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L’ECONOMIA ITALIANA DOPO LEHMAN BROTHERS

I dati ora disponibili permettono di leggere con maggiore precisione quanto è successo in Italia e negli altri paesi nei sei mesi dopo il fallimento di Lehman Brothers, l’inizio ufficiale della crisi. Ma non ci dicono tanto che l’Italia sta facendo meglio o peggio degli altri. Più che altro ci ricordano che in difficoltà ci siamo entrati molto prima degli altri. Per questo, rinviare le riforme è un lusso che l’economia italiana non può permettersi.

Il 15 maggio sono usciti i dati sull’andamento del Pil nel primo trimestre 2009. Si può quindi parlare con maggiore precisione di cosa è successo in Italia (e negli altri paesi) nei sei mesi dopo il fallimento di Lehman Brothers, cioè da quando è ufficialmente cominciata la crisi. Lo si può fare distinguendo tra gli effetti immediati della crisi (nel quarto trimestre 2008) e quelli meno immediati (del primo trimestre 2009), effetti che incorporano già in misura parziale alcune delle reazioni di politica economica nei paesi più rapidi a rispondere alla crisi. Per ottenere una valutazione ancora più precisa vale anche la pena di considerare gli indicatori mensili sul settore industriale (produzione, fatturato e ordinativi) e sulle vendite al dettaglio che arrivano fino al marzo 2009 e appena pubblicati dall’Istat. Infine, questi dati per così dire oggettivi possono essere incrociati con quelli che risultano dall’andamento del “sentiment”, di ciò che pensano le famiglie e le imprese, per vedere se esiste una correlazione tra le variabili soggettive e quelle oggettive.

IL PIL ITALIANO DOPO LEHMAN BROTHERS

I dati Istat indicano che, da quando è fallita Lehman Brothers, il Pil italiano è sceso di 4,4 punti percentuali in sei mesi, nel quarto trimestre del 2008 e nel primo del 2009, rispetto al valore del Pil registrato in media nei tre mesi che compongono il terzo trimestre 2008. Èun dato peggiore di pochi decimi di punto percentuale rispetto a quello dell’area euro e peggiore di un punto percentuale e più di quello dell’economia americana. Rispetto agli altri grandi paesi dell’Europa, l’Italia ha fatto molto meglio dell’economia tedesca che, con il –5,8 per cento dei sei mesi considerati, sta pagando duramente il fatto di essere diventato negli precedenti alla crisi il primo paese esportatore del mondo. E sta facendo molto meglio praticamente di tutti i paesi dell’Europa dell’Est, così legati all’economia tedesca e all’economia russa. L’economia italiana sta invece facendo meno bene del Regno Unito (-3,5 per cento) e in modo ancora più evidente di Spagna (-2,8 per cento) e Francia (-2,4 per cento).
Se si distinguono gli effetti immediati della crisi da quelli meno immediati, viene fuori che l’Italia ha subito un effetto immediato molto più forte degli altri, uguale a quello patito della Germania, e più alto di mezzo punto rispetto al dato medio per l’area euro. Gli effetti meno immediati della crisi sul Pil italiano sono stati invece quasi del tutto in linea con il dato medio dell’area euro.

Tabella 1: In Italia la crisi è meno peggio che altrove?

 

  Ita Eu27 Usa Ger Fra UK Spagna
q4 2008 vs q3 2008 -2.1 -1.6 -1.6 -2.1 -1.2 -1.6 -1.0
q1 2009 vs q4 2008 -2.4 -2.5 -1.6 -3.8 -1.2 -1.9 -1.8
Il Pil dopo Lehman -4.4 -4.1 -3.2 -5.8 -2.4 -3.5 -2.8
q1 2009 vs q1 2008 -5.9 -4.6 -2.6 -6.9 -3.2 -4.1 -2.9

Nota: Prime due righe: dati trimestrali. Terza riga: dati trimestrali cumulati.

Ultima riga: dati tendenziali (stesso trimestre, a distanza di 12 mesi)
I dati del Pil possono essere letti anche con riguardo al cosiddetto “andamento tendenziale” dell’economia (trimestre in corso rispetto allo stesso trimestre dell’anno precedente), che è spesso confuso con l’andamento “congiunturale” (trimestre attuale sul trimestre precedente) nel dibattito pubblico. Su questo occorre essere chiari: il meno 5,9 per cento di crescita tendenziale del Pil enfatizzato nei giorni scorsi ha a che vedere solo parzialmente con la crisi. Si tratta infatti di un dato spurio che riflette l’andamento cumulato dell’economia nei due trimestri discussi qui (il “dopo Lehman”) e dei due trimestri precedenti (il secondo e il terzo del 2008), in cui l’economia italiana – lo abbiamo appreso in novembre – era già in recessione e gli altri paesi no. Il dato tendenziale dice che l’Italia andava peggio della media euro e degli altri grandi paesi europei (tranne la Germania) ben prima che la crisi cominciasse. Come più volte sottolineato in passato, i problemi dell’Italia non derivano tanto dalla crisi, ma da quello che era venuto prima. A causa della crescita economica più lenta degli altri dopo il 1995 abbiamo perso circa venti punti di Pil rispetto alla media degli altri quattro grandi paesi europei.

Crescita del Pil in Italia e nella media degli altri quattro grandi paesi europei, 1995-2008

INDUSTRIA E SERVIZI NEI DATI MENSILI

A partire dall’inizio del mese di marzo la Borsa italiana è ripartita, anche più velocemente delle altre borse europee, il che – a fianco di episodiche buone notizie provenienti da un certo recupero di dinamismo delle esportazioni dei distretti in qualche mercato di sbocco – ha spinto all’ottimismo molti commentatori ed esponenti politici. Dai dati mensili destagionalizzati sul settore industriale e sulle vendite al dettaglio non è però molto evidente da dove tragga origine tutto questo ottimismo. Èvero che, nel marzo 2009, il fatturato dell’industria è sceso solo dello 0,8 per cento, il dato migliore dal giugno 2008 dopo mesi di “meno tre” e “meno quattro” per cento. Un segno di rallentamento, non si sa quanto duraturo, dell’intensità della crisi. Èanche vero che le vendite al dettaglio hanno fatto registrare in marzo +0,1 per cento rispetto al mese di febbraio.
Ma il dato sulle vendite al dettaglio è un indicatore che risente sia dell’andamento dei prezzi che dei volumi venduti e quindi può anche rispecchiare una certa capacità dei distributori italiani di far pagare la crisi ai consumatori in presenza di una contrazione dei volumi venduti. Come emerge dalle interviste coni responsabili marketing di aziende del largo consumo, del terziario innovativo riportate in una recente ricerca di Carlo Erminero & Co., “vista dal lato del marketing, l’attuale crisi economica è un fenomeno ancora dai contorni sfuggenti”.
Il dato meno negativo che in passato del fatturato industriale si affianca poi a un dato inalterato per la produzione industriale che ha invece confermato in marzo il -4,6 per cento di febbraio 2009. E il dato degli ordinativi dell’industria (-2,7 per cento in marzo) è sostanzialmente in linea con la media di gennaio e febbraio 2009. (1) Semmai, i dati disponibili potrebbero indicare che la crisi economica si sta svolgendo come preventivato, avendo colpito più duramente nei primi quattro o cinque mesi i settori che producono beni durevoli – i cui acquisti sono i primi ad essere posposti nel tempo durante una recessione – per poi estendersi al settore dei beni non durevoli, i quali hanno fatto registrare una riduzione congiunturale del fatturato, della produzione, rispettivamente di circa due e tre punti percentuali, nel marzo 2009 – un calo ben più serio di quello sperimentato nei primi mesi della crisi. Se questi dati saranno confermati nel mese di aprile, saranno indice del fatto che la crisi del settore industriale si sta approfondendo e sta raggiungendo i settori non coperti dagli incentivi del governo.

PIÙ CORAGGIO CON LE RIFORME PER TORNARE A CRESCERE DAVVERO

Anche se le informazioni disponibili sul dopo Lehman sono ancora troppo scarse per trarre conclusioni definitive, i dati esistenti (fino al marzo 2009) non indicano un’attenuazione dell’entità della crisi che giustifichi l’ottimismo delle borse. In ogni caso, se anche i pochi segnali positivi si moltiplicassero, ciò non toglierebbe che, se il governo non vince la timidezza nel proseguire con le riforme (età pensionabile, università, mercato del lavoro), l’economia italiana potrà – al più – ritornare al tasso di crescita medio di cui ha goduto negli ultimi quindici anni: +1 per cento l’anno, troppo poco per ridare fiducia duratura alle famiglie e alle imprese.

 

(1) Il dato di gennaio – pari a -3,7 per cento – è stato particolarmente negativo “per colpa” dell’annuncio degli incentivi all’acquisto di beni durevoli (auto, elettrodomestici, eccetera) mentre il dato di febbraio (pari a -2,1 per cento) è stato migliore essenzialmente grazie all’entrata in funzione degli incentivi.

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15 commenti

  1. Ulisse

    Dopo la crisi del 29 ci fu una tiepida ripresa e poi una nuova crisi. Ora quando gli stimoli statali nel 2011 finiranno (fiscali + base monetaria = bomba inflattiva) e i debiti pubblici mondiali avranno raggiunto il massimo sostenibile (ci saremo tutti italianizzati come dicono i capi Usa), se ci sarà la ciclica ricaduta come allora, che armi avremo ancora? Cosa succederà?Ho un forte pre-sentimento: nel prossimo decennio ci sarà più velocemente del previsto il passaggio del testimone dagli Usa+Ue all’Asia nuovo leader mondiale, poco democratico, indi purtroppo assai più efficente e “materialmente” vincente di noi. Solo pessimismo o possibile realtà?

    • La redazione

      Caro Ulisse, ho anch’io molti dubbi (come Jeffrey Sachs e molti altri) sull’efficacia di medio periodo delle politiche di espansione fiscale a cui stiamo assistendo in questi mesi. E ho scritto anche un libro (con Carlo De Benedetti e Federico Rampini) sullo spostamento di asse dall’Occidente ad Oriente. Sono però più ottimista di te sul fatto che la Cina dovrà diventare più democratica di quanto sia adesso. I suoi governanti ci appaiono a volte sordi ai diritti umani. Ma sono tutt’altro che inconsapevoli della loro importanza.

  2. Riccardo Colombo

    Non capisco per quale motivo per uscire dalla crisi, e da una stagnazione "alla giapponese" che dura da molti anni, dobbiamo effettuare delle riforme sul mercato del lavoro, l’università e le pensioni. Si parla sempre di riforma del mercato del lavoro, intendendo, immagino, una maggiore flessibilità dello stesso, ma poi spesso si dice che il problema dell’industria italiana è da ricondurre dalla bassa innovazione e al modesto livello di spese nella ricerca e sviluppo. Perchè riprendere il "tormentone" delle pensioni, quando il problema è l’occupazione dei giovani, delle donne e della forza lavoro del Sud? Penso che sia necessario abbandonare il richiamo ritualistico alle riforme (abolirei anzi la parola!) per approfondire meglio gli interventi necessari per ridare competitività e sviluppo alla nostra industria.

  3. medichini

    Sono ll titolare di una libreria professionale di Roma. Scrivo per testimoniare che la flessione è arrivata decisamente anche per noi (piccoli commercianti). Prima, a mio parere, ne percepivamo solo gli effetti psicologici derivanti da una maggiore prudenza dei consumatori. Quello che noto negli ultimi due mesi e una vera mancanza di contanti in circolazione. Inoltre, vorrei evidenziare che gli effetti della crisi si sentono molto di più sulle categorie merceologiche “tradizionali” infatti devo constatare che il reparto dedicato alle nuove tecnologie (in particolare software gestionali e banche dati) è in leggera crescita. L’unica soluzione in questo periodo resta diversificare e puntare decisi verso l’innovazione tecnologica. Aggiungo che sarebbe anche molto bello che i piccoli (consumatori, attività commerciali di piccole dimensioni ma anche PMI) si unissero per fare fronte comune contro le condizioni imposte dalla grande distribuzione che, invece di offrire un servizio, determina il mercato decidendo i prezzi, ma anche i prodotti, spesso falsando il concetto stesso di mercato.

    • La redazione

      Grazie del contributo e dei tanti spunti interessanti. E’ proprio quello che dovremmo fare nella crisi: provare a innovare e pensare al nuovo per venirne fuori. Con o senza riforme dall’alto.

  4. Maurizio

    Ritengo molto chiara l’analisi condotta dall’autore ma ritengo sia necessario un ulteriore approfondimento dell’analisi condotta distinguendo se possibile, come questi cali di PIL si realizzino nei diversi sistemi regionali. Se dovesse aver conferma l’ipotesi che quel famoso punto in meno di PIL che l’Italia perde in più rispetto al resto d’Europa deriva essenzialmente dalla zavorra economica e sociale del Mezzogiorno forse la soluzione non andrebbe trovata nelle riforme di sistema, pensioni sanità & c, ma nella realizzazione di un federalismo estremista che faccia scoppiare finalmente il sistema improduttivo e parassitario che domina diverse regioni e su quelle macerie tentare di ricostruire.

    • La redazione

      E’ vero che se Milano starnutisce per la crisi, Napoli prende la polmonite. Ma temo che un federalismo estremista produrrebbe macerie su cui sarebbe difficile ricostruire. L’Italia ha alcuni problemi di regole e di rispetto delle stesse che sono purtroppo trasversali a tutte le regioni.

  5. luigi del monte

    Premetto che non sono un economista ma vorrei chiarirmi un dubbio. Tutti gli economisti sono legati alla crescita del PIL ma alcune tesi dicono che è un indicatore poco reale del benessere di un territorio. In parte condivido e vorrei che mi toglieste questo dubbio. se per esempio in un anno si producono solo alimenti formato famiglia e l’anno successivo si passasse a solo formati monoporzioni e ipotizzando che il cibo resti invariato il PIL aumenta proprio perchè si producono più confezioni. Non so se nel PIL, ma credo di si, sia anche inserito tutti i passaggi logistici, cioè più la catena di distribuzione è lunga più aumenta il PIL. A questo punto non converrebbe adottare il PIN (prodotto interno netto)? Nel solo caso alimentare si sta diffondendo i prodotti a km0, quanto incide nell’economia nazionale? In questa crisi non converrebbe, oltre a fare le riforme pensioni, sanità, giustizia, liberalizzazione mercati welfare,ecc, a ripensare al modello di crescita? Certo è che questa crisi non è dovuta al fatto che si producano + o – prodotti monoporzioni, ma è anche vero che non si può sempre crescere anche perché l’economia è ciclica…

    • La redazione

      Il Pil contabilizza entro una certa misura anche i cambiamenti di packaging dei prodotti: gli statistici non contano le scatole di prodotti, ma cercano di misurarne anche la qualità.
      Se “ripensare il modello di crescita” vuol dire assumere come ideale “la decrescita” come fa ad esempio il francese Serge Latouche, allora sono molto contrario. La decrescita è un ideale da snob con la pancia piena. I sostenitori della decrescita dovrebbero spiegare le loro idee alle famiglie che fanno fatica ad arrivare alla fine del mese. Senza cambiare molto le nostre abitudini, la crisi ci porterà a stare un po’ più attenti a dove e come spendiamo i nostri soldi. E questo sarà un buon risultato.

  6. luigi zoppoli

    Faccio parte della schiera dei tutti economisti. E mi arrogo quindi la facoltà di aggiungere agli interventi proposti nell’articolo la necessità di ristrutturare i meccanismi di spesa pubblica nel senso di rifurre la discrezionaltà a favore di automatismi trasparenti e soprattutto elastici. E mi fermo qui ma non senza aver sottolineato che rimane la questione Mezzogiorno, attualmente peso ma potenziale grande opportunità ed area di crescita. E vera palestra per misurare qualità, efficienza e livello etico di utili provvedimenti.

  7. Paolo Bizzarri

    Trovo stranissima l’idea che per far ripartire l’Italia, si propongano le stesse ricette che sono state proposte (e spesso applicate) in altri paesi che sono stati colpiti più pesantemente dell’Italia dalla crisi: è noto l’esempio dell’Irlanda. Inoltre, non esiste nessun legame logico fra l’analisi e le soluzioni proposte: come la riforma del sistema universitario potrebbe, ad esempio, aiutare la crescita del paese? I modelli di riferimento sono quelli statunitensi, modelli basati su un sistema fortemente drogato dal credito facile disponibile.

    • La redazione

      Sarà anche drogato, ma in tutto il mondo se chiedi a uno studente bravo dove vorrebbe studiare la risposta è quasi sempre: "Negli Stati Uniti". Il fatto che non si riesca a vedere che c’è un legame tra la diffusione di una maggiore meritocrazia US-style nel nostro sistema universitario e la crescita economica è uno dei problemi dell’Italia. Sull’Irlanda: l’Irlanda nel 1985 aveva un reddito pro-capite inferiore alla media europea. Tanti irlandesi erano andati a cercar fortuna in America. Nel 2007, l’Irlanda era diventato il paese più ricco d’Europa. Grazie a tanti anni di politiche bipartisan di attrazione degli investimenti diretti dall’estero. Ma anche con politiche di istruzione che non hanno mortificato le scuole tecniche come invece è successo da noi. Vedremo dopo la crisi cosa sarà rimasto di tutto ciò. Dubito però che l’Irlanda ritorni al 1985; aspetterei un po’ prima di seppellire gli irlandesi a Glendalough.

  8. Luca

    Quando si parla della performance dell’economia italiana bene sarebbe tenere distinti due argomenti a mio avviso differenti: il tema dell’accumulazione (o della crescita del PIL) daquello della distribuzione (ineguale…basti riferirsi al recente rapporto OCSE “Growing Unequal” per leggere i dati in chiave comparata). Sarebbe poi opportuno specificare (stavolta da parte dell’Autore) di quali riforme si intenda parlare…le riforme sul mercato del lavoro sono in effetti già state adottate…semmai sono quelle sul welfare che in Italia latitano da un pezzo (quale flexicurity senza i nuovi ammortizzatori sociali?). Suggerisco infine di riflettere attorno al tema delle mancate liberalizzazioni italiane (vedi il caso Autostrade e il caso Telecom) che fanno del nostro…purtroppo…il paese delle rendite…non certo una meraviglia di paese!

    • La redazione

      Le riforme attuate sul mercato del lavoro hanno aumentato il numero di ore lavorate totali (il che va bene) ma hanno certamente contribuito a creare un mercato del lavoro dualistico con flessibilità per alcuni e protezione del posto per gli altri, come anche sussidi di disoccupazione divisi per categoria. Di queste proposte (così come della mancate liberalizzazioni) si è parlato e discusso per mesi su questo e altri siti. Se queste proposte non sono state adottate, non è colpa degli economisti.

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