La crisi finanziaria globale potrebbe avere influenze negative sulle promesse di aumento degli aiuti internazionali e minare gli sforzi globali di lotta della povertà. Il governo italiano, al contrario di altri paesi europei, ha già sostanzialmente ridotto gli stanziamenti per la cooperazione allo sviluppo. Ma se la tendenza si consolidasse a livello mondiale, diventa importante pensare a come sfruttare al meglio le risorse disponibili. Ecco tre possibili proposte, una delle quali particolarmente provocatoria e interessante.
Soltanto poco più di un mese fa, al summit di New York sui Millennium Development Goals, i paesi ricchi hanno sottoscritto impegni per 16 miliardi di dollari aggiuntivi nella lotta alla povertà, di cui 4,5 miliardi per investimenti in educazione e 3 miliardi per combattere la malaria. Nelle ultime settimane, però, parecchie cose sono cambiate, ed è difficile stabilire quali saranno gli effetti della crisi finanziaria globale sui flussi di aiuti allo sviluppo verso i paesi poveri.
GLI AIUTI ALLO SVILUPPO E LA CRISI FINANZIARIA GLOBALE
Una recente nota del Center for Global Development mostra come altre crisi finanziarie recenti, in Giappone e in Scandinavia nei primi anni Novanta, abbiano determinato un declino significativo dei fondi destinati alla cooperazione allo sviluppo, in alcuni casi senza mai riuscire a tornare ai livelli pre-crisi.
È in parte inevitabile che i governi dei paesi ricchi, in periodi di recessione dove anche gli scambi commerciali si contraggono e si deteriora la posizione debitoria, debbano reperire le risorse necessarie riducendo o bloccando la spesa in altre aree. Durante la campagna elettorale appena finita, per esempio, entrambi i candidati alle elezioni presidenziali americane avevano dichiarato che i fondi per gli aiuti allo sviluppo avrebbero potuto ridursi. In Europa, per ora, il governo italiano è ancora una volta in contro-tendenza. Mentre Irlanda, Spagna e Germania hanno confermato la loro intenzione di aumentare i livelli degli aiuti, in Italia già la manovra di bilancio dellagosto scorso conteneva tagli sostanziali ai fondi per la cooperazione allo sviluppo.
LA RIDUZIONE DEGLI AIUTI ITALIANI
In unanalisi preparata da ActionAid, gli aiuti italiani per il 2009 potrebbero scendere fino al record negativo dello 0,09 per cento del Pil, di fonte a un livello per il 2008 che probabilmente si assesterà sullo 0,22 per cento del Pil, e contro limpegno più volte confermato del governo italiano di raggiungere lo 0,51 per cento entro il 2010. I tagli previsti per il ministero degli Affari esteri costituiscono una riduzione di oltre la metà rispetto alle disponibilità di inizio 2008. Lammontare complessivo previsto per il 2009, pari a 321,8 milioni di euro, rappresenta il minimo in termini nominali dal 2000, la metà delle risorse in termini reali rese disponibili nel 2001 e meno della metà di quello che le Ong raccolgono privatamente. Inoltre, il ministero dellEconomia non disporrebbe delle risorse necessarie per iniziare a far fronte agli impegni presi con banche e fondi multilaterali regionali di sviluppo.
COME UTILIZZARE MEGLIO GLI AIUTI ESISTENTI
Assicurare un flusso stabile di aiuto ai paesi in via di sviluppo è importante soprattutto in periodi di crisi economica internazionale, quando i flussi di capitale privato e le rimesse si riducono a favore di investimenti più sicuri. Un calo repentino dei livelli degli aiuti avrebbe un impatto diretto sulle capacità di programmazione dei paesi che da essi dipendono in modo particolare e potrebbe portare a tagli immediati sugli investimenti sociali e infrastrutturali necessari per la riduzione della povertà, con costi stimati attorno all’1,8 per cento del Pil. In passato, in periodi di crisi laiuto è stato più suscettibile di tagli rispetto ai capitali privati.
Di fronte a questo scenario, è importante chiedersi in che modo sia possibile sfruttare al meglio le scarse risorse disponibili per la lotta alla povertà a livello globale ed evitare che il poco aiuto rimasto sia di bassa qualità.
La prima risposta possibile, e che raccoglie crescente consenso, è concentrarsi sul miglioramento della qualità degli aiuti, per esempio seguendo i principi e gli impegni enunciati nella Dichiarazione di Parigi sullefficacia degli aiuti. La seconda risposta sta nel concentrare le risorse nei paesi che più ne hanno bisogno, diminuendo per esempio i flussi degli aiuti verso i paesi a reddito medio.
La terza risposta contraddice in parte la seconda, e parte da una proposta lanciata di recente da Adrian Wood, professore di economia a Oxford, in un editoriale sul Financial Times . In molti paesi poveri, sostiene il professor Wood, gli aiuti costituiscono più del 10 per cento del prodotto nazionale e quasi metà del bilancio pubblico. Una tale dipendenza da fonti di finanziamento esterne è causa di una serie di gravi problemi, dovuti soprattutto al fatto che i governi devono rendere conto principalmente ai paesi donatori invece che ai propri cittadini, distorcendo quindi i processi democratici e limitando lefficacia dellazione di governo. La soluzione provocatoria di Adrian Wood è di limitare i flussi degli aiuti a ciascun paese al 50 per cento delle tasse che il governo è in grado di raccogliere a livello domestico. La proposta ha suscitato un acceso dibattito tra alcuni dei più conosciuti economisti dello sviluppo a livello mondiale, da Jeffrey Sachs a Bill Easterly, da Gustav Ranis a Michael Lipton. (1)
Mentre alcuni condividono la preoccupazione per gli alti livelli di dipendenza esterna di certi paesi e dubitano della capacità delle agenzie dei paesi donatori di promuovere lo sviluppo economico, altri ritengono che la proposta, oltre a essere politicamente controversa, sia troppo rigida per funzionare. Altri ancora sostengono che, data lurgenza del problema della povertà globale, questo sia il momento sbagliato per ridurre gli aiuti e che è invece necessario insistere nellassicurare la massima efficacia degli interventi finanziati.
Ognuna delle proposte considerate ha dei pro e dei contro e delle chiare difficoltà nellessere promossa e adottata. Ad ogni modo, ci sembra importante che vengano discusse seriamente, per evitare che le riduzioni dei fondi per la cooperazione allo sviluppo, presenti e future, avvengano in forma casuale, e potenzialmente più deleteria, per gli sforzi internazionali di riduzione della povertà.
(1) Vedi i due forum: http://blogs.cgdev.org/globaldevelopment/2008/09/adrian_woods_ft_proposal_to_ca.php
e
http://blogs.ft.com/wolfforum/2008/09/how-donors-should-cap-aid-in-africa/.
Foto: Il palazzo di vetro, sede delle Nazioni Unite (da internet)
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ARMANDO CENTELEGHE
Credo che in presenza di un calo delle risorse la questione prioritaria sia non tanto stabilire un rapporto quantitativo tra aiuto esterno e livello della tassazione interna, quanto quella di creare le condizioni locali perchè vi sia un processo di creazione del valore nella forma di impresa che attraverso l’organizzazione (di un processo produttivo e di servizi) aggiunge al costo delle risorse di input determinando un output vendibile in cambio di moneta. Il valore così generato e distribuito in salari, stipendi, profitti, remunerazione di altre imperse a monte definisce la capacità delle comunità di investire in istruzione, sanità, sicurezza attraverso le istituzioni.
iacopo viciani
I dati diffusi il 27 novembre dallOCSE/DAC, confermano che nel 2007 il rapporto APS/PIL italiano si è attestato definitivamente allo 0,19%, contro lo 0.20% dellanno precedente. Anche alcuni aspetti qualitativi destano preoccupazione: laiuto complessivo allAfrica sub-sahariana, si riduce di quasi quattro volte rispetto al 2006 a favore del nord Africa, ma la percentuale al netto del debito è comunque aumentata del 40%; un altro dato preoccupante è quello relativo alla percentuale di aiuto legato: lItalia rimane il peggiore tra tutti i donatori dopo Portogallo e Grecia. Tuttavia il 2007 ci presenta alcuni miglioramenti. LItalia ha versato il 100% di quanto promesso; si sono ridotti del 25% i costi amministrativi. Escludendo le componenti che pur contabilizzate come aiuto non costituiscono trasferimenti di risorse finanziarie verso i paesi in via di sviluppo – laiuto italiano genuino è infine passato dallo 0,11% sul PIL nel 2006 allo 0,16% del 2007, sono cresciuti del 10% gli stanziamenti genuini ai Paesi meno avanzanti e raddoppiati quelli per i servizi essenziali di base. Occorrebbe capitalizzare su questi progressi e risolvere la debolezza quntitaviva.
giancarlo arcozzi
Concordo pienamente con le considerazioni del prof. Wood. In un Paese come il Senegal, nel quale vivo, la situazione spesso presenta aspetti ripugnanti. Credo che esista una terza via: quella dei crediti allo sviluppo. E’ la strada intrapresa dal nostro Ministero degli Esteri qui in Senegal: potenziare l’imprenditorialità locale o mista italo-senegalese attraverso erogazione mirata di crediti a basso interesse: 2%. Ma sarà indispensabile evitare che gli abituali approfittatori locali facciano lievitare il tasso o si impadroniscano di gran parte dei fondi. Occorre fare cio’ che normalmente non si fa: controlli di merito sull’impiego dei crediti senza troppo mediare con le autorità locali. Si tenga conto che molti operatori non tollerano più la voracità e l E non affidarsi alle tradizionali ONG. Infine serve aprire i nostri mercati ai loro prodotti: i profitti potranno alzarsi e le capitalizzazioni pure. Chiaro che misure simili possono essere sostenute qui in Senegal, dove l’impresa privata ha una certa strutura; ed anche negli altri Paesi francofoni oppure in Etiopia e pochi altri, laddove i conflitti siano assenti. L’esempio del Marocco mi pare illuminante.
Marco Biagetti
Il sud del mondo siamo noi. Come possiamo aiutare noi stessi? Non me ne vogliate.
Nicola Limodio
Sono uno studente/studioso di Economia, e l’Aid è uno degli argomenti che più mi appassiona (l’ho trattato nella mia tesi triennale). Uno dei punti critici della cooperazione italiana, oltre alla scarsa quantità è la poca trasparenza e progettazione di lungo periodo. Manca un’agenzia che allochi le risorse secondo principi chiari e regole discusse (magari in Parlamento), pubblicando report sui risultati ottenuti (o almeno le intenzioni), manca inoltre una comunicazione chiara ed efficiente (e soprattutto semplice). Ritengo che lo stesso accorpamento al mastodontico sistema del Ministero degli Esteri paralizzi tale struttura, allontandola da omologhe agenzie più efficienti (DFID per dirne una). Come avete ricordato più volte, il problema della cooperazione allo sviluppo in Italia è poco sentito da parte del pubblico (infatti in privato grazie alle missioni religiose ed i progetti singoli si fa sicuramente di più). E’ anche vero che il nostro scarso passato coloniale ci fa sentire lontane tali tematiche. Sarebbe importante tuttavia che l’Italia attivi il proprio aiuto geopoliticamente verso l’altra sponda del Mediterraneo (almeno!).
Valerio
L’Italia è un paese che si chiude in se stesso. C’è un aumento dell’irrigidimento strutturale ed una progressiva erosione delle libertà individuali, in pochi guardano a quello che succede nel mondo. I dibattiti della politica sono tutti rivolti a piccole, inutili, questioni interne. Perdiamo tempo e insieme posizioni nel confronto con gli altri paesi, che, al contrario di noi vanno velocissimamente avanti. La pressione di una scarsa organizzazione pubblica e del diffuso malcostume di frodare lo Stato, pesano, insieme al debito, come non mai sul bilancio dello Stato. In questo quadro la scelta del Governo di iniziare tagliare i ponti con il Sud del Mondo appare tanto comprensibile quanto autolesionista. Cooperazione vuole dire aprirsi, farsi conoscere, conoscere e imparare dalle realtà locali, vuol dire uno scambio culturale. Siamo un Paese che può fare della cultura il suo business. Aprirsi per espandere il mercato, in un mondo sempre più rapidamente scosso dalla globalizzazione, è l’unica scelta possibile. Chiudersi è una scelta miope assai poco utile nel medio e lungo periodo. La qualità della Cooperazione italiana può e deve essere migliorata ma questo è un altro discorso!