Nella diplomazia cinese, politica ed economia viaggiano insieme. L’ufficializzazione degli accordi economici tra Italia e Cina in un incontro al vertice comporterà una maggiore attenzione delle autorità cinesi a mantenere gli impegni. Ma la Cina come opportunità è caratterizzata da finestre temporali strettamente legate alle fasi del suo sviluppo. Il sistema Italia ne ha colte alcune, per altre si è mosso in ritardo. E ora, più che al difficile mercato interno cinese, le nostre aziende dovrebbero guardare alle zone del mondo dove il paese asiatico investe e crea sviluppo.

 

Era iniziato come un idillio un po’ tardivo, con le rituali firme di accordi e grandi progetti da realizzare insieme, ma si è frapposta l’emergenza Xinjiang e la visita in Italia del presidente cinese Hu Jintao si è interrotta in modo inatteso, lasciando in sospeso anche il progettato rilancio dei rapporti Italia-Cina.

POLITICA ED ECONOMIA A BRACCETTO

Nella diplomazia cinese, politica ed economia viaggiano insieme. E con l’Italia, da trent’anni a questa parte, Pechino ha difficoltà a riempire la seconda casella, quella politica. Rotazione accelerata di leader e governi prima, successiva perdita di peso in Europa, scarsa credibilità (e peso) esterni del premier Berlusconi oggi, non aiutano i cinesi a chiudere il cerchio. Non a caso, oggi, i leader italiani più “rispettati” a Pechino sono degli “ultra-ex” come Giulio Andreotti e degli “ex con statura europea” come Romano Prodi.
Dall’Europa, e quindi anche dall’Italia, oggi la Cina vorrebbe essenzialmente due cose: il riconoscimento dello status di “economia di mercato”, per evitare discriminazioni nelle procedure antidumping, e l’accesso a forniture e tecnologie militari su cui vige un embargo formale dai tempi della strage di Tienanmen. Ma non è la voce del governo italiano che può fare la differenza. 
Per l’economia le cose vanno un po’ diversamente. La serie di accordi annunciata lunedì non offre  grandi sorprese: si tratta di operazioni in buona parte già note. Comunque, la loro ufficializzazione in occasione di un incontro al vertice è significativa in quanto comporterà una maggiore attenzione delle autorità cinesi a mantenere gli impegni presi. Questo vale soprattutto per l’operazione Fiat – Guangzhou Automobile, che è anche quella più rilevante sotto il profilo strategico. La Fiat di Sergio Marchionne deve recuperare gli oltre vent’anni di ritardo accumulati in Cina dalla Fiat di Gianni Agnelli e Cesare Romiti e non sarà facile.Èvero, infatti, che le immatricolazioni di auto in Cina hanno ripreso a crescere, anche se con un po’ di "drogaggio" attraverso specifici incentivi. Ma è altrettanto vero che il mercato è oltremodo affollato. In Cina sono presenti con insediamenti produttivi tutti i grandi costruttori mondiali e il dato si traduce in un forte eccesso di capacità di produttiva. Operano con buoni margini, nei segmenti di massa, le case automobilistiche straniere insediate da tempo, con reti di vendita capillari, che hanno localizzato forti quote di componentistica e realizzano grandi numeri. Per gli altri, la strada è generalmente in salita.   

LA CINA COME OPPORTUNITÀ

La vicenda suggerisce qualche riflessione. La cosiddetta "Opportunità Cina" è stata ed è caratterizzata da finestre temporali strettamente legate alle fasi di sviluppo del paese. Il sistema Italia ne ha colte alcune, per altre si è mosso in ritardo. Èandata bene negli anni Novanta con la prima industrializzazione diffusa. La Cina infatti è stata un grandissimo mercato per il comparto della meccanica strumentale italiana: macchine tessili, utensili, per la ceramica, il marmo, il cuoio, l’industria alimentare. Ma lo è sempre meno: la massima parte di queste tecnologie le imprese cinesi  ormai le trovano in casa con costi molto inferiori. “Tengono” oggi le (non poche) aziende italiane di diversi comparti, con un profilo di business (tecnologia, prodotti, organizzazione) forte, che hanno in parte localizzato la produzione o almeno la distribuzione o l’assistenza postvendita. Tra quelle di medie dimensioni: Zegna, Prima, Camozzi, Ima, De Longhi, Natuzzi, Itema, Merloni Termosanitari, Permasteelisa, Perfetti, Grembo, Luxottica. Si aggiungono decine di aziende molto piccole, quasi tutte operanti nelle filiere componentistica/macchinari, meccanica ed edilizia.
Anche per queste, comunque, il mercato locale non è facile. Èvero che ha dimensioni rilevanti e che cresce velocemente, ma in Cina gli stranieri hanno comunque costi superiori ai locali. Il territorio è vasto, e richiede un intensa attività di promozione e l’insediamento di adeguate reti commerciali e di vendita. Èun mercato “nazionalista”. Chi è entrato in joint venture ha scoperto che spesso i partner locali puntano a “imparare il mestiere” per poi rendersi autonomi. In sostanza, per crescere su un mercato così grande ci vogliono molti capitali e disponibilità adeguate di risorse umane. Non è un caso se l’afflusso di investimenti esteri nel paese, dopo un decennio di crescita ininterrotta, è calato di oltre il 20 per cento nell’ultimo anno.
Da ridimensionare anche le aspettative sulla Cina come base produttiva “low cost” per esportare nel mondo. Un recente studio di McKinsey rivela che chi esporta apparecchiature elettroniche in Usa (il case study riguarda i server per le reti) ha interesse a produrre in Messico, invece che in Cina.
In quale direzione conviene puntare quindi? La nuova fase della politica economica cinese prevede una forte crescita della presenza estera del paese. Con investimenti nei settori delle materie prime, delle infrastrutture di trasporto e telecomunicazione, delle attività industriali di base in Asia (Pakistan, Iran, Vietnam, Filippine), Africa (Angola, Algeria, Etiopia, Sudan, Congo), America Latina (Brasile, Cuba, Venezuela), Europa dell’Est (Russia, Ucraina, Bielorussia), Asia Centrale (Kazakistan, Turkmenistan) Australia. In questi paesi, la Cina “crea sviluppo” e pone quindi le basi per una crescita più allargata. E in questi contesto c’è ampio spazio anche per le aziende del sistema Italia.
Quanto alle dimensioni del mercato cinese per l’Italia, vale forse la pena di mettere un puntino sulle “i”. La Cina viene al tredicesimo posto tra i mercati di destinazione dell’export del nostro paese. Nel 2008 l’Italia ha esportato in Cina per 6,4 miliardi di euro (+ 2,5 per cento annuo) rispetto a 7,5 miliardi in Turchia (+ 4,5 per cento), 9,6 in Polonia (+ 7,2) e 14,5 in Svizzera (+ 9,5 per cento), solo per citare alcuni mercati “minori”. Evidentemente nella voce “interscambio” la parte del leone è quella delle esportazioni cinesi pari a 23,6 miliardi (+ 9 per cento annuo). Sommando i due totali si arriva a 30 miliardi. Per arrivare ai 40 miliardi preannunciati da Hu Jintao e Berlusconi nel 2010, ne mancano all’appello 10. Auguri!

Foto: Pudong New Area, distretto di Shanghai – da internet

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