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SANITA’ E POLITICA: SEPARARSI E’ DIFFICILE

Con un disegno di legge collegato alla Finanziaria il governo cerca di limitare l’ingerenza della politica nelle procedure di nomina dei direttori generali delle aziende sanitarie e dei primari. Ma le regioni rivendicano l’autonomia sancita in materia dalla riforma costituzionale del 2001. E nella loro visione, la politica della salute si identifica con la gestione dell’apparato. Per ragioni diverse tra Nord e Sud. Il governo dovrebbe allora sviluppare modalità pattizie, anche sulle regole, che possano differenziarsi nei diversi ambiti territoriali.

Si torna a discutere del rapporto tra sanità e politica. A esprimere con efficacia i termini del problema è ancora la domanda: “preferireste essere operati da un chirurgo che ha una specializzazione all’avanguardia o da quello che appartiene all’entourage del politico di turno?”.
La discussione di oggi prende le mosse dall’ennesimo grido d’allarme lanciato dalla Società ligure di chirurgia, ma anche dalla presentazione di un disegno di legge collegato alla Legge finanziaria 2008 in materia di sanità (A.S. n. 1920), nel quale si propone una revisione delle modalità di selezione dei direttori generali delle aziende sanitarie e dei primari.

Una pregiudiziale per le regioni

Le posizioni in campo sono nette: da un lato, il governo nazionale che cerca di mettere al riparo le procedure di nomina dall’ingerenza della politica. Dall’altro, le regioni che considerano qualsiasi intervento una violazione dell’autonomia in materia di tutela della salute sancita dalla riforma costituzionale del 2001.
Prima ancora di valutare la proposta del governo o le soluzioni alternative, è da sottolineare come la posizione delle regioni muova da una pregiudiziale: non si può togliere il presidio della politica regionale sulla sanità, poiché essa costituisce il 70 per cento delle risorse pubbliche che questi enti impiegano nella propria missione istituzionale. Ne consegue che i direttori generali delle aziende sanitarie devono essere collegati alla regione da un rapporto di natura strettamente fiduciaria. Se questo venisse meno, verrebbe messo in crisi il circuito rappresentativo interno all’ente, poiché il mandato di governo ricevuto dai cittadini non potrebbe essere pienamente esercitato sulla più importante tra le politiche pubbliche regionali.
Il governo, invece, intende introdurre un vincolo di professionalità alla determinazione della politica. In altri termini, la politica ha il legittimo potere di nominare, ma solo tra coloro che sono riconosciuti tecnicamente qualificati. (1)

La politica che vuole gestire

La visione regionale esprime l’idea che la politica della salute si identifichi con la gestione dell’apparato della salute, dalla quale non può essere separata. La decisione sull’apertura di un pronto soccorso, la creazione, chiusura o fusione di dipartimenti ospedalieri, la preposizione di dirigenti apicali – i primari – sono decisioni che passano per gli assessorati, se non anche per le presidenze delle giunte.
Il nodo da sciogliere, quindi, al di là della patologia del “manager o del primario con la tessera di partito”, è quello del modello istituzionale per il comparto salute, con specifico riferimento alla questione dello spazio che è opportuno riservare e garantire alla sfera tecnica.
C’è da chiedersi se sia possibile immaginare, parafrasando un’espressione tipica del settore, un modello di evidence based management in sanità, nel quale la trasformazione dei fattori produttivi in servizi e prestazioni è una prerogativa del solo management, mentre alla politica rimane il compito, non certo meno importante, di individuare gli obiettivi di salute, le quantità di risorse disponibili per realizzarli, chi e quanto paga un’eventuale compartecipazione ai loro costi, le regole per la valutazione delle performance a cui collegare sistemi di incentivo o sanzione.
Si può, in altri termini, far avanzare un modello di governo della sanità nel quale la scelta dei sistemi di acquisto da parte delle aziende sanitarie o i percorsi professionali dei medici non siano determinati prevalentemente dai partiti politici, che devono invece riappropriarsi di un potere forte di verifica della congruenza tra gli obiettivi e i risultati conseguiti dai manager? Una politica che, facendo questo, non deciderebbe di meno, al contrario, perché quando quella congruenza non si registra, dovrebbe avere il coraggio di sostituire, licenziare e riavviare in fretta un nuovo ciclo gestionale. (2)

Il paradosso del Titolo V

Nel dibattito sulla governance della salute occorre considerare il modo in cui si sono distribuite le diverse visioni e, in particolare, l’idea che la salute gestita dalla politica attraversa trasversalmente il ceto politico regionale, infrangendo le appartenenze di area. I politici regionali, di destra e di sinistra, sono uniti nell’affermare l’indispensabilità della politica che gestisce la salute. Di fronte a questo schieramento si collocano il governo nazionale – che peraltro non intende abdicare al tentativo di una soluzione condivisa del problema – e un’opinione pubblica che ritiene sempre più deleteria l’infiltrazione della politica in terreni che non le appartengono.
A ben vedere, le ragioni che uniscono il fronte regionale sono diverse tra Nord e Sud, perché diverso è il modo in cui la politica concepisce la propria presenza in sanità, nelle varie aree del paese. Se nelle solide realtà del Centro-Nord la politica ritiene l’equilibrio raggiunto nel proprio ambito territoriale il migliore possibile, nel Sud questo pensiero è sostituito dalla consapevolezza che le risorse della salute costituiscono una parte consistente dell’intero Pil del territorio.
La drammatica sequenza delle morti in Calabria riflette proprio questa situazione: una rete ospedaliera progettata per allocare risorse sul territorio attraverso micro-ospedali, che non è in grado di assicurare la sicurezza delle cure neppure per interventi dai livelli di rischio poco elevati.
Le politiche della salute, che dovunque rappresentano un forte moltiplicatore di reddito (3), in molte aree del Sud costituiscono la prima fonte di ricchezza. E si comprendere come le scelte sul loro impiego non siano prevalentemente finalizzate a migliorare i livelli di efficacia ed efficienza del servizio sanitario, ma ad attuare una logica redistributiva.
Questa distonia crea il blocco attuale: le regioni forti difendono il proprio “buon governo” dall’intrusione di Roma, ma così facendo impediscono che questa intervenga a sostegno delle regioni deboli, rimaste al palo oppure catturate da dinamiche di “malmanagement”.

Lo stretto spazio per una soluzione

Quando nel 2006 è stato siglato l’accordo tra Stato e regioni (Patto per la salute) vi era da un lato la necessità di certezza sulla entità delle risorse destinate alla sanità nel triennio di riferimento, dall’altro l’urgenza di coadiuvare alcune regioni in situazione di dissesto finanziario, con i piani di rientro per sette.
L’accordo sulle regole per una governance della salute che bilanci le esigenze della politica e la necessità di competenze tecniche è difficile da ricondurre a queste condizioni. Rimane invece molta distanza tra l’affermazione delle regioni di una politica sanitaria che nomina (tutto), cogestisce (molto) e valuta (troppo poco) e la richiesta del governo di una politica sanitaria che nomini (tra coloro che sono pre-selezionati dai tecnici), programmi (lasciando la gestione ai tecnici) e valuti (rendendo evidenti sia le valutazioni che gli esiti delle stesse).
Una strada è quella che lo stesso governo abbandoni la tradizionale vocazione monistica, poco utile per affrontare un panorama regionale così diverso al suo interno, per sviluppare invece modalità pattizie (anche sulle regole) che possano differenziarsi rispetto al territorio sul quale hanno producono effetti.

* Le valutazioni espresse sono esclusivamente personali e non coinvolgono l’ente di appartenenza.

(1) Ovviamente questa è ancora una definizione di genere, poiché di meccanismi per valutare tale qualificazione professionale se ne possono individuare molti, e anche piccole differenze determinano l’ampliamento della discrezionalità di natura politica a svantaggio del giudizio tecnico, e viceversa.
(2) Con riferimento all’ingerenza della politica nelle dinamiche gestionali, che l’attuale sistema non assicuri un’efficiente condotta manageriale e neppure un efficace controllo politico su tali dinamiche, è evidenziato macroscopicamente dal fatto che sulla dinamica dei costi del Ssn pesa in maniera determinante la voce degli acquisti di beni e servizi intermedi, cresciuta tra il 2004 e il 2006 del 30 per cento. 
(3) La produzione e il valore aggiunto diretto e indotto della filiera salute nel 2006 si attesterebbe al 12,5 per cento del Pil secondo il recente studio Confindustia L’andamento della “filiera della salute”, in corso di pubblicazione; al 17,6 per cento del Pil prendendo in considerazione le sole attività dell’industria e del terziario. Un effetto moltiplicatore consistente tenendo conto che la spesa sanitaria pubblica e privata diretta si attesta all’8,6 per cento del Pil.

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14 commenti

  1. Luigi Arru presidente ordine dei Medici Nuoro

    Le osservazioni di Tardiola sono corrette, ma indipendentemente dal modello gestionale che la politica sceglie, esiste un problema a monte. La scelte dei Direttori Generali, vengono effettuate, grazie alla genericità dei criteri stabiliti dalla legge, privilegiando meriti di appartenenza piuttosto che capacitò gestionali reali. A loro volta i Direttori generali scelgono i direttori di struttura complessa (ex primari), con la massima discrezionalità, anche perchè lo sviluppo della nostra carriera professionale è basato sull’anzianità. Chi certifica il numero e l’esito degli interventi di un chirurgo?Chi certifica che io ematologo so fare diagnosi di leucemia e sia in grado di curarla?Nessuno! A Vibo Valentia, secondo quanto riferito dal Ministro salute in commissione Igiene e sanità, 3 medici( a tempo determinato) su 4 non erano in grado, secondo il loro Cv, di eseguire una manovra salvavita. ovviamente l’ha dimostrato ex-post un inchiesta del Ministero! Perchè allora non rivedere il sistema nell’insieme e riformare gli ordini, parlando invece di Regulatory Board, che verifichino l’acquisizione delle competenze ( non solo il titolo legale) acquisite e il loro lmantenimento?

  2. leonardo gentile

    Un giornalista attento e disincantato come Pirani sulla Repubblica si è fatto portavoce da anni del tema proposto nell’ articolo.
    Lo seguo da qualche tempo e registro di volta in volta ” l ‘intenzione ” dei politici di turno di fare qualcosa.
    Ma se il qualcosa si riduce, come mi sembra di aver letto e relativamente alle nomine dei primari, alla variazione del criterio attuale di nomina “monocratica” da parte del Direttore generale a quello che prevede la nomina stessa espressa da una commissione composta da 5 membri di cui 3 di indicazione del Direttore generale, c’è ben poco da sperare sulla volontà della politica ( di destra o di sinistra ammesso che questi termini vogliano ancora dire qualcosa ) di allontanarsi dalla ” gestione ” della sanità.

  3. Giorgio Giuliani

    La politica opera scelte che le competono perché deputate a compiti organizzativi quali i direttori aziendali o ospedalieri ma fa anche scelte di tipo professionale, i primari, senza averne i titoli per i motivi che l’articolo ha ben descritto. Un effetto devastante e paradossale di questa “ingerenza della politica” negli spazi della professione attraverso nomine secondo criteri di appartenenza piuttosto che di competenza e che non è stato ancora ben valutato è che in questo modo si scaricano sulla professione responsabilità del versante organizzativo spacciandole come responsabilità della professione, vedi le liste di attesa, i ritardi e le disorganizzazioni nella assistenza etc. Tutto questo porterà in tempi medi a) alla uscita dal sistema delle professionalità mediche migliori che potranno permettersi di farlo; b) nel tempo crescerà nello immaginario della opinione pubblica la convinzione che il sistema è malato per colpa di una classe medica “cattiva” o di bassa qualità dalla quale è meglio rifuggire, se possibile, ad esempio sfruttando assistenze alternative privatistiche.

  4. Vincenzo Tradardi

    L’idea salvifica di separare la sanità dalla politica mi sembra sbagliata alla radice. La comunità scientifica non è migliore di quella politica e non opera secondo “meritocrazia”. Basta guardare al mondo universitario, autonomo per definizione: nepotismo, concorsi truccati e fuga dei cervelli. La sanità pubblica è buona se c’è buona politica. Ma una buona politica trova due ostacoli principali. Il primo è l’intreccio fra politica e affari che in alcune (intere) regioni diventa intreccio fra criminalità organizzata e sanità (il 70% del disavanzo in sanità si concentra in tre sole Regioni : Lazio, Campania e Sicilia!). Un secondo ostacolo è annidato nel d.l. 502/92, che ha concentrato tutti i poteri in un unico soggetto istituzionale la Regione che programma, legifera, amministra nominando su base fiduciaria i direttori generali e controlla. Altro che decentramento! Piuttosto un ritorno all’assolutismo regio. Sperare in governatori regionali illuminati? Ma il sistema resta in ogni caso centralistico e burocratico; il ruolo degli enti intermedi (comuni e provincie) inesistente, il cittadino un utente, solo.

  5. Michele Giardno

    La sanità è cosa troppo delicata e importante per essere ricondotta in blocco agli equilibri. e ai riti, della politica. La sua gestione, per risparmiarci altre Vibo Valentia, deve ignorare le istanze politiche e gli interessi connessi che, anche se leciti e trasparenti, devono cedere il passo senza fiatare a scelte e metodi sensibili soltanto alla vita e alla salute della gente. Alla politica spetta invece il pieno potere-dovere – istituto scaltramente “rimosso” – di controllare le prestazioni, su base statistica come con (fitti) interventi “spot” affidati a clinici di chiara fama e ad alti Dirigenti non sanitari, magari in pensione. Ad un primo livello, i controlli riguarderebbero la qualtà, e toccherebbero ogni luogo di cura, incluse le cliniche private non convenzionate. Ospedali e clinche convenzionate dovrebbero in più spiegare bene come, in relazione alla qualità, spendono i denari pubblici ricevuti. E TUTTI i risultati, di primo e secondo livello, andrebbbero pubblicati INTEGRALMENTE, cioè con nomi e date, nei giornali, specie locali, a spese degli ispezionati. In questo, l’appoggio dell’opinione pubblica è cosa certa, altro che equilibri di rappresentanza…

  6. Mussari Ferdinando

    La proposta di legge per aumentare la permanenza in carica dei DG per periodi di tempo maggiori di 5 anni (7 anni), dovrebbe garantire l’elezione di persone affidabili per i due schieramenti politici. il maggiore problema è l’incapacità di liberalizzare un sistema che potrebbe esprimere, tramite il privato,di più in termini di efficacia e di efficienza, soprattutto al sud.

  7. Emilio Serlenga

    Come ogni legge fatta, viene immediatamente trovato l’inganno. Così, la legge Bindi che modificava le procedure per l’accesso alle carriere dirigenziali, apprezzabile per l’intento di ridurre l’ingerenza della politica, in realtà ha sancito la più spietata lottizzazione, fin nei gradini più bassi delle assunzioni. Nello specifico, la scelta di attribuire ai DG la "potestà" di nomina dei direttori, ha permesso di rendere ingiudicabile la scelta e i suoi criteri, quantunque espressi. Per fare un esempio, la scelta di ridurre a tre le domande del colloquio, con la scusa di non penalizzare per"par condicio" i concorrenti, ha in realtà permesso alle commissioni stesse (ergo ai DG) di far svolgere i colloqui a porte chiuse, salvo poi rendere i candidati tutti idonei. A tale proposito consiglio di far dichiarare ai vari uffici stampa delle ASL la percentuale di candidati non idonei (in altri tempi, tali candidati sarebbero stati, sommando le varie prove, almeno due terzi del lotto) ai concorsi per direttore. Soluzioni? Possibilità di far effettuare i colloqui aprendoli al pubblico; Dare tempi certi per l’indizione del concorso dalla disponibilità del posto stesso (6 mesi, un anno).

  8. Mauro Feltre

    Chi scrive ha "girato" con i Gesuiti per 20 anni a Milano e pensa che ogni illusione di separazione tra controllo politico e gestione, nella sanità, come in altri ambiti della vita economica sia da far cadere. Il potere è per sua natura decisione, capacità e possibilità di determinare le concrete sorti della vita civile. Pensare oggi, ad una separazione tra controllo politico e gestione nel settore pubblico, significa non aver compreso che non è la politica tout court che soffoca gli spiriti onesti e le competenze, ma UNA certa politica, un modo storicamente determinato di intenderla, frutto di quasi un secolo di logica democristiana spartitoria. Cambiare la politica è la strada da percorrere: le logiche del potere, la sua volontà di determinare le scelte sono immodificabili ed è utopia pensare che i tecnocrati siano meglio dei politici.Mi rendo conto che anche la strada di un NUOVO MODO DI INTENDERE LA PARTECIPAZIONE POLITICA, LA RAPPRESENTANZA DEMOCRATICA DEI BISOGNI E DELLE DOMANDE DEI CITTADINI, non è un percorso agevole e facile. Ti ammazzano civilmente se ci provi. Ma forse è maturo il tempo di spazzar via i "neodemocristiani post-sessantottini", delusi, amareggiati e cinici.

  9. Vincenzo De Ruvo

    Se sono pienamente d’accordo sulla necessità di evidenziare il problema, concordando in toto con la denuncia della Società ligure di chirurgia, dissento fortemente dalla impostazione stessa della soluzione proposta dal prof Tardiola, che finirebbe per aggravare ancor più quell’abissale differenziazione di livello qualitativo e di costi che caratterizza il panorama nazionale tra Regioni c.d. forti e Regioni c.d. deboli…. Un esempio del metodo pattizio è già davanti agli occhi di tutti ed è stato lo scandaloso ripiano a spese dell’erario nazionale dei disavanzi accumulati da alcune Regioni. Credo peraltro che la soluzione stia nel richiamare ed applicare l’art. 51 della Costituzione in tema di parità di accesso agli Uffici pubblici e l’art. 97 della stessa Carta per quanto relativo alla imparzialità dell’Amministrazione (e quindi compresa quella regionale…e quella locale) ed alla condizione di accedere agli Uffici a seguito di concorso…. Il vero dramma è oggi quello di aver introdotto, in deroga ai principi costituzionali, il c.d. spoil system, mortificando le professionalità delle PP.AA. e distruggendo i corpi burocratici dello Stato, delle Regioni e degli Enti locali.

  10. Ticonzero

    Caro Tardiola,il problema non è la politica ma piuttosto l’incredibile commistione tra pubblico e privato.In Italia esistono attrezzature diagnostiche (RNM,TAC,RX….) in abbondanza (il doppio rispetto a Francia e Germania) eppure i tempi di attessa sono interminabili…. L’efficienza del pubblico consiste nel fornire le prestazioni appropriate….quelle del privato convenzionato nel fornire più prestazioni possibile….

  11. Alessio Franzoni

    La sanità è sempre stata lottizzata (dai presidenti delle vecchie USL ai primari e alle assunzioni in genere). In sanità la lottizzazione sembra quasi un dato strutturale; in quanto tale parrebbe qualcosa di normale, cioè parte costitutiva del sistema stesso. In questo caso ciò che è considerato normale è qualcosa di conforme solo a una pessima consuetudine di immoralità. La pratica universale della lottizzazione in sanità dimostra quindi che una nomina può essere legale e nello steso tempo immorale. Insomma, tutti lottizzano e tutti presentano proposte di legge contro la lottizzazione. Il problema della lottizzazione si risolve solo se moralità/legalità coincidono, intendendo per moralità l’intero sistema dei doveri nei confronti degli scopi istituzionali della sanità pubblica.

  12. Edoardo

    Sono molto d’accordo con gli esiti del ragionamento dell’Autore. Credo infatti che una gestione del problemi mediante accordi differenziati non sia più procastinabile. Purchè i patti non diventino sempre dei semplici "patteggiamenti". Trovo molto meno convincenti invece le premesse da cui l’articolo prende le mosse, credo infatti che anche nel settore sanitario si debbano distinguere, come in altre amministrazioni, le diverse tipologie di funzioni cui devono necessariamente corrispondere competenze altrettanto diversificate. Un direttore generale non credo debba necessariamente saper curare i pazienti dell’azienda ospedaliera che dirige, ma deve invece essere in grado di prendersi cura di tutti gli utenti della propria struttura sanitaria, i pazienti in primis ovviamente, ma anche degli altri, personale sanitario incluso, implementando una "politica" organizzativa che efficiente che sia in grado di tutelare la salute dei pazienti come gli interessi degli altri utenti. Molte decisioni mi sembrano pertanto di natura politica, e credo che la direzione giusta sia proprio quella di creare una sorta di spoils system all’americana, dove i politici scelgano si, ma tra i migliori.

  13. francesco

    Volente o Nolente, le diverse navi della politica, hanno sempre attraccato nei porti della sanità. A volte con considerevoli vantaggi per l’utenza finale, altre volte, con enormi disastri. Ad onor del vero, però, avendo girato in lungo ed in largo per gli stati uniti, provvisto di un’assicurazione parziale (e non all inclusive) posso sicuramente affermare che in molti stanno peggio di noi. Se, come dicevo, quest’ingerenza della politica è sempre stata alla luce del sole e soprattutto non sempre distruttiva, un altro fenomeno, non tipicamente italiano, ma che da noi ha avuto un ottimo ambito di applicazione, rischia veramente di creare una tabula rasa: il Nepotismo. All’interno di ogni facoltà di economia dell’italica penisola, molti professori (quindi molto spesso primari) di medicina hanno piazzato figli, nipoti, fratelli, sorelle. Insomma, rischiamo di avere facoltà di medicina, studi medici e primariati, con il medesimo albero genealogico. Se tutti avessero la mano del bisturi ferma, nessuno farebbe obiezione, ma dato che la ramificazione delle raccomandazioni parte dal liceo classico, fino al primariato a pensar male qualche volta ci si azzecca.

  14. francesco

    Premesso che il sistema sanitario italiano è uno dei primi al mondo, questo però non è un indicatore di una gestione efficiente e ad una razionalizzazione della spesa, basti pensare ai debiti del Lazio o della Sicilia. Il problema della nomina dei manager è un terreno arduo e complesso proprio perchè, come ricordato nell’articolo, le regioni destinano la maggior parte del budget a disposizione verso il sistema sanitario. In questo caso la presenza di un "controllo istituzionale" sull’operato della sanità e, di conseguenza, la nomina del Direttore Generale può essere inserita nelle competenze "standard" di un Governatore. Questo però viene distorto nel momento in cui la sanità viene strumentalizzata per raggiungere fini di partito e trovare un bacino di voti sicuri; allo stesso tempo, soprattutto per le regioni con un debito elevato, l’alternanza dei vari colori politici porta al continuo cambiamento dei vertici sanitari andando ad inficiare qualsiasi programma per un rientro efficace dal debito e uno sviluppo delle aziende. Sarebbe opportuno effettuare una scelta meritocratica…in un paese dove il clientelismo, gli amici e i parenti da sistemare sono un problema quotidiano.

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