passaggi di livello con relativo aumento della quota fissa della retribuzione.

Perché serve la valutazione individuale dei lavoratori nel settore pubblico , di Andrea Ichino

Nel suo ultimo articolo su lavoce.info, Carlo Dell’Aringa  ha sostenuto che la valutazione individuale dei lavoratori pubblici non serve perché i consumatori sono interessati al buon funzionamento complessivo degli uffici, non al comportamento dei singoli lavoratori che in essi operano. Dissento da questa affermazione per almeno due motivi.

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I tempi dei giudici di pace

In primo luogo, è evidente che il buon funzionamento di un determinato servizio pubblico non è indipendente dalla produttività dei singoli lavoratori che in esso operano. Lo dimostra una ricerca a cui sto lavorando insieme a Decio Coviello e Francesco Contini sulla durata dei processi nell’Ufficio dei giudici di pace di una media città italiana. (1)
Questo Ufficio assegna i processi ai giudici in modo totalmente casuale. Ne consegue che i giudici hanno lo stesso carico di lavoro in termini di qualità e quantità. Sono inoltre assistiti dalla stessa cancelleria e operano nella stessa struttura. Ciò nonostante, prendendo ad esempio i casi di cognizione ordinaria, la durata mediana dei processi assegnati al giudice più lento è circa due volte e mezzo maggiore di quella corrispondente al giudice più veloce. Inoltre nell’evento ipotetico in cui tutti i casi fossero assegnati a giudici con una produttività pari a quella del 25 per cento migliore, la durata mediana dei processi in questo ufficio si ridurrebbe di quasi il 40 per cento (tutte queste differenze sono statisticamente significative).
Il cittadino che si rivolge all’Ufficio non può scegliere il giudice, ma non per questo dovrebbe disinteressarsi della produttività individuale dei singoli magistrati, poiché da questa può dipendere, in valore atteso, un miglioramento considerevole del servizio ricevuto. Inoltre non sembra accettabile che il cittadino sia messo di fronte a una roulette russa tale per cui la variazione di qualità del servizio ottenuto può arrivare fino a due volte e mezzo a seconda di quale giudice sia assegnato al suo caso. I risultati dimostrano che se nell’Ufficio operassero solo i giudici migliori o se i meno produttivi fossero stati indotti a lavorare di più con opportuni incentivi, la performance dell’intero ufficio sarebbe migliorata. Per fare entrambe queste cose, la valutazione individuale dei lavoratori è essenziale, proprio a vantaggio dei singoli utenti.

La responsabilità del singolo

In secondo luogo, l’affermazione di Carlo Dell’Aringa è particolarmente pericolosa se induce a sollevare i singoli lavoratori dal sentirsi responsabili del funzionamento complessivo del servizio pubblico in cui operano. Quando qualcosa non funziona in Italia, nessuno si sente mai responsabile individualmente: la colpa è sempre di qualcun altro o di qualcosa d’altro. Spesso la mancanza di risorse è il capro espiatorio a cui viene addebitato ogni mal funzionamento. La valutazione individuale ha anche la funzione educativa di diffondere nel nostro paese l’etica della responsabilità individuale. Ma questo non tanto per un motivo di equità nell’attribuzione di colpe e meriti, quanto soprattutto per un motivo di efficienza. I risultati della ricerca sui giudici suggeriscono che investire maggiori risorse in un servizio in cui la produttività dei singoli lavoratori sia così disomogenea porta ragionevolmente a sprecare parte delle risorse aggiuntive, combinandole con lavoratori che finirebbero per usarle male. Per non sprecare le risorse aggiuntive bisogna prima rendere più omogenea la produttività dei lavoratori di ciascun servizio portando i peggiori ad avvicinarsi ai migliori. Anche per questo è necessaria la valutazione individuale.
Detto questo, la valutazione individuale dei lavoratori, che peraltro è prassi indiscussa nel privato, non è certamente la soluzione di tutti i problemi del settore pubblico, ma sembra difficile sostenere che non sia cosa di primaria importanza proprio a vantaggio degli utenti.

(1) La versione corrente, non definitiva, dei risultati di questa ricerca può essere scaricata da http://www2.dse.unibo.it/ichino/.

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Sommario, 7 febbraio 2007

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Relazioni pericolose

  1. giovanna colombo

    Nelle pubbliche amministrazioni esistono solo vecchi tirapiedi che sanno tutto l’uno dell’altro e che per non essere traditi concedono favori e favori (io li chiamo inciuciati) per cui si ritrovano solo “loro” a gestire una situazione di comodo dimenticando purtroppo che oltre a “loro” esistono altri più meritevoli e lavoratori.
    Una lavoratrice di Poste italiane

  2. Fabio Pietribiasi

    L’articolo riserva le sue considerazioni più interessanti nella parte conclusiva, quando ricorda la separazione dell’attività di indirizzo di competenza politica da quella di gestione di competenza dirigenziale. E’ un principio introdotto dalla riforma del 1990 e ribadito innumerevoli volte da successive fonti legislative e regolamentari. Tuttavia non fa passi avanti ed anzi continua trovare tiepida accoglienza fra molti dirigenti e forte opposizione fra i politici, soprattutto fra gli amministratori degli Enti locali che perderebbero visibilità se si astenessero dall’attività di gestione.
    Durante la mia passata esperienza di dirigente, ho maturato la convinzione che questo principio non possa trovare applicazione se non con un meditato lavoro di lungo termine, acquisendo la cultura e la sensibilità per ridisegnare i rapporti ( e, ove necessario, i confini) fra responsabilità tecnica, politica, sindacale. Solo con questo presupposto si può seriamente pensare che proposte come quelle in discussione per il pubblico impiego possano essere degne di miglior sorte rispetto al passato. Non dovrebbe pertanto preoccupare che il memorandum sembri una minestra scaldata quando parla di merito, valutazione, efficienza; meglio ribadirli che dimenticarli questi criteri. Dovrebbe preoccupare piuttosto che quell’essenziale lavoro di lungo termine non susciti passioni e non se ne veda l’inizio.

  3. antonio petrina

    Egr. prof. Delì’Arringa,
    condivido la sue preoccupazioni sull’auspiscabile aumento di produttività nella p.a. e la ricerca di strumenti per la concreta valutazione di essa. Forse in Inghilterra sono più avanti di noi perchè si incentiva lo sforzo di migliorare l’ordinario, senza sforzarsi di ricercare astrusi ma teorici modelli e /o formule per la valutazione della produttività.Comunque . nel mio piccolo , dovendo valutare i dipendenti del Comune ( essendo segretario com.le) abbiamo stabilito con gli amministratori che ,a fronte degli obiettivi e/o progetti di miglioramento dei servizi, seguano valutazioni periodiche ed il contatto diretto con gli interessati con esame finale del nucleo di valutazione , al fine di misurare quell’aumento di produttività richiesto.Il risultato funziona!
    Non è vero che nella p.a. ci sono solo tirapiedi responsabili che amano far carriera per conoscenza, con progressioni interne et similia e/o fannulloni illicenziabili ( direbbe l’editorialista del Corsera) , ma anche dipendenti con la passione per il loro lavoro che è quel che poi conta specialmente nella p.a.,giacchè anche le più belle riforme della p.a. ( orsono 10 anni della riforma bassanini per i segretari e/o direttori gen.li che invero dall’Aran sembrano a tutt’oggi dimenticati per il loro contratto ) e di quelle all’orizzonte (con Memorandum che ampliano i poteri sindacali demotivando i dirigenti ), non aggiungono nulla se non è incentivata la cultura del lavoro perchè in fondo è sempre ed unicamente la persona la risorsa del capitale lavoro !

    • La redazione

      Grazie per il commento . Sono d’accordo con Lei. Talvolta si insiste solo su come “premiare i migliori” e “punire i fannulloni”. Occorre anche diffondere la cultura del senso del dovere, del senso civico e del servizio pubblico, inteso come “missione” a favore della collettività. Insomma non è
      solo questione di “convenienze”. E’ anche (soprattutto ?) questione etica e morale. Comunque ci vogliono anche gli incentivi-disincentivi.

  4. luigi oliveri

    La contrattazione collettiva, a partire dal 1999, ha consentito di prevedere progressioni economiche e di livello per i dipendenti pubblici. Finanziate, in gran parte, da fondi riservati proprio a tale fine,
    E’, dunque, vero che i salari sono cresciuti molto. Ma, è anche vero che il meccanismo prevede un autofinanziamento (in particolare per gli aumenti), che per un verso non grava come spesa nuova, per altro verso disincentiva alla oculata gestione.
    L’errore consiste nell’aver circondato di cautele eccessive un potere che dovrebbe essere del tutto discrezionale della dirigenza: incentivare e premiare i capaci.
    Le amministrazioni decentrate, specie quelle locali, commettono l’errore, perchè molto esposte a pressioni politiche, di contrattare anche i percorsi di carriera, che dovrebbero stare del tutto fuori dalle relazioni sindacali. E tali contrattazioni, ovviamente, tendono a promuovere tutti, erogare a pioggia, assicurare premi a tutti (perchè, è la giustificazione, i dipendenti pubblici non hanno la quattordicesima).
    Se non si interviene sulla contrattazione collettiva, modificandola radicalmente nella sua impostazione, i tentativi di riforma andranno a vuoto. Ma, il memorandum mira addirittura a ripristinare una vera e propria co-gestione dei sindacati. Non pare sia la strada giusta.

    • La redazione

      Grazie per il suo commento.Non sarei così pessimista sul “memorandum”.
      Concordo invece con Lei sul fatto che il sindacato, nel pubblico impiego, ha troppo potere contrattuale, soprattutto rispetto alla “scarso” potere contrattuale dei dirigenti e degli ammistratori ( che spesso, non sempre, sono deboli e remissivi). Che fare per riequilibrare il rapporto
      contrattuale ? Occorre che i responsabili politici sentano maggiromente la “voce” dei cittadini.

  5. CARMINE GRANATO

    Premetto che do il mio contributo a la voce pubblicando degli articoli in http://www.edupress.it e a volte in http://www.santagatesinelmondo.it.

    Desidero dire due parole sulla pubblica amministrazione:
    – in Italia non abbiamo un grande cultura della cosa pubblica quindi tutto ciò che è pubblico è di…NESSUNO;
    – pertanto chi dovrebbe vigilare sul buon andamento della P.A. o si adegua o viene mobbizzato.
    Rimedi? Istituire una grande scuola di preparazione per i funzionari dello stato accanto alle forme che oggi si usano.
    Responsabilizzare i dirigenti e punire con il licenziamento i dirigenti infedeli, che non vigilano e che non soddisfano i cittadini utenti.
    Non c’è alle viste una tale filosofia di gestione della cosa pubblica. Temo che passeranno ancora anni prima che si possa intravedere qualche miglioramento. O no?

  6. Luigi D. Sandon

    Temo che questo sia solo il preludio alle difficoltà che si incontreranno nell’introdurre criteri di efficienza e responsabilità nella PA. Credo inoltre che sia ingenuo credere che una valutazione complessiva al posto di una valutazione più granulare possa migliorare le prestazioni. Immagino piuttosto un livellamento verso il basso ove ognuno fa il minimo indispensabile. Solo incentivi/disincentivi personali possono migliorare la produttività.

    • La redazione

      Grazie per il suo commento. Penso al contrario che sia possibile ed utile valutare le strutture nel loro complesso: Veda l’inserto economico del Corriere della Sera di Lunedì 28.02.07 ,che riporta i casi dell’INPS e del comune di Modena. Veda anche l’articolo di Corrado e Leonardi su la voce del
      19.02.07 , a proposito del tribunale di Torino. La qualità delle strutture si fa apprezzare. E occorre valutare anche la qualità della prestazioni dei singoli dipendenti. Le due valutazioni possono sostenersi e non in una concorrenza “al ribasso”, bensì “al rialzo”.

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